Corriere 8.9.16
Le donne e il femminismo al bivio della maternità
di Lucetta Scaraffia
Questo
articolo si inserisce nel confronto — suscitato dall’inchiesta
giornalistica «Sesso e amore» sviluppata dal Corriere — che sarà al
centro della manifestazione «Il Tempo delle Donne» in programma alla
Triennale di Milano da domani all’11 settembre.
M i è capitato di
recente: una ragazza bella, intelligente, molto impegnata nella sua
professione, raccontandomi la situazione che stava vivendo, mi ha detto:
«sono tre mesi che non batto chiodo» alludendo cioè all’assenza di
rapporti sessuali recenti. Un linguaggio che un tempo — ma neanche poi
tanti anni fa — avrebbe usato solo un soldato con un commilitone. E, dal
momento che la conosco bene, so che è una ragazza che sognerebbe solo
un amore vero, e una famiglia con dei figli, ma sa bene che la cultura
post-rivoluzione sessuale non le permette di esprimere pubblicamente —
ma forse neppure a se stessa — questa aspirazione, se non a costo di
vedersi definita come una retrograda antiquata.
Proprio lei è
l’esempio più chiaro della situazione delle giovani donne a rivoluzione
sessuale realizzata: possono fare di tutto, nessuno si permette un
giudizio su di loro partendo dal loro comportamento sessuale — e questo è
senza dubbio un bene — ma questa libertà le rende veramente libere? O —
se ancora è possibile parlare in questi termini — più felici? Per
esempio più felici delle loro nonne, che vivevano in mezzo alle
proibizioni ma che potevano dire a se stesse e agli altri che aspiravano
all’amore e alla famiglia? Con la pillola, le donne hanno potuto vivere
una libertà sessuale fino ad allora sperimentata solo dagli uomini, ma
si sono trovate a vivere un tipo di rapporti modellati sulla sessualità
maschile. Promiscuità, leggerezza, superficialità di relazioni. Rapporti
che forse non erano poi così congeniali alla sessualità femminile.
Per
di più si sono dovute assumere, con la pillola, tutto il peso della
contraccezione, anche a costo di pagarne un prezzo non irrisorio per la
loro salute. Non è un caso che oggi, in Francia e in area anglosassone,
molte giovani donne si rifiutino di utilizzare la pillola per
salvaguardare la loro salute, e preferiscano ricorrere a metodi
naturali. Sì, proprio quei metodi naturali che proponeva Paolo VI nell’
Humanae Vitae , suscitando al tempo sghignazzi e irrisione. Del resto,
bisogna anche considerare che i profeti della «liberazione sessuale»
erano tutti uomini — da Reich a Kinsey — mentre alle donne era stato
lasciato solo il compito di confermare le loro teorie con libri
autobiografici. Le donne, probabilmente, non avrebbero mai sviluppato un
programma utopico di tal portata sulla sessualità, conoscendone troppo
da vicino anche gli aspetti negativi — che ovviamente non consistono
solo nel timore di una gravidanza — che non sono certo stati cancellati
in questi decenni di liberazione. Ma certo il femminismo degli anni
Settanta ha in grande misura fatto propria questa utopia, travestendola
da utopia di liberazione della donna. Di liberazione da cosa? In primo
luogo liberazione dalla maternità, attraverso due strade che sono state
pagate dalle donne sul loro corpo, cioè la pillola e l’aborto.
Oggi
le giovani donne, che hanno tutta la libertà sessuale che vogliono, non
hanno quella di fare figli, soprattutto di fare figli da giovani. E non
solo perché il mercato del lavoro non glielo permette, ma anche perché
non trovano facilmente giovani maschi che abbiano il desiderio di
assumersi la responsabilità di fare i padri. In passato, i maschi
diventavano padri nel matrimonio, che coincideva più o meno con l’inizio
della loro vita sessuale: oggi non hanno certo bisogno di sposarsi per
avere rapporti sessuali, e in più non hanno problemi di tempo. Per loro
infatti non esiste l’orologio biologico che invece continua a
condizionare la possibilità di diventare madri per le donne, che non è
superato neppure grazie ai progressi della procreazione assistita. I
tempi della fecondità femminile sono rimasti invariati, infatti, ma la
società sembra non tenerne conto, non vuole vedere questa nuova
occasione di differenza fra i sessi che penalizza le donne.
In
sostanza le donne, nei Paesi occidentali, stanno pagando il mancato
riconoscimento culturale e sociale attribuito alla procreazione.
Proporre il dilemma fra creazione di qualsiasi tipo (la creazione di una
linea di abbigliamento, di un nuovo piatto o di un marchio
pubblicitario...) e procreazione — e svalutando la seconda a favore
della prima — significa, infatti, negare valore al ruolo biologico della
donna e spingerla ad assumere un ruolo maschile. Mentre la procreazione
dovrebbe essere considerata una ricchezza essenziale per tutta la
comunità umana.
L’antitesi alla libertà sessuale, intesa sempre,
in fondo, come libertà dalla procreazione, non è solo il Fertility day
proposto dalla ministra della salute Lorenzin. In Francia ci sono
filosofe femministe che stanno elaborando una visione nuova e critica
del femminismo cercando di affrontare la questione fondamentale: come
rinnovarsi senza perdere il senso profondo e ricco delle relazioni
femminili tradizionali? Senza condannarci a una società fredda e
dominata dall’utile, dall’utopia del piacere?
Come fare perché le
donne, anche dal punto di vista del comportamento sessuale, non
diventino «un uomo come un altro» ma possano restare se stesse? C’è
ancora molto lavoro da fare, molto da riflettere senza lasciarsi
incantare dalle ideologie del passato, che ormai hanno fatto il loro
tempo, e in sostanza hanno fallito la loro promessa utopica di felicità.