giovedì 8 settembre 2016

Corriere 8.9.16
La fragilità del sistema può fare risalire le quotazioni di Renzi
di Francesco Verderami

La fragilità del sistema politico è tale che basta poco perché gli equilibri cambino. E infatti sono bastati due mesi per invertire la tendenza: l’estate che era iniziata offrendo l’immagine di un nuovo bipolarismo imperniato sul duello Renzi-Di Maio, va chiudendosi con il premier che torna ad apparire come l’uomo senza alternative. Certo il leader del Pd si è progressivamente indebolito, l’aura del rottamatore è stata intaccata dagli eventi, dalle difficoltà di governo, sfruttate dagli avversari esterni e soprattutto interni al suo partito, che ormai mostrano pubblicamente di volerlo rottamare.
Questa strategia di logoramento e accerchiamento faceva (e fa tuttora) perno sulla forza d’urto dei Cinquestelle. Ma i vincitori delle Amministrative sono finiti prigionieri di un teorema — se sapranno governare Roma sapranno governare l’Italia — che sembra ribaltarsi. E che rischia di annichilirli. La crisi del Movimento potrà anche essere momentanea, però è stata sufficiente a modificare la geografia politica. È da vedere se tutto ciò inciderà nel Palazzo e nel Paese, perché quel blocco sociale ostile all’establishment — radicato peraltro in tutto l’Occidente — prescinde dal grillismo. Anche se in Italia è il grillismo a rappresentarlo.
E dunque, al fixing attuale, la partenza fallimentare della giunta Raggi in Campidoglio potrebbe influire persino sul risultato referendario: magari non si assisterebbe a uno spostamento di voti dal No verso il Sì, ma basterebbe che un pezzo di elettorato grillino deluso trasmigrasse verso l’area dell’astensionismo, per avvantaggiare Renzi e la sua riforma costituzionale. Non a caso l’approccio del premier alla crisi di M5S è scevro di accenti polemici: serve a conquistare consensi in vista della consultazione popolare, o quantomeno a spostarli su posizioni meno intransigenti.
Le difficoltà dei grillini hanno riflessi anche sulle manovre in Parlamento, riducono i margini d’azione di quanti puntavano (e puntano) sulla sconfitta del referendum per sostituire il presidente del Consiglio nello scorcio finale della legislatura: è il «governo della Bicamerale», che il leader del Pd ha evocato parlando dell’intesa tra D’Alema e Berlusconi. Il progetto, di per sé complicato, appare allo stato irrealizzabile per effetto del «caso Roma», perché dentro M5S è finita sotto accusa l’area guidata da Di Maio, che stava tentando di dare un volto istituzionale al Movimento.
Nei mesi scorsi il vicepresidente della Camera aveva detto che — in caso di crisi di governo — i grillini avrebbero «rispettato le decisioni del capo dello Stato», accreditando l’idea di un «patto di non aggressione» verso chi mirava (e mira) al cambio di premier e di governo, prefigurando così un tipo di opposizione inflessibile ma non barricadera. Il «caso Roma» cambia però i rapporti di forza nel Movimento. E lo spostamento verso una linea se possibile più radicale — anche in ambito parlamentare — innescherà una competizione con gli altri partiti di opposizione, a partire dalla Lega. A quel punto Forza Italia — semmai puntasse davvero al «governo della Bicamerale» — sarebbe costretta ad abbandonare i propositi di larghe intese per non correre il rischio di spaccarsi ulteriormente.
È il default di sistema che induce tanto le Cancellerie internazionali quanto il mondo delle imprese e del lavoro a propendere per un appoggio a Renzi, restituendolo — seppur sbiadito — al ruolo dell’uomo senza alternative. È il timore del caos che spinge (anche) a sostenere il fronte del Sì al referendum. D’altronde oggi le riforme costituzionali sono vissute — per effetto del gioco mediatico — come un rifugio dei conservatori, mentre il voto contrario incarna l’idea del voto antisistema. Sarà un paradosso, ma per il premier entrato in scena con l’immagine dell’innovatore è oggi un ancoraggio da sfruttare nel Paese.
Nel Palazzo, invece, Renzi cerca di riprendere vantaggio facendo leva sulla modifica dell’Italicum, annunciando che è pronto a cambiarlo «se in Parlamento ci saranno i numeri». Ma i numeri in Parlamento li ha il Pd, di cui Renzi è il leader, perciò la furbizia tattica è presto smascherata: tocca al premier e segretario dei Democratici innescare il processo politico e incardinare l’iniziativa a livello parlamentare, se davvero vuole ritoccare la legge elettorale «anche senza l’intervento della Corte costituzionale». In caso contrario, specie se la Consulta non dovesse agire, sarebbe chiaro che si è trattato di un espediente, di una mossa dettata dalla contingenza. Ma la fragilità del sistema è tale che basta poco perché gli equilibri tornino a cambiare. E il fixing di oggi non è detto che resti stabile.