Corriere 7.9.16
Legge elettorale sacrificata sull’altare del referendum
di Massimo Franco
Può
essere un indizio della grande abilità manovriera di Matteo Renzi,
oppure della sua marcata debolezza in questa fase. Il modo in cui ieri
in tv il premier ha per la prima volta accettato l’idea di cambiare
sistema elettorale, il cosiddetto Italicum, è risultato insieme
prevedibile e stupefacente. Prevedibile perché sapeva e sa di dovere
fare i conti con l’ostilità nei confronti della legge, radicata non solo
nella minoranza del Pd ma nell’alleato del Nuovo centrodestra di
Angelino Alfano. Stupefacente perché fino a qualche mese fa l’Italicum
era presentato come uno dei pilastri che Palazzo Chigi definiva
irrinunciabili per dare stabilità al futuro sistema.
La
svolta, che naturalmente gli oppositori chiamano voltafaccia, va
inserita in realtà nella sua strategia sul referendum istituzionale.
Renzi ritiene che, per sperare di disarmare gli avversari interni, deve
offrire loro soprattutto una garanzia di sopravvivenza elettorale; e
gliela dà, almeno in linea di principio, senza aspettare la pronuncia
della Corte costituzionale prevista il 4 ottobre proprio sull’Italicum.
Anche perché quel responso appare tutt’altro che scontato. Il presidente
del Senato, Pietro Grasso, di recente non ha escluso che la Consulta
respinga il ricorso e neghi la propria competenza, perché si tratta di
una legge mai applicata finora. In quel caso, il governo si troverebbe
ancora di più nel limbo.
Dunque, «noi siamo
pronti a cambiare l’Italicum se ci sono i numeri in Parlamento. Sia che
la Corte costituzionale dica sì, sia che dica no», concede Renzi. E
ancora: «Io sono affezionato all’idea di poter scegliere con le
preferenze, ma mi va bene anche il collegio uninominale». Bacchettata ai
partitini: «Il vero problema di questa legge elettorale è che non piace
ai piccoli partiti perché gli toglie potere». Sono frasi che,
allineate, danno l’idea di un cedimento alle ragioni altrui; e che
prendono atto di resistenze e perplessità trasversali.
Rimane
da chiedersi se questo basterà a placare le altre forze politiche e a
rendere meno virulenta la polemica sul referendum costituzionale. Il
fatto che ieri Renzi abbia parlato di una data «tra il 15 novembre e il 5
dicembre» conferma che vuole prendersi tutto il tempo concesso dalla
legge; e questo non è un messaggio di forza che dà al Paese. Si intuisce
che teme la consultazione, e cerca di arrivarci smussando ogni
possibile attrito. D’altronde, non ha offerte di riserva. È un momento
brutto, in cui l’Istat certifica la fine della ripresa economica, la
sinistra si azzuffa e l’Europa non ha voglia di pensare ai problemi
italiani, si tratti di flessibilità o immigrazione.
Il
risultato è che Renzi deve ripiegarsi sulla crisi, e piegarsi alle
pressioni. Per paradosso, l’unico aiuto, involontario, gli arriva dalle
convulsioni del Movimento 5 Stelle in Campidoglio. Aiuto non richiesto, e
certo non voluto, dai seguaci di Beppe Grillo. Il governo ringrazia:
quanto accade è destinato a lasciare il segno meno sulla credibilità di
una forza che dopo avere conquistato Roma e Torino sogna Palazzo Chigi.
Il grazie simbolico di Palazzo Chigi è a breve termine, tuttavia: per
sgonfiare il M5S serviranno credibilità e soprattutto risultati.
Altrimenti, la febbre del sistema continuerà a montare, insieme ai
consensi a un movimento intrappolato nella sua identità.