Corriere 6.9.16
Moro , lo stratega pensoso
di Andrea Riccardi
La
«Repubblica dei partiti» sembra lontana in questo tempo di politica
personalizzata. Il suo sistema, così partitocratico, appare poco
trasparente, bizantino nel formarsi e scomporsi di maggioranze,
disattento alla governabilità e alla spesa pubblica pur di ammortizzare
le difficoltà politiche. È un modo di far politica caduto in discredito
con Mani pulite, che ne ha rivelato gli aspetti di corruzione (peraltro
poi non estirpata). Eppure questa è la storia attraverso cui l’Italia si
è trasformata profondamente in quasi mezzo secolo. Le masse italiane,
tradizionalmente spettatrici, entrarono allora in politica con larga
partecipazione. Hanno votato e discusso di politica con passione. Non è
facile, però, raccontare questa storia proprio per la sua complessità. I
primi anni sono caratterizzati da Alcide De Gasperi, presidente del
Consiglio dal 1945 (l’ultimo del Regno) al 1953. L’origine della
Repubblica coincide con l’età di De Gasperi. Ma poi? La storia
successiva appare complicata. Ha per protagonista un collettivo dai
molti volti: la Democrazia cristiana, che Agostino Giovagnoli ha
definito «il partito italiano» o della nazione.
Guido Formigoni,
con Aldo Moro. Lo statista e il suo dramma , in uscita dopodomani per il
Mulino, mostra come il politico pugliese ebbe, lungo gli anni, una
grande capacità di sintesi e guida nel variegato gruppo dirigente
democristiano. Dopo la sua uccisione da parte dalle Brigate rosse nel
maggio 1978, non ancora sessantaduenne, la Dc non è stata più la stessa.
Eppure Moro, per molti, ha incarnato i difetti del partito: far
politica lontano dalla gente. Formigoni riporta come l’immagine dello
statista sia stata anche quella «dell’involuto e oscuro custode degli
arcani del potere, del pigro e levantino insabbiatore di ogni processo
innovativo». Più chiaro, seppur criticato, fu l’attivismo politico di
Amintore Fanfani. Moro è stato tuttavia uno degli attori più incisivi
del cambiamento della società italiana.
La sua biografia è quella
dell’ingresso di tanti giovani nella vita politica dopo la guerra. Moro
era nato cento anni fa, il 23 settembre 1916, a Maglie, in Puglia,
figlio di insegnanti elementari. La sua vicenda è ripercorsa da
Formigoni in modo documentato e attento. Attraverso l’associazionismo
religioso, entrò nel nuovo scenario politico apertosi con la fine del
fascismo. Un tratto pensoso lo contraddistinse fin da giovane. Del resto
il rapporto tra cultura, ideologia e politica era allora rilevante per
parecchi partiti del dopoguerra. In Moro non c’era la passione per una
politique d’abord , nonostante la sua accortezza politica. È stato un
intellettuale, un giurista, un attento osservatore della realtà
italiana. Accentuò questo carattere negli ultimi dieci anni di fronte
alle spinte del Sessantotto e alle domande di cambiamento. Pure negli
scritti dal carcere delle Br, emerge il suo carattere pensoso. Eppure
Formigoni, a ragione, registra l’«odio diffuso» di cui era oggetto,
ricordando che, alla notizia del rapimento, il cardinal Giuseppe Siri,
fiero avversario dell’apertura morotea ai socialisti prima e, poi, ai
comunisti, disse: «Ha avuto quello che si meritava per aver trafficato
con i comunisti». Una personalità di segno diverso, Altiero Spinelli,
l’avrebbe giudicato «un animo da coniglio» nel carcere bierrista. Il
segretario di Stato americano Henry Kissinger lo considerava tortuoso e
cedevole verso i comunisti.
In realtà, Moro ha segnato con
coraggio e visione la storia d’Italia della seconda metà del Novecento:
presidente del Consiglio per sette anni e in cinque governi; ministro
degli Esteri per cinque anni (per due anni sottosegretario nello stesso
dicastero); segretario della Dc per quattro anni. Oltre a lui, l’altro
«cavallo di razza» della Dc (per usare l’espressione di Carlo Donat
Cattin) fu Fanfani, di qualche anno più anziano, politico dal carattere
più perentorio e fattivo. Moro è stato però il grande stratega: dal
superamento del centrismo con l’apertura ai socialisti alla «solidarietà
nazionale» (l’apertura ai comunisti). Scevro da protagonismi (tanto
che, quando fu rapito, occupava il posto modesto di presidente del
Consiglio nazionale Dc), amava più la persuasione che il leaderismo. Si
esprimeva con discorsi complessi e articolati, talvolta ermetici, che
invitavano a pensare e creavano consenso. A Moro e Fanfani si deve la
decisione di portare la politica in Rai con Tribuna elettorale , facendo
parlare e interrogare i leader dei partiti.
Per Moro, la Dc era
l’asse centrale della politica italiana: «Sento — dice nel 1959 —
l’insostituibile funzione del partito come filtro delle esigenze
complesse della vita politica, economica e sociale del Paese… la vedo
come manifestazione efficace di opinioni, come strumento di educazione e
guida del popolo italiano». Secondo lui la democrazia non avrebbe
tenuto senza i partiti e la Dc. Non bastava la gestione del potere:
occorreva sintonizzarsi con gli sviluppi della società senza
avventurismi, ma anche senza paura del futuro. Era preoccupato, negli
ultimi anni, che il partito si avvitasse su di sé. Formigoni
ricostruisce l’azione di Moro nel partito e al governo. Disegna quasi
un’«anatomia del potere italiano» (per usare l’espressione di Miguel
Gotor), ricostruendo le dinamiche della classe dirigente: un gioco
complesso, intreccio di fattori politici e personali, in cui si vede un
ruolo tutt’altro che grigio del Quirinale di Gronchi, di Segni e di
Saragat. Si delineano minacce golpiste, azioni terroristiche, reti
oscure, vicende internazionali condizionanti, interventi della Chiesa...
Moro si muove, accorto e determinato, facendo sintesi tra spinte
differenti. È allo stesso tempo realista e di visione: «La gente pensa
che abbiamo un’autorità immensa, che possiamo fare e disfare tutto…»,
confida a Eugenio Scalfari. E aggiunge: «Il lavoro di sintesi è ancora
più faticoso e incerto».
Perché Aldo Moro fu preso dalle Brigate
rosse? Si trattava del bersaglio più facile, secondo Francesco Cossiga.
Era però anche il cardine e il simbolo del sistema che, tra difficoltà,
stava entrando nella «terza fase» della democrazia italiana. Nell’ultimo
capitolo della biografia di Formigoni, dedicato ai 55 giorni di
prigionia, emerge che «lo Stato italiano non ha fatto nel suo complesso
quanto sarebbe stato possibile per salvare Moro con la via maestra
dell’efficienza delle forze dell’ordine». La classe dirigente fu
attonita, bloccata, quasi incapace di maneggiare le leve del potere a
fronte delle Br, violente e inconsistenti politicamente. Mancò una
sintesi. Paolo VI, ormai anziano (morì tre mesi dopo) non vi riuscì in
quel turbinoso momento. Non era proprio il suo compito, ma non trovò
interlocutori politici. Eppure Montini era stato l’artefice della Dc e
del consenso cattolico alla democrazia: l’«unico Papa democristiano» —
lo definì Emile Poulat. In quel maggio 1978, «un po’ della Democrazia
cristiana se n’è andata» — scrisse il prigioniero delle Br. La Dc non fu
più la stessa. L’assetto politico si sarebbe consumato negli anni
Ottanta. Lo si poteva prolungare un po’, ma una rottura era avvenuta in
profondità alla fine degli anni Settanta e sarebbe emersa. Così la Dc e
anche il sistema sono implosi. Il vuoto aperto dalla morte di Moro
mostra il suo ruolo decisivo negli anni precedenti, più di quanto si
credeva.