Corriere 6.9.16
Esportiamo un patrimonio editoriale: oltre 6 mila titoli tra fiabe e romanzi
di Roberta Scorranese
Per
spiegare il peso specifico della letteratura italiana nel mondo si può
ricorrere al postulato «del formaggio di Geronimo Stilton». Come gli
affezionati del topastro sanno bene, lui punteggia i discorsi con
l’intercalare «per mille mozzarelle!», «per mille caciotte!», e così
via, alternando vari tipi di formaggio. Bene, in Cina i traduttori di
Geronimo hanno un problema: lì non c’è una così ampia varietà di
latticini.
Allo stesso modo, in pochi Paesi come il nostro c’è una
ricchezza densa di figure popolari (pensiamo ai munacielli di Napoli o
alle pantafiche , fantasmi femminili della zona picena) molto diverse da
zona a zona. In Italia il dialetto (e quindi un intero universo
linguistico e simbolico) cambia nello spazio di una manciata di
chilometri, così come la sfumatura dei tramonti, l’espressione delle
madonne delle tavole trecentesche, il giallo delle pesche e il senso
dell’umorismo. «E, che ci piaccia o meno, la letteratura è anche tutto
questo», osserva Giovanni Peresson, responsabile dell’Ufficio studi
dell’Aie, l’Associazione degli editori, che ha definito in cifre il peso
della nostra editoria all’estero, cioè quanti titoli esportiamo. E i
dati sono interessanti: nel 2015 le case editrici italiane hanno venduto
i diritti di quasi 6 mila titoli (+11,7% sul 2014 e +69,5% rispetto al
2007). Certo, resta sempre più alto il numero degli autori che
importiamo (gli acquisti crescono del 38,2% sul 2007), però l’interesse
degli altri Paesi verso i nostri scrittori è un dato in aumento.
Il fattore «italianità»
E
il campo dove siamo tra i leader è quello della narrativa per bambini e
ragazzi (nel 2015 il 9,5% dei titoli ha trovato interesse negli
stranieri, quasi un titolo su dieci ha un mercato estero, mentre nel
2001 era il 3,2%). «Vale a dire quel mondo dove l’ambientazione italiana
è meno rilevante, dove i temi sono più universali» e dove siamo in
diretta concorrenza con gli americani, nota Lorenzo Garavaldi, direttore
della Business Unit Ragazzi del gruppo Mondadori.
Attenzione:
vinciamo proprio lì dove ce la giochiamo con i più bravi? Siamo forti
nel campionato più difficile? «In un certo senso sì — dice Garavaldi — e
qui entrano in gioco alcuni fattori difficilmente definibili, come la
grande capacità inventiva degli italiani. Pensiamo a Licia Troisi (una
saga fantasy da oltre tre milioni di copie vendute, ndr ): il suo valore
aggiunto sta nel personaggio femminile che ha inventato (Talitha, ndr
), innovando così il genere fantastico». Ecco che dietro il successo
degli italiani all’estero c’è anche quel fattore che va citato con
cautela perché il rischio di retorica è grande: l’italianità . Una
combinazione singolare di intuito e creatività che a volte fa la
differenza.
Come nell’altro grande caso italiano, creatura di
Piemme e di Elisabetta Dami: Geronimo Stilton, le cui storie sono
tradotte in 46 lingue e hanno venduto oltre 128 milioni di copie nel
mondo. «Il successo del topo in Asia — dice Garavaldi — risiede anche
nella sua struttura compositiva, dove segno grafico e immagine formano
un’intima unità che noi occidentali non cogliamo bene, ma quelle culture
sì». Per inciso: Geronimo, alla fine del 2014, vendeva 6 milioni di
copie solo in Cina, dove era arrivato nel 2009. E ancora: scorrendo
l’elenco dei più pubblicati all’estero, oltre ai nomi più o meno
scontati come Eco o Magris, compare Pierdomenico Baccalario, autore di
libri per ragazzi tradotti in circa 20 lingue, che hanno venduto oltre
due milioni di copie nel mondo. E Mariagrazia Mazzitelli, direttrice
editoriale di Salani, cita due autrici come Silvana Gandolfi e Silvana
De Mari, che «all’estero non sono solo tradotte e molto ben vendute, ma
ricevono premi letterari prestigiosi». Gandolfi è venduta in 11 Paesi,
De Mari in 19. Peresson invita a riflettere anche sulla scuola degli
illustratori, che «qui ha una tradizione radicata e spesso
sottovalutata. Molti editori stranieri vogliono la copertina fatta da
italiani». Esempio: Iacopo Bruno, le cui illustrazioni per Scary Tales
di James Preller sono stati inclusi dalla Society of Illustrators di New
York fra i cento libri meglio disegnati del 2013.
Il caso Elena
Ferrante è un’altra storia. Edizioni E/O, che pubblica il personaggio
dietro pseudonimo inserito tra le 100 persone più influenti del 2016 da
Time , ha aperto una casa editrice in America, Europa Edition, il cui
direttore Michael Reynolds spiega: «Ferrante è stata un’eco positiva per
gli italiani: ha acceso un faro su altri scrittori connazionali, specie
su un mercato difficile come quello americano, molto legato al proprio
immaginario. Secondo me, per dire, il successo di Piperno sta nel fatto
che lo si assimila, per temi e stile, a Bellow e a Roth».
E sapete
chi è un altro best seller negli Stati Uniti? Alberto Angela. E qui si
apre il fronte della saggistica, dove non brilliamo per export e il
volume nel 2015 è in calo dello 0,8% sull’anno prima. Però ci sono casi
interessanti come Sette brevi lezioni di fisica di Carlo Rovelli
(Adelphi), uno dei pochi saggi italiani recensiti dal New York Times
nella prestigiosa sezione Book Review. Perché sulla saggistica siamo
forti quando troviamo la nota giusta : uno stile originale, distante dal
provincialismo e capace di proiettarsi in un ambito internazionale.
Che, insomma, non sia semplice divulgazione, ma che vada oltre. «Ecco
perché si vendono molto bene, per esempio, i libri di Montanelli o della
Fallaci — spiega Massimo Turchetta, direttore di Rizzoli libri — oppure
Odifreddi, che con il suo Il museo dei numeri ha conquistato la Cina».
Questa dimensione «intelligente» della divulgazione, che fa un passo
avanti nella qualità, prosegue nel solco tracciato da italiani come
Piero Camporesi e Carlo M. Cipolla e, se coltivata bene, diventa anche
un successo economico.
Turchetta nota che questo piccolo miracolo
nasce dalla «frequentazione degli ambienti internazionali da parte degli
autori. E c’è un campo ancora da dissodare: quello della divulgazione
d’arte, dove l’Italia avrebbe un vantaggio consistente rispetto ad altri
Paesi». Peresson osserva: «Lo sa qual è una delle collane più tradotte?
È Farsi un’idea del Mulino: brevità, chiarezza espositiva, racconto.
Oltre a questo, agli studiosi-divulgatori oggi si chiede di pensare con
orizzonti allargati, che guardano all’estero». Nei temi, nella scrittura
(persino nella lingua: editori come Viella, che fa titoli storici,
pubblicano molti testi direttamente in inglese), nei toni. È anche per
questo che gruppi come GeMS o Newton Compton fanno da anni un lavoro
certosino, coltivando scrittori di genere capaci di competere con i
colossi anglosassoni.
«Global», ma con tradizioni
La
tradizione del romanzo intimista, come è ovvio, vende poco all’estero.
Invece uno come Donato Carrisi incassa 3 milioni di copie nel mondo con i
suoi thriller. Ma questo non significa omologazione culturale:
prendiamo Marcello Simoni, 43 enne di Comacchio, studioso di storia e
archeologia, che in molti dei suoi romanzi storici recupera le
peculiarità del Medioevo italiano. E, nella saggistica, a sorpresa,
spunta un altro campo che ci vede leader: il sacro. Non parliamo solo di
Il nome di Dio è Misericordia , il primo libro-intervista di papa
Francesco, dove Piemme ha registrato un successo mondiale (uscito a
gennaio è già in 97 Paesi), ma anche di libri di preghiere, dei saggi di
Enzo Bianchi, priore di Bose, o persino delle ricette di Suor Germana.
Peresson riconduce questa «sete di religione» a una «ricerca di senso
come contrappunto alla globalizzazione. In un mondo interconnesso
cerchiamo approdi. Molti li trovano nella fede e nei suoi simboli». E
qui noi siamo tra i più venduti all’estero perché abbiamo editori
specializzati e traduttori esperti.
Perché esportare editoria non
vuol dire solo tradurre volumi, ma vendere format, come quello che
Peresson definisce «geoeditoria», fenomeno (forse peculiarità italiana)
di piccole case editrici specializzate in autori di una data area
geografica, come Voland per l’Est Europa o ObarraO con il Sudest
asiatico. E potremmo esportare anche un modello di librerie come
Feltrinelli, così come abbiamo imposto Eataly? Peresson non risponde e
conclude con un elogio al lavoro dell’Ice, Istituto per il commercio
estero («Che non solo promuove libri ma anche la cultura che ci sta
intorno») e un invito a valorizzare i contributi alle traduzioni erogati
dall’Italia agli editori stranieri: «L’Italia, per questo genere di
politiche ha visto tra 2013 e 2014 una riduzione del contributo dell’11%
(da 220 a 196 mila euro), anche se è aumentato il numero di Paesi (da
30 a 38) da cui provengono le richieste». Insomma, gli stranieri
vogliono i nostri libri ma, da parte nostra, gli incentivi alle
traduzioni calano. Se la Cina non ha tanti formaggi quanti quelli di
Geronimo, dovremmo aiutarli a trovare un’alternativa. Per mille
caciocavalli!