Corriere 5.9.16
Lieberman ai militari d’Israele: basta aiutare i baby rifugiati eritrei
L’esercito prestava soccorso agli asili-deposito. Il ministro: pensate ai nostri anziani
di Davide Frattini
TEL
AVIV La divisa verde militare che i genitori hanno seppellito nel
deserto prima di scappare non rappresenta per questi bambini il colore
dell’oppressione. Vedevano i giovani soldati entrare dai cancelli di
ferro altrimenti chiusi tutto il giorno, sapevano che il loro arrivo
portava in dono risate, attenzione e una gita al parco.
Ogni alba i
padri e le madri eritrei lasciano i piccoli in uno degli 80
appartamenti sparsi nel sud di Tel Aviv, due stanze che i gestori
nigeriani chiamano asili nido e da queste parti tutti conoscono come i
«depositi». I bimbi con meno di sei anni — sono 3 mila, nati in Israele —
ci restano per 10-12 ore, qualcuno anche la notte se i turni da
sguatteri tengono lontani i genitori più a lungo. «Sono ammucchiati in
50-60, lasciati stesi sul pavimento, non ci sono finestre, d’estate la
temperatura raggiunge i 35-40 gradi. Non è neppure colpa di chi li
amministra: è miseria che genera miseria», racconta Anat Mordechai
mentre distribuisce i giocattoli che ha portato.
È una volontaria
dell’organizzazione Elifelet, che cerca di migliorare le condizioni
malsane dei «depositi», dove 15 bambini sono morti dal 2012. Per Anat e
gli altri un grande sostegno è arrivato dalle reclute che i comandanti
delle basi qua attorno mandavano a prendersi cura dei piccoli per
qualche ora. L’esercito israeliano considera questi servizi tra la
popolazione parte dell’educazione nei tre anni (due per le donne) di
leva obbligatoria. Al punto che gli asili semiclandestini sono stati
visitati anche da soldati del Sayeret Matkal, una delle unità speciali
più decorate e prestigiose del Paese.
«Adesso siamo rimasti soli»,
dice Anat. Perché poche settimane fa Avigdor Lieberman ha telefonato a
Gadi Eisenkot, il capo di Stato Maggiore, e da ministro della Difesa
appena incaricato gli ha comunicato che quei turni di generosità
dovevano finire: «Se i soldati hanno del tempo libero, aiutino gli
anziani sopravvissuti all’Olocausto o i bisognosi israeliani. La carità
dovrebbe cominciare dai compatrioti».
L’oltranzista e nazionalista
Lieberman ha reagito alla foto pubblicata su Facebook da May Golan,
attivista di destra con ambizioni da deputata che ha fondato
l’associazione Città Ebraica e vuole «ripulire» Tel Aviv dagli
«infiltrati», come la legge israeliana chiama i rifugiati eritrei o
sudanesi. «Mi sono sentita tradita dall’esercito — ha scritto —. Così
gli ufficiali sembrano timbrare il visto di approvazione: potete
rimanere».
Gli «infiltrati» non vorrebbero rimanere e non ne
arrivano più dal 2010, da quando il premier Benjamin Netanyahu ha dato
ordine di costruire la barriera al confine con l’Egitto. Gli eritrei
venivano contrabbandati dai beduini — per loro una merce come un’altra
assieme alla droga — attraverso la penisola del Sinai, marce forzate
senz’acqua e senza cibo per fuggire dalla dittatura che ad Asmara li
costringe a prestare il servizio militare senza data di scadenza.
L’Eritrea non è in guerra ma il presidente Isaias Afwerki sfrutta la
propaganda di un altro possibile conflitto con l’Etiopia per
schiavizzare attraverso la divisa l’intera popolazione.
In Israele
sono rimasti bloccati quasi 33 mila eritrei, in 10 mila hanno richiesto
asilo, lo status e i documenti riconosciuti dalle Nazioni Unite
permetterebbero loro di andarsene in un altro Paese. Stanno ancora
aspettando. «Questo Stato è stato anche fondato come rifugio per gli
ebrei contro la violenza antisemita — scrive il quotidiano conservatore
Jerusalem Post —. Così noi dobbiamo aiutare chi scappa dalle
persecuzioni. Lasciate che i soldati vadano da quei bambini». È quello
che proclama in pubblico il presidente Reuven Rivlin ed è quello che
sussurra Anat: «I miei nonni hanno attraversato la stessa sciagura negli
anni Quaranta. Come possiamo dimenticarlo quando sono gli altri a
soffrire?».