Corriere 30.9.16
I passi falsi (e il tramonto) della sinistra in Europa
di Paolo Valentino
C’è
stato un tempo nel quale si poteva viaggiare da Nord a Sud in Europa
senza passare per un Paese governato dalla destra. C’è stato un tempo
nel quale la sinistra, protetta dal caldo igloo della Guerra fredda,
anche quando non era al potere aveva l’egemonia culturale. Suo era il
marchio di fabbrica della politica europea, la convinzione prevalente di
possedere la migliore ricetta economica, quella che combinava Stato e
mercato, ridistribuendo risorse e riducendo la forbice delle
disuguaglianze.
Verso la fine degli Anni 90, c’ è stato anche un
tempo nel quale la sinistra in Europa sembrò in grado di rinnovarsi
rimanendo fedele a se stessa. Sotto la spinta di leader come Tony Blair,
Gerhard Schroeder, lo stesso Romano Prodi, le forze progressiste
tornarono vincenti indicando una nuova strada, la suggestione della
Terza Via o della Neue Mitte, il nuovo centro che prometteva di
correggere gli eccessi statalisti del passato, conciliando merito e
bisogno, sicurezza e democrazia, protezione sociale e bilanci sani.
Vent’anni dopo, come in un romanzo di Dumas, i moschettieri della
sinistra europea siedono sopra un paesaggio di macerie. Che siano o no
al governo, il loro peso elettorale è in caduta libera, gli elettori
tradizionali (lavoratori, intellettuali, popolo del volontariato) in
fuga, vulcanizzati nell’astensionismo o attratti dalle sirene di
alternative estreme o anti-sistema, sia a sinistra che a destra. In
Spagna, la guerra civile impazza nel Psoe. Il giovane Pedro Sanchez ha
portato il partito di Felipe Gonzalez al peggior risultato di sempre e
ora fronteggia una rivolta dei colonnelli, che lo vorrebbero spingere a
una grande coalizione centrista con i popolari, mentre la base invoca la
svolta radicale e l’intesa con Podemos. In Gran Bretagna,
l’establishment laburista barcolla ascoltando le note di Bandiera Rossa,
che hanno accompagnato la rielezione al vertice del partito di Jeremy
Corbyn, profeta di un socialismo del XXI secolo, neostatalista,
no-global, pacifista e protezionista. I sondaggi predicono che sotto la
sua guida, il Labour Party che fu di Attlee, Blair e Brown rischia una
quasi estinzione.
In Francia, François Hollande ha soprattutto
mantenuto le promesse degli altri, scegliendo di proseguire sul solco
dei governi di centrodestra, in cambio di uno strapuntino al sole al
fianco di Angela Merkel. Si ritrova con la più bassa popolarità di un
presidente francese da quando esistono i sondaggi e una schiera di
sfidanti alla sua sinistra che gli contendono la candidatura socialista.
La socialdemocrazia tedesca è l’ombra di se stessa, in crisi di
leadership, contenuti, consensi. Cadetta nella Grosse Koalition, la Spd
si è vista sottrarre davanti agli occhi la sua piattaforma elettorale,
divenuta quella della signora Merkel, dall’uscita dal nucleare ai
migranti, al salario minimo. E se è vero che Gesù è morto e Karl Marx è
morto, neppure Matteo Renzi si sente (politicamente) troppo bene.
L’unico leader di sinistra di un grande Paese europeo fin qui vincente,
si prepara ad affrontare il Capo di Buona Speranza del referendum
costituzionale, con un partito diviso e contro una surreale coalizione,
dove politica e antipolitica si danno la mano nel fargli la guerra. Ma
la crisi della sinistra europea non è solo la sommatoria di casi
nazionali (potremmo aggiungere Grecia, Olanda, Austria). È una crisi
identitaria, prodotta da quella che l’ex ministro degli Esteri tedesco
Joschka Fischer definisce «l’incapacità di trovare una ricetta economica
veramente nuova, nelle condizioni diverse imposte dalla globalizzazione
e dalle migrazioni internazionali». La sinistra di governo in Europa ha
fatto promesse che non poteva mantenere. Non ha impedito l’aumento
delle disparità sociali. Ha sottovalutato, per cattiva coscienza
ideologica, l’impatto dell’immigrazione sulle classi popolari, che si
vedono vittime incomprese. E ha indicato nell’Europa un progetto
protettore che non è percepito come tale, subendo in pieno il riflusso
violento dei nazionalismi. L’esito è devastante: la disconnessione dalla
propria base elettorale tradizionale, la trasformazione dei partiti di
sinistra in partiti d’élite. Impossibile oggi rispondere alla domanda se
la sinistra in Europa saprà risalire la china o se rischia una lunga
traversata del deserto, non necessariamente a lieto fine. Ha ragione chi
definisce ormai prive di senso le etichette destra-sinistra, di fronte
al riallineamento politico che mette gli uni contro gli altri i vincenti
e i perdenti della globalizzazione? O di fronte al cambio di paradigma,
è necessaria una rivoluzione intellettuale che ripensi in primo luogo
la qualità del ruolo pubblico, nazionale o sovranazionale, vero alfa e
omega di ogni ricetta progressista? «È una delle leggi fondamentali
della Storia — chiudeva Stefan Zweig, Il Mondo di Ieri — che essa
impedisca ai contemporanei di discernere i grandi movimenti che
determinano la loro epoca».