giovedì 29 settembre 2016

Corriere 29.9.16
La «repubblica europea» che rischia di crollare
di Paolo Lepri

Convincere il tempo a fermarsi non è mai stata, purtroppo, una soluzione alla portata degli uomini. Non funziona nella storia e meno che mai nella vita. È solo una eroica utopia al contrario, riservata soprattutto ai sognatori. Proprio per questo nessuno si sarebbe mai aspettato che una leader così poco fantasiosa come Angela Merkel, commentando dieci giorni fa la sconfitta del suo partito nelle elezioni del Land di Berlino, esprimesse il desiderio impossibile di riportare indietro le lancette dell’orologio. Si sarebbe così potuto affrontare in modo più organizzato la crisi dei rifugiati e mettere meglio a punto le politiche di accoglienza per i dannati della terra che stanno cambiando tutto quello che vediamo intorno a noi.
Sentire la cancelliera ragionare come Jorge Luis Borges è l’ultimo paradosso degli anni difficili che stiamo attraversando. Pensando ancora al grande scrittore argentino, il vero pericolo è che l’ex donna più potente del globo e gli altri leader europei si ostinino ad agire come il protagonista di un suo celebre racconto, Pierre Menard, autore del Chisciotte , l’uomo che decide di riscrivere il capolavoro di Cervantes senza cambiarne una virgola. Nel mondo borgesiano si trattava di un’operazione geniale e raffinata, mentre i Don Chisciotte riscritti dai governanti che guidano le nostre sorti hanno invece l’inconfondibile sapore del plagio e del già detto. Ci attendiamo da loro nuovi libri, perché almeno una parte della nostra storia si è interrotta. La «prima repubblica europea» sta finendo.
Ne dobbiamo prendere atto, lasciando da parte le nostalgie. Dobbiamo renderci conto che il grandioso sforzo di integrazione di cui siamo stati protagonisti minaccia di crollare. Forse era oggettivamente imperfetto: l’impresa di coniugare progressive cessioni di sovranità con il persistere «normale» di interessi nazionali si è rivelata quasi impossibile. Certo, mentre il Don Chisciotte veniva riscritto più volte, la rottura epocale della separazione politico-geografica con il terzo mondo e la rivoluzione permanente dell’islamismo (non solo, va detto, quella del jihadismo) avrebbero incrinato anche entità ben più solide di questa Unione Europea realizzata faticosamente, un passo alla volta, dall’impulso distratto dei Paesi fondatori. Ma questa è solo un’attenuante. Gli allarmi non sono mai stati ascoltati. È lecito chiedersi che cosa altro dobbiamo attendere per sperare che a Bruxelles, o nella prossima Bratislava, ci si occupi finalmente della vita delle persone.
Se tutto questo è vero, bisognerà introdurre sempre di più un concetto di «responsabilità generale» della politica al di fuori dei confini nazionali. Mentre è apparso sempre più ovvio nel corso degli anni, da Maastricht in poi, che le scelte di un Paese nel versante dell’economia influivano sugli altri (anche se questa realtà è stata interpretata talvolta con egoismo e arroganza) la politica ha fatto gioco a sé, cercando nel migliore dei casi di indirizzare alcune di quelle scelte in modo da privilegiare le ragioni del rigore o quelle della crescita. Ma bisogna ora riflettere, in un piano più generale, su una «interdipendenza» della politica nel «nocciolo duro» di una comunità di Stati che deve evitare di essere travolta dai problemi irrisolti. La sconfitta di uno è la sconfitta di tutti.
Condividere le iniziative per far vivere meglio i cittadini europei e per difendere la loro sicurezza (sul doppio versante dell’immigrazione e della lotta al terrorismo) è una necessità immediata. Non può essere più il risultato lento, sempre insoddisfacente, di uno sforzo di unità elaborato. Le grandi emergenze vanno affrontate in modo bipartisan a livello politico, utilizzando le forze responsabili residue. È triste vedere un grande vecchio come il cristiano-democratico Wolfgang Schäuble dire che dai vertici socialisti «non escono mai proposte intelligenti» e i dirigenti progressisti (come per esempio il presidente della Spd Sigmar Gabriel) fare un ambiguo gioco di sponda guardando sempre alla tenuta dei più affezionati dei loro disaffezionati elettori. In ogni caso, comunque, le grandi «famiglie» politiche europee vanno rifondate. Cambiare molto, cambiare uomini, cambiare stile, magari cambiare anche nome può essere una svolta determinante, non solo in sé e per sé ma anche per gli effetti che potrebbe produrre sulla governabilità di tutti.
Quello che sta avvenendo in Germania e Francia sembra lo schema per un manuale sulla instabilità del futuro. I cristiano-democratici e i socialdemocratici tedeschi potrebbero addirittura faticare a raggiungere la maggioranza nelle prossime elezioni, creando il precedente assoluto di una «grande coalizione» minoritaria. In Francia il tracollo della sinistra di governo produce geometrie nuove che hanno sempre al centro l’estrema destra di Marine Le Pen. Arrivano in continuazione segnali inquietanti, per i valori civili, da molti Paesi che hanno scelto di entrare in un club del quale non vogliono più accettare le regole.
Non vogliamo dire che lo sgonfiamento dei partiti di massa o il prevalere di formazioni dai tratti radicali provochi automaticamente il diluvio. Il popolo è sovrano, naturalmente, in un quadro di riferimento spiegato assai bene da Sabino Cassese sul Corriere del 21 luglio. Ma rifiutare l’edificio europeo che abbiamo costruito mina alla base il contratto democratico con la rappresentanza politica stabilito nel nostro mondo libero a partire dal secondo dopoguerra. La questione di fondo è sempre la stessa: le forze anti-sistema possono essere ridimensionate solo se si sciolgono veramente, con un gigantesco e disinteressato sforzo comune, tutti i nodi che le hanno fatto crescere. Non giriamo la testa dall’altra parte. La storia ci ricorda catastrofi percepite troppo tardi nella loro realtà . Per tornare all’orologio di Angela Merkel, il tempo delle democrazie europee può scadere.