giovedì 29 settembre 2016

Corriere 29.9.16
Donald o Hillary? Per il Vaticano si è già avverato lo scenario peggiore
di Massimo Franco

«Ora sappiamo che può vincere perfino Donald Trump...». All’inizio di luglio del 2016, nel Palazzo apostolico vaticano, si prendeva atto di uno dei possibili esiti della campagna presidenziale statunitense con un velo di autentica inquietudine. Ci si rendeva conto che, qualunque fosse il risultato del voto di novembre, la Santa Sede rischiava di «perdere» le elezioni per la Casa Bianca. Trump, il miliardario scelto, o forse sarebbe meglio dire subìto, dal Partito repubblicano, e la senatrice di New York, Hillary Clinton, candidata dei Democratici, erano vissuti come avversari non solo politici e strategici, ma culturali della Chiesa cattolica.
«Per motivi opposti, le due candidature rappresentano per noi lo scenario peggiore» si ammetteva all’inizio dell’estate del 2016 nella cerchia di papa Francesco. «Trump è tutto ciò che va contro l’insegnamento della Chiesa: sull’immigrazione, sulla difesa dei più deboli, sullo scontro tra civiltà e religioni. Su di lui il papa si è espresso in modo diretto: uno stile che di solito non è quello della diplomazia vaticana. E non possiamo sapere che cosa è rimasto delle parole papali nell’anima di Trump: è un punto interrogativo. Quanto a Hillary Clinton, lei e il marito Bill sono l’incarnazione dell’ideologia laicista nemica dei valori cattolici sui temi sensibili».
Lo scontro con Trump era avvenuto il 18 febbraio del 2016 sul volo che riportava Jorge Mario Bergoglio a Roma dopo una visita alla frontiera tra Messico e Usa. E aveva fatto scalpore in tutto il mondo. Il papa si era voluto fermare davanti al confine tra i due Paesi, per lanciare un monito contro tutte le barriere. Trump lo aveva accusato di essere una «pedina» del governo messicano. Così, quando fu chiesto al pontefice che cosa pensasse del muro di 2.500 chilometri che il miliardario voleva costruire tra Usa e Messico, deportando circa 11 milioni di immigrati illegali, aveva risposto: «Io una pedina? Mah, lo lascio al vostro giudizio e al giudizio della gente. Una persona che pensa soltanto a fare muri e non a fare ponti, non è cristiana. Votarlo o non votarlo? Non mi immischio. Dico soltanto che se ha parlato cosi, quest’uomo non è cristiano».
Trump non si era minimamente spaventato. E la sua risposta era stata dura... D’altronde, era lui a presentarsi come il campione dell’«America profonda». Per quell’America, l’immigrazione non era la base per continuare a crescere, ma diventava una minaccia. La scelta come candidato vicepresidente di Mike Pence, deputato, ex governatore dell’Indiana, cattolico convertito all’evangelismo protestante, antiabortista, antigay, rifletteva bene questa «Nazione profonda». Trump era il protestante presbiteriano, beniamino di quella «Cintura della Bibbia» che correva dal Sud al Nord degli Usa, nella sconfinata provincia statunitense dove la crisi mordeva di più.
Lui stesso raccontava di ricevere molte Bibbie in regalo. A volte ne agitava una copia durante i comizi. E il gesto, per un certo tipo di elettorato, era un richiamo quasi primordiale all’America bianca e anticattolica. Il candidato repubblicano era il teorico di «un problema islamico» negli Usa. «Non ho visto svedesi che buttavano giù le Torri gemelle del World Trade Center», dichiarò in un’intervista del 2012. Ma era esattamente questo a spaventare il Vaticano.
Una vittoria di Trump poteva significare aizzare lo scontro non solo con il mondo, ma in primo luogo tra «due Americhe». Intolleranza religiosa contro coesistenza e rispetto tra fedi; diritto all’autodifesa armata contro il tentativo di controllare la vendita di armi. Era come se da otto anni di Obama rispuntasse, esasperato e laicizzato, il fenomeno dei teologi conservatori della cerchia di George W. Bush che avevano seminato guerre dopo le stragi di Al Qaeda dell’11 settembre del 2001; e destabilizzato l’Iraq. L’«America profonda» si assolveva, pronta ad abbracciare Trump, travolgendo i pronostici di un’élite autoreferenziale.
In Vaticano seguivano quanto accadeva oltre Atlantico da mesi. Si limitavano a constatare che «il livello della maggior parte dei candidati porterebbe a dire che gli Usa riflettono il declino dell’Occidente...». Il giudizio è stato rafforzato quando a sfidarsi sono rimasti la Clinton e Trump. I due candidati consegnavano una prospettiva di ostilità come da tempo non si vedeva tra Washington e la Roma papale. Non era solo il candidato repubblicano come persona ad agitare i sogni del Vaticano ma quello che rappresentava: il sintomo di una radicalizzazione dell’elettorato repubblicano e di un contagio che si stava impadronendo dell’intero Occidente.
Si saldava con il populismo e la xenofobia in ascesa in ampi settori dell’opinione pubblica europea. Trump incarnava il prodotto più vistoso di una cultura che aveva molti imitatori in nazioni dell’Europa orientale come Ungheria e Polonia ma anche in Germania, Francia, Italia, Gran Bretagna, Scandinavia. Ma soprattutto, era la metafora di un cristianesimo egoista e razzista, che in particolare per Francesco, costituisce un ossimoro inaccettabile. Trump incarnava «il Nord del mondo» nel significato più lontano da quello di Bergoglio...
Non è stato difficile individuarlo come una sorta di leader «morale» di un’Internazionale xenofoba che poteva insediarsi alla Casa Bianca: il potenziale contraltare di una religione cattolica tesa a combattere lo stesso contagio nelle file ecclesiastiche. Come Trump, infatti, anche alcuni vescovi, cardinali, esponenti degli episcopati occidentali ripetevano il suo mantra a bassa voce: il papa argentino non capisce l’Occidente, non capisce gli Stati Uniti... Che questi malumori trovassero una sponda nel futuro presidente degli Stati Uniti costituiva un incubo comprensibile, per la Santa Sede.