giovedì 29 settembre 2016

Corriere 29.9.16
Gli amici poco amici di Hillary
di Paolo Mieli

Adesso che Hillary Clinton — dopo il primo dei tre confronti televisivi con Donald Trump — è di nuovo in testa nei sondaggi, appare sempre più chiaro che il principale nemico lei ce l’ha in casa. C’è, infatti, una parte non si sa quanto consistente del suo elettorato (che qui in Europa corrisponde a quello della sinistra) poco disposta a perdonarle di essere una candidata di establishment, «di sistema». Non che di conseguenza questi liberal siano passati in massa dalla parte di Trump, leader mondiale degli «antisistema». Ma già si nota che qualcuno, in campo democratico, inizia a dire che tra l’uno e l’altra non c’è grande differenza e che in fondo in fondo... Allo stato attuale però questi potenziali trasmigratori sembrano essere minoritari.
Ben più consistenti sono i sabotatori neanche tanto occulti, disposti a muoversi alla maniera di Ralph Nader che nel 2000 corse per la presidenza e prese quel tanto che servì a far perdere il candidato democratico Al Gore. A tutto vantaggio di George W. Bush che poi sarebbe stato, per otto anni consecutivi, la loro bestia nera. All’epoca delle primarie, il rappresentante della sinistra Bernie Sanders ha atteso l’ultimo momento per rassegnarsi alla candidatura di Hillary Clinton, con l’evidente intento di avere qualche settimana in più per meglio imprimere negli elettori più giovani l’immagine di lei come una super privilegiata, imbrogliona e mentitrice.
È venuta da Sanders la più grave delle insinuazioni nei confronti di colei che già appariva come la futura sfidante di Trump: «Per me — disse prima ancora dello stesso Trump — è un problema che la Fondazione Clinton abbia ricevuto milioni di dollari di donazioni da governi stranieri, da regimi autoritari come quello dell’Arabia Saudita». Sulla scia dei rilievi del candidato socialisteggiante, nel libro The Limousine Liberal , Steve Fraser ha potuto dipingere la moglie dell’ex presidente come «la quintessenza dell’ipocrisia liberal». Una «liberal in limousine», appunto. Che dire? Fisiologico che Sanders non abbia interrotto la propria corsa finché è stato davvero in gara. Ma l’impressione è che sia andato ben oltre. Allorché si è capito che non ce l’avrebbe fatta, il senatore di New York Chuck Schumer ha pubblicamente premuto su di lui perché si ritirasse. E lo ha fatto in termini tutt’altro che ostili. Poi, quando il senatore del Vermont ha finalmente deciso di ritirarsi, ecco che sono scesi in campo i nuovi Nader: il sessantatreenne Gary Johnson leader del Libertarian Party e la sessantaseienne Jill Stein attivista del Green Party, entrambi impegnati nell’evidente missione di sottrarre voti a Hillary più che a Trump. Tra l’uno e l’altra, potrebbero raggranellare, secondo i sondaggi, un buon 15% dei voti.
Oggi più che in passato ha dell’incredibile questa ostinazione di una parte della sinistra americana a voler far perdere la candidata del partito democratico. Anche perché Trump non è un avversario come quelli del passato. Ronald Reagan, ad esempio, aveva alle spalle una esperienza da governatore della California. Pur con tutte le sue doti (o difetti) di esuberante improvvisatore, veniva dal «sistema». Trump è molto diverso. Lui l’eredità di democratici e repubblicani non solo non la amministra ma vuole farla a pezzi. Nonostante ciò, un settore non irrilevante del mondo dello spettacolo — quello più sensibile ai temi della sinistra — si è mostrato addirittura velenoso nei confronti dell’ex first lady. L’attrice Susan Sarandon già nel corso delle primarie ha dichiarato: «Hillary ha fatto cose orribili ed è perfino peggio di Trump» (e ci risiamo!). Per poi quasi auspicare: «probabilmente verrà incriminata prima del voto di novembre». Il regista Oliver Stone (nel presentare il suo film sul caso Edward Snowden) ha aggiunto che la Clinton «potrebbe portarci in una vera guerra ed è peggio della premier inglese Theresa May» (risparmiandosi, con questo escamotage, un sostegno a Trump). Hillary, secondo l’autore di Platoon , «combinerebbe casini con la Russia» perché il suo è «un approccio neoconservatore». È «una portatrice di disordine» dal momento che avrebbe introiettato «la mentalità di George W. Bush mista a quella di Obama». Il quale — e qui ce n’è anche per il presidente attuale — «non ha fatto altro che peggiorare le cose continuando le guerre del suo predecessore». E qui siamo nuovamente a quel genere di equiparazioni destinate, con ogni evidenza, ad allontanare i potenziali elettori della Clinton.
Per paradossale che possa apparire, è più sensibile alla contrapposizione tra «sistema» e «antisistema» una parte del campo repubblicano. Bush padre ha fatto trapelare la notizia che voterà per Hillary. Lo storico «liberal interventista» Robert Kagan, già consigliere di Bush jr nonché grande fautore della guerra in Iraq (2003), ha abbracciato adesso la causa democratica e sul Washington Post ha dato alle stampe un editoriale contro Trump dal titolo «Così il fascismo arriva in America». Se sarà eletto, ha scritto l’autore di The World America Made , Trump «avrà a disposizione, in aggiunta a tutto quel che comporta essere il leader di un movimento di massa, il potere immenso della presidenza americana: il dipartimento di Giustizia, l’Fbi, l’intelligence, l’esercito; a quel punto chi si azzarderà a mettersi contro?». Su tutt’altro versante, Ian Buruma ha fatto rilevare che nell’attuale duello americano non si può dire che sia la democrazia ad essere sotto assedio. Per alcuni aspetti la società statunitense è adesso più democratica rispetto al passato. Il fenomeno Trump dimostra che qualsiasi outsider che goda di un certo seguito può aggirare le istituzioni dei vecchi partiti. Anche i social media permettono di eludere i filtri tradizionali dell’autorità — soprattutto quella dei giornali autorevoli — divulgando direttamente qualsiasi punto di vista. Oggi, ha scritto Buruma, «i cittadini hanno maggiori possibilità rispetto al passato di eleggere qualche farabutto avido di potere, perché simili personaggi non sono più arginati dalle tradizionali élite dei partiti».
Ed è proprio questo il punto. Nel nome della non contaminazione, in America (ma anche in Europa) una parte dell’elettorato di sinistra sta scivolando verso posizioni anti establishment che mettono nel conto di lasciar vincere un tipo alla Trump, cioè un avversario che in altri tempi avrebbe suscitato, al suo primo apparire, un grandissimo allarme. È una riproposizione di quel che accadde in Europa tra gli anni Venti e Trenta quando parte delle sinistre, a salvaguardia della propria purezza, consentirono ai partiti e ai movimenti fascisti di sfondare e di prendere il potere. Gli antisistema alla Trump (ce n’è in abbondanza anche in Europa) sono qualcosa di diverso da quei partiti e movimenti della prima metà del secolo scorso. Ma sono portatori di incognite non meno allarmanti di quelle di allora. Eppure la linea di demarcazione che dovrebbe dividerli dagli eredi delle tradizioni politiche del Novecento è come scomparsa. E colpisce che siano più interessati a ritrovare quel confine persone come Kagan provenienti dal mondo neocon , rispetto a Sarandon, Stone e ai molti che preferiscono restarsene in contemplazione della propria innocenza. Presunta.