giovedì 29 settembre 2016

Corriere 29.9.16
La Roma antica narrata da Ferrero somiglia tanto alla Belle Époque
di Claudio Schiano

Quando Theodore Roosevelt, ex presidente degli Stati Uniti, venne in Italia nell’aprile del 1910, in una visita poco meno che di Stato, rinunciò a incontrare il Papa, con grave scandalo dei cattolici, ma volle far visita a uno studioso famoso in America grazie alla sua storia delle guerre civili in Roma nel I sec. a.C.; Roosevelt poi si adoperò — scrissero gli avversari — perché quello studioso fosse insignito di una cattedra universitaria: il tentativo fu affondato in Parlamento da Benedetto Croce e da una insolita coalizione di storici dell’antichità. Lo studioso era Guglielmo Ferrero e l’opera che gli aveva garantito fama internazionale di storico era Grandezza e decadenza di Roma , che ora è finalmente ripubblicata da Castelvecchi con due pregevoli saggi di Laura Ciglioni e di Laura Mecella e, per la prima volta in italiano, le appendici che Ferrero pubblicò nell’edizione francese.
Ancora nell’aprile 1910, poche settimane dopo la partenza di Roosevelt, Ferrero fu chiamato dal sindaco romano Ernesto Nathan a pronunciare in Campidoglio un discorso su Roma nella cultura moderna. Roma — sostenne Ferrero — dominò il mondo perché aveva saputo trovare una sintesi delle forze in squilibrio che la animavano: se la moderna civiltà italiana, pronta ad avviarsi in quegli anni a una nuova esperienza coloniale, intendeva raggiungere la grandezza, doveva apprendere dall’antica Roma come armonizzare forze sociali ed economiche contrapposte e recuperare il «senso dell’unità della vita».
L’opera storica di Ferrero, apparsa fra il 1902 e il 1907, aveva conosciuto un enorme successo di pubblico: il pubblico — scrisse Karl Julius Beloch — «dei giornali, delle riviste, dei romanzi e dei trattati popolari», non certo degli specialisti che lo tacciarono di dilettantismo.
Quel pubblico aveva letto con passione L’Europa giovane (1898), in cui Ferrero metteva a contrasto da un lato le nazioni latine, nelle quali il governo era affidato a classi non produttive e privilegiate, inette a confrontarsi con i meccanismi di produzione, e dall’altro le giovani società della Germania e dell’Inghilterra con il loro rampante capitalismo capace di solidarietà e giustizia. La City di Londra era, per lui, «davvero la Roma moderna»; ma poi, sempre più, fu la società americana ad apparirgli come modello positivo di una civiltà in crescita. Risultò chiaro, così, che quando Ferrero descriveva il conflitto tra classi sociali nella Roma antica come se scrivesse un editoriale sugli intrighi alla Borsa di Milano, o quando parlava di «Catilina e la gran lotta contro i capitalisti», la sua Roma era, innanzi tutto, un modo per riflettere sul presente.
Ferrero, di temperamento positivista, socialista e antimilitarista, si interrogava sul progresso e declino delle nazioni europee, a partire da alcuni temi chiave che gli erano imposti dalla sua formazione giuridica: in primo luogo, la giustizia, la legalità e le istituzioni. In seguito, l’accento si spostò sul problema che poi segnò tutta la sua riflessione teorica, quello della legittimità del potere, e la tempesta delle guerre civili gli offriva molto materiale di studio, a partire dalla figura di Cesare.
La categoria di «cesarismo» era stata evocata, tra gli altri, da Auguste Romieu e Giuseppe Mazzini (ma respinta da Karl Marx), per Napoleone I e Napoleone III, e per Bismarck, come espressione di un potere personale fondato su forza militare (o poliziesca) e carisma; ma il Cesare di Ferrero appariva — per usare le parole di uno scandalizzato Ettore Pais — un «politicante mezzo imbroglione e mezzo ciarlatano», mosso da ambizione e, sia pur geniale, privo però di un vero progetto politico. Il rifiuto del mito di Cesare salvatore di Roma era il rifiuto di una visione teleologica della storia. Al contrario, la rinascita del potere imperiale di Roma e il ristabilimento della legittimità del potere si dovettero, secondo Ferrero, ad Augusto restauratore della Repubblica: alla stessa conclusione sarebbe giunto a Berlino, dieci anni dopo, Eduard Meyer.
È curioso che proprio nel nome di Augusto, con la battaglia di Azio, si chiuda l’opera, venendo meno alla promessa del titolo: parlare dell’ascesa e del declino di Roma. La scrittura su temi romani si interruppe, forse, perché l’attenzione di Ferrero fu deviata verso altri temi. Ma, più probabilmente, l’assenza di uno sviluppo del racconto si spiega con il fatto che egli mirava a riconoscere i germi della decadenza proprio nel momento di massimo sviluppo della potenza romana. Era facile, per il lettore, calare la riflessione sull’analisi delle nazioni europee, che all’apice del loro sviluppo mostravano forti elementi di crisi: il difficile rapporto fra borghesia industriale, ceti medi e masse proletarie; il declino del sistema liberale; le tensioni coloniali. Contro ogni tentazione antiparlamentare, Ferrero indicava, per il tramite di Augusto, anche una soluzione: rinsaldare le istituzioni democratiche e parlamentari, evitare avventure demagogiche e militariste, combattere la corruzione morale.