Corriere 27.9.16
A vent’anni da Dayton la fragile pace bosniaca
di Massimo Nava
Basta
ricordare che un referendum fu la scintilla della guerra in Bosnia,
ventiquattro anni fa, per comprendere lo scenario a tinte fosche che si
apre dopo la consultazione nella RS, la Repubblica dei serbi di Bosnia,
parte integrante del complicato mosaico istituzionale che tiene insieme
l’attuale Stato bosniaco. Esito scontato — la quasi totalità dei sì
della maggioranza di etnia serba — su un quesito che è già in sé una
provocazione: la celebrazione della festa nazionale della RS, in
contraddizione con le ricorrenze istituzionali unitarie che ancora non
producono né senso di appartenenza, né tantomeno unità, fra le varie
componenti etniche e religiose.
Il referendum è considerato
illegale sia dalla Commissione europea, tuttora impegnata a vari livelli
per il mantenimento della pace nella regione, sia dalla Corte
costituzionale bosniaca. Inoltre — è l’unico segnale positivo — è stato
condannato dal presidente della Serbia, Vucic, impegnato nella marcia di
avvicinamento all’Europa e a contenere il nazionalismo interno. Segnale
contraddetto dal riconoscimento del referendum da parte del presidente
russo, Putin.
Una mossa dettata, oltre che da simpatie per i serbi
di Bosnia e dal tradizionale sostegno alla grande famiglia di religione
ortodossa, da una calcolata strategia che mira a recuperare il peso di
Mosca nei Balcani e nell’Europa orientale e a bilanciare l’espansione
della Nato (ultimo membro associato il Montenegro!) e l’influenza
dell’Occidente, cresciuta sempre più dopo il conflitto separatista del
Kosovo e il crollo del regime di Milosevic. A vent’anni esatti dagli
accordi di Dayton, la storia della pace è ancora da scrivere.