domenica 25 settembre 2016

Corriere 25.9.16
il surplus commerciale tedesco e l’equilibrio generale dell’euro
di Federico Fubini

L a tecnica migliore per complicare un problema economico è sempre farne un totem politico. Dopo il debito greco, l’ultimo caso del genere sta diventando il surplus delle partite correnti della Germania che ormai supera i 300 miliardi di euro l’anno e vale quasi il 9% del reddito nazionale. Per alcuni è la misura di una virtù, per altri una prova di colpevolezza.
Ha più senso vedere di che si tratta in concreto. Ogni anno, la Germania registra un attivo crescente nei suoi scambi di beni o servizi e interessi o dividendi con il resto del mondo. Ormai è così vasto, in proporzione all’economia, da superare quelli di produttori di petrolio come la Norvegia; la differenza è che la Germania non estrae niente dal sottosuolo, ma produce beni per i quali il resto del mondo è disposto a pagare circa mille miliardi di euro l’anno. Si tratta di una somma così grande che le imprese, lo Stato e i cittadini tedeschi non riescono a trasformarla in consumi e investimenti produttivi. Preferiscono la liquidità, dunque il risparmio inerte continua ad accumularsi.
Al resto del mondo questa parsimonia sembra incomprensibile, perché anche in Germania le ragioni per spendere non mancherebbero. Dal 2008 gli investimenti sono calati di quasi cento miliardi l’anno, fino a quote ormai degne dell’Italia. Dal 2010 l’incidenza della spesa delle famiglie in proporzione al reddito nazionale è precipitata di cinque punti. E il governo dovrebbe rinnovare migliaia di strade o ponti e finanziare lo smantellamento di 17 centrali nucleari, eppure non lo fa pur di conservare un (lieve) avanzo di bilancio.
La Germania dipende così tanto dall’export che i suoi interessi finiranno per allinearsi di fatto a quelli dei suoi grandi Paesi-clienti come la Cina o la Russia, anziché al resto d’Europa. È qui che la discussione diventa politica. Il premier Matteo Renzi vede in quel surplus l’origine della stagnazione della zona euro, perché la prima economia dell’area approfitta della disponibilità a spendere del resto del mondo, ma la intrappola e non la rimette in circolo. La cancelliera Angela Merkel, gli risponde che di questo surplus i tedeschi sono «anche un po’ orgogliosi», perché vi vedono un simbolo della loro efficienza. Forse, più semplicemente, la Germania è incapace di gestirlo perché quello che oggi sembra a tutti un cliché nazionale è invece un vero e proprio inedito. Avanzi (e disavanzi) tedeschi con il resto del mondo erano stati relativamente più limitati per decenni, prima che la bilancia delle partite correnti iniziasse a esplodere dal 2003 fino ai livelli parossistici di oggi.
Questi sono squilibri recenti e la loro spiegazione è tanto semplice quanto parlarne nella buona società europea è tabù: il tasso di cambio è completamente sbagliato. È come se il prezzo di tutta la competenza e la laboriosità dei tedeschi fosse tenuto artificialmente troppo basso e dunque essi non riuscissero a star dietro alla domanda per i loro stessi prodotti. L’Fmi stima che la Germania dovrebbe operare con una moneta di almeno il 15% più forte (Italia e la Francia invece del 10% più debole), ma anche persino sembra una visione caritatevole. Probabilmente lo squilibrio è anche più profondo. L’economia tedesca sviluppava enormi surplus anche negli anni scorsi quando l’euro era del 20% più forte, dunque è probabile il suo tasso di cambio di equilibrio sia davvero parecchio sopra a dov’è oggi.
Stime simili (in senso inverso) valgono per l’Italia o per la Francia, ma la soluzione non può essere la rottura dell’euro come alcuni propongono. I suoi costi sarebbero colossali per i singoli Paesi e per il progetto europeo, che resta un successo vitale degli ultimi 60 anni. Questa vicenda dimostra semmai quanto fosse irrealistico uno dei presupposti intellettuali della moneta unica. Molti dei suoi architetti pensavano che sarebbe bastato fissare un vincolo macroeconomico — il tasso di cambio — perché i Paesi da esso accomunati attenuassero loro differenze. È stata una tragica sottovalutazione di come le strutture sociali, gli interessi di categoria e secoli di cultura non si lasciano rimodellare in pochi anni da una sola variabile macroeconomica. Nel tessuto delle comunità nazionali, milioni di soggetti preferiscono rischiare lo strangolamento del sistema europeo e del proprio Paese piuttosto di concedere anche solo un po’ terreno. In Germania, come in Italia.
Perciò è così pericoloso che i leader dei grandi Paesi dell’area continuino a governare le proprie economie come se fossero avulse dall’equilibrio generale dell’euro. Anche qui in Germania, come in Italia. Il loro comportamento ricorda la guerra di dazi degli anni 30: allora ogni governo cercava di reagire alle difficoltà proteggendo i propri produttori, senza capire che così collettivamente tutti insieme distruggevano l’economia globale e i propri stessi Paesi.
C’è da capire questi politici, perché le loro responsabilità sono europee ma il loro mercato del consenso resta nazionale. Vincono o perdono in casa propria. Ora Merkel sta cercando di stimare a che tipo di vittoria andrebbe incontro, prima di decidere se ripresentarsi alle elezioni tra un anno: dopo tre mandati, non vuole diventare un’anatra zoppa. Ma passata la stagione delle urne in Italia, Francia e Germania, fra un anno potrebbe aprirsi lo spazio per una fase di governo collettivo più illuminato per l’area euro. Potrebbe essere l’ultima.