Corriere 24.9.16
Apre il museo dei neri. Obama sfida Trump: «Visitalo e capirai»
NEW
YORK Sarà un museo interattivo nel senso più profondo del termine. I
trentaseimila oggetti che raccontano le sofferenze, le umiliazioni, i
trionfi dei neri d’America si confronteranno, dialogheranno con le
vicende di oggi. Con gli afroamericani uccisi dalla polizia. Con le
marce di protesta. Con l’opera e l’eredità politica del primo presidente
«black» degli Stati Uniti d’America.
Oggi apre a Washington lo
«Smithsonian National Musuem of African American History &
Culture», dopo tredici anni dal via libera del Congresso e dopo quattro
anni di lavori.
La storia qui è dentro l’attualità. Tra soli due
giorni, lunedì 26, Hillary Clinton e Donald Trump daranno vita al primo
dibattito presidenziale. Gli scontri di Charlotte e le tensioni razziali
saranno al centro della discussione. L’attenzione sarà concentrata su
Trump soprattutto. Ieri il candidato repubblicano si è espresso, ancora
una volta, in modo controverso. Prima ha detto che «le vittime
principali delle violente dimostrazioni di Charlotte sono gli afro
americani che vivono in queste comunità e che vogliono solo fare
crescere i loro figli nella pace e nella sicurezza». Poi ha affermato
che «le comunità afro americane versano nelle condizioni peggiori di
sempre, cose mai viste, mai, mai, mai». Barack Obama, che terrà il
discorso inaugurale del museo da lui fortemente appoggiato, gli ha
risposto: «Persino un bambino di otto anni direbbe che la condizione di
schiavitù non era una cosa buona per i neri. Invito Trump a visitare il
nuovo museo di Washington. Quello che dobbiamo fare è usare la nostra
storia per spingerci ancora di più sulla strada del progresso»
«La
nostra storia», dice il presidente degli Stati Uniti, riassumendo il
senso del progetto concepito da Lonnie G. Bunch III: documentare il
cammino degli afroamericani non come un processo separato, ma come un
passaggio fondamentale nella costruzione dell’identità americana.
L’idea
si materializza nell’edificio disegnato da David Adjave e realizzato
insieme con l’architetto Philip Freelon, i vincitori della gara
internazionale bandita nel 2009. La forma a corona con tre piani si
ispira all’arte Yoruba, dell’Africa occidentale, mentre l’ingresso a
porticato rimanda alle case della diaspora, a New Orleans, ai Caraibi.
Infine la struttura in metallo color bronzo è un richiamo al duro lavoro
degli schiavi afroamericani in Louisiana e altrove. Anche la posizione
nella geografia di Washington non è casuale: da una parte la Casa
Bianca, dall’altra i monumenti alla memoria dei grandi presidenti e di
Martin Luther King.
L’itinerario della visita è un viaggio che
comincia con le prime navi che nel XVII secolo trasportavano i neri in
catene. Il piano terra è quello delle privazioni, delle brutalità. C’è
il Ku Klux Klan; c’è la bara di Emmett Till, ragazzo linciato nello
stato del Mississippi nel 1955 perché accusato di aver avuto una
relazione con una donna bianca; ci sono i mercati degli schiavi. Ma ci
sono anche documenti che finora erano stati omessi dalle altre
istituzioni culturali. Per esempio Thomas Jefferson, il terzo presidente
degli Stati Uniti, uno dei Padri fondatori, l’uomo che fece scrivere
nel secondo paragrafo della dichiarazione di indipendenza: «tutti gli
uomini sono stati creati uguali», era in realtà proprietario di circa
600 schiavi.
Poi si sale e al visitatore si dischiude il formidabile talento dei «black people». La musica, la letteratura, lo sport.