Corriere 23.9.16
il nostro posto nel mondo
di Antonio Polito
C’è
qualcosa di estremamente fragile nella inusitata durezza con cui Matteo
Renzi ha preso ad attaccare i leader dell’Unione Europea. Una debolezza
che forse avvertono anche i veri destinatari dei suoi discorsi: gli
elettori italiani. Non perché si possa obiettare qualcosa alla sostanza
della critica che il nostro presidente del Consiglio rivolge al
Consiglio europeo di cui fa parte, soprattutto sul tema dei migranti.
L’Europa si sta riempiendo di muri, e gli unici che non possono alzarli
siamo noi, perché circondati dal mare. I programmi di ricollocazione di
chi chiede asilo non stanno funzionando. I propositi di rimpatrio di chi
non ha diritto all’asilo, nemmeno. Ma se, in polemica con questo stato
di cose, Renzi aggiunge che «l’Italia farà da sola, ha i mezzi per
farlo», per aiutare l’Africa a frenare le partenze o per gestirle quando
si trasformano in centinaia di migliaia di arrivi all’anno, chi può
credere che questa sia una soluzione possibile? Chi può credere che
possiamo farcela da soli?
Si arriva qui a un nodo storico della
politica estera italiana, all’idea che abbiamo del nostro posto nel
mondo. Troppo piccoli per fare da soli, troppo grandi per stare al
guinzaglio di qualcuno, finora era stata l’Europa unita a fornirci
l’habitat ideale per le nostre ambizioni. Per questo gli italiani erano —
fino a poco fa — i più europeisti d’Europa: ne vedevano la convenienza.
Oggi che le cose sono cambiate, si pone quindi un enorme problema
politico.
s e l’Unione Europea continua ad andare in pezzi, fino
ad esaurire le sue risorse di azione comune, quale altra politica è
possibile per l’Italia, ammesso che ce ne sia una?
È una questione
nazionale il cui aggravarsi non dipende certo solo da Renzi, che si è
trovato a governare il Paese nel punto più basso della storia
dell’Unione. Però anche Renzi deve porsela senza illusioni e soprattutto
senza illudere gli italiani. Per esempio: ricordate le analisi secondo
le quali l’uscita del Regno Unito avrebbe reso più forte l’Europa che
restava, e maggiore il ruolo dell’Italia? Oppure le prefigurazioni di un
nuovo direttorio a tre, con Roma alla pari di Berlino e Parigi? O la
convinzione, espressa da Renzi appena una settimana prima di Bratislava,
che Hollande era stato «finalmente conquistato» alla causa della lotta
all’austerità?
All’origine di questi abbagli non c’è solo la
fretta di dare buone notizie agli italiani, di mostrare loro che
gareggiamo in una categoria di peso superiore al passato. C’è una
analisi errata della condizione dell’Italia, che forse indebolisce
l’azione riformatrice del governo anche dentro i confini nazionali. In
una parola: il nostro Paese è in crisi oppure no? Il governo Renzi ci
dice da due anni che no, non è più in crisi, che ha cominciato il
percorso alla rovescia, verso la crescita dell’economia e del peso
politico. Ma i nostri partner europei, in questo all’unisono con
l’opinione pubblica interna, pensano invece che il nostro sia un Paese
in crisi, in cui la ripresa dopo la grande recessione non è mai
veramente cominciata, e che anzi vive col fiato sospeso per la paura che
una nuova recessione sia in arrivo; un Paese comunque stagnante da
quindici anni, quindi sempre più indebitato, quindi sempre più debole.
Per
questo non basta aver ragione in Europa. Non basta commentare con la
lucidità e il sarcasmo di un osservatore esterno ciò che non va in quel
consesso. Si rischia anzi così di confermare — come scrive l’ Economist —
«la grande tradizione italiana di dare la colpa della disastrosa
performance economica alle regole europee piuttosto che alla paralisi
interna». Né bastano a risollevarci i deficit fatti di bonus o la tela
di Penelope di riforme sempre in rifacimento (da ultimo, l’Italicum).
Il
peso dell’Italia in Europa dipende anche dalla portata e dal carattere
strutturale della nostra crisi, che bisognerebbe riconoscere con un
discorso di verità agli italiani, per potervi por mano con tutta
l’energia e la durezza necessaria. Il paradosso della nostra situazione
attuale è che mentre accusiamo l’Europa di debolezza, rischiamo di
tornare ad esserne l’anello più debole.
P. S.: ci vorrebbe anche
più umiltà. Qualche giorno fa Carlo Bastasin ha ricordato sul Sole 24
Ore che in frangenti come quelli di Bratislava sarebbe stato meglio
avere un italiano a presiedere l’Unione e i suoi vertici, piuttosto del
polacco Tusk, e che questa possibilità esisteva ed è stata persa due
anni fa.