Corriere 21.9.16
I nostri vizi le virtù di Merkel
di Paolo Mieli
Il
partito europeo che ha in antipatia Angela Merkel gioisce per il
secondo ceffone da lei preso nel volgere di pochi giorni. Due settimane
fa la Cdu era stata umiliata(e addirittura scavalcata dagli
antieuropeisti di Frauke Petry) nel Meclemburgo-Cispomerania. Domenica
scorsa, a Berlino, i cristiano-democratici hanno conservato sì il
secondo posto, ma hanno perso quasi il 6% dei voti. E a peggiorare le
cose ha contribuito la Spd di Sigmar Gabriel che di suffragi ne ha
smarriti altrettanti.Può essere considerato confortante il fatto che
Alternative für Deutschland stavolta non abbia sfondato e sia arrivata
quinta, dietro Grünen e Linke. Sicché, se si confermasse tale trend,
l’esultanza del partito europeo antitedesco può essere considerata
prematura, nel senso che — come spiega bene l’ultimo numero di Der
Spiegel — alle elezioni politiche dell’ottobre 2017, Merkel potrebbe
essereancora in grado di conquistare il suo quarto mandato.Ma gli
antipatizzanti diAngela non disperano che il contesto della crisi
europea possa assestarle il colpo decisivo.
Effettivamente gli
elettori tedeschi da un po’ di tempo castigano Merkel. Ma, a quel che
rilevano i sondaggi di opinione, la puniscono non per i suoi demeriti
bensì in virtù dell’atto più importante della sua lunga carriera
politica: l’aver spalancato le porte della Germania a centinaia di
migliaia di migranti siriani. Un gesto che le valse il riconoscimento
della comunità internazionale e che servì, nell’estate del 2015, a
rompere l’onda xenofoba che stava montando in tutto il Continente.
Adesso,
soprattutto a causa dei risultati elettorali di cui si è detto, la
cancelliera è costretta a rivedere i termini di quell’annuncio. E a
tenere in materia di migrazioni una posizione più rigida. Anche per la
pressione del cosiddetto gruppo di Visegrad, un insieme di quattro Paesi
ex comunisti le cui redini sono in mano al reazionario ungherese Victor
Orbán e a quello polacco Jaroslaw Kaczynski. Affiancati — lo ricordiamo
per inciso — da due socialdemocratici: lo slovacco Robert Fico e il
ceco Bohuslav Sobotka.
Non risulta invece — dai già citati
sondaggi — l’esistenza di un elettore tedesco che abbia abbandonato la
Cdu perché non incoraggia politiche europee che consentano a Grecia,
Italia e Francia (e a quel punto chissà quanti altri Paesi) di
rimettersi a spendere come facevano in passato. Gli elettori del
Meclemburgo, della Cispomerania e della stessa Berlino sono insensibili
ai moniti dei sedicenti eredi di John Maynard Keynes, si mostrano
refrattari al tema della flessibilità (cioè della libertà di spesa) per i
Paesi mediterranei e anzi, quando gliene si dà l’occasione, affermano
che — ove mai fosse concesso alle terre dove fioriscono i limoni un
diritto a tornare a forme di pubblica dissipazione — preferirebbero non
aver più conti in comune con loro. Anche perché una discreta dose di
«flessibilità» è già stata elargita a questi Paesi. Con il risultato che
si ha quando si consente ad un alcolista di lasciar perdere le cure e
bere un bicchiere di vino. Per quel che riguarda l’Italia, detentrice
del record del debito pubblico in Europa, già il 3 novembre del 2015 la
Frankfurter Allgemeine Zeitung ci aveva avvertiti con cortesia che
rischiavamo di apparire come un Paese che, «accantonato l’obiettivo
cruciale di ridurre la mastodontica spesa», aveva adottato una «cosmesi
di superficie», tanto da riportare alla mente «un passato di gestione
disinvolta delle finanze». Per poi suffragare l’editoriale con qualche
numero. I Paesi che negli ultimi anni hanno tagliato la spesa pubblica —
come l’Inghilterra (dal 48,8 al 43 per cento), la Spagna (dal 46 al
43,3 per cento), l’Irlanda (dal 47,2 al 35,9 per cento) — sono
cresciuti, rispettivamente, del 2,3%, del 3,2% e del 6,9%. L’Italia, che
nello stesso periodo ha addirittura incrementato la spesa dal 49,9 al
50,7%, è ferma allo 0,8 per cento. Ma qualche taglio lo abbiamo fatto… A
febbraio il presidente della Corte dei Conti Raffaele Squitieri fece
educatamente rilevare «il parziale insuccesso o, comunque, le difficoltà
incontrate dagli interventi di revisione della spesa» mettendo in
evidenza come quelle poche riduzioni fatte all’italiana si sono spesso
rivelate operazioni di «contrazione se non di soppressione di servizi
alla collettività». Pochi giorni fa l’ex commissario a questa delicata
materia, Roberto Perotti, ha spiegato per filo e per segno come per 25
miliardi tagliati da un capitolo di spesa ce ne siano stati altrettanti
elargiti tramite altre voci.
Intanto il debito è lievitato.
Peggio. Sostiene uno studio della fondazione David Hume, che se si
esamina la traiettoria degli ultimi quindici anni, la velocità di
crescita del debito pubblico è risultata addirittura superiore (quasi
sempre) alla velocità di crescita dei prezzi. Quel che rimane stabile
sono i nostri riti. Ogni anno lo iniziamo con i grandi festeggiamenti
per l’annuncio della prossima riduzione del rapporto debito/Pil. Dopo il
primo trimestre (a volte più in fretta) tiriamo fuori fantasiosi
pretesti atti a spiegare che, in via del tutto eccezionale, stavolta non
se ne farà niente. Ma l’ultimo trimestre torna il buonumore perché
possiamo dedicarlo ai preparativi per la festa dell’annunciazione dei
progetti di riduzione del debito. Per l’anno nuovo.
Nel contempo i
superstiti fautori del taglio alla spesa vengono ormai additati come
nemici dello sviluppo. Perfino chi si limita a denunciare gli sprechi.
Nel lasciare il suo incarico, un altro ex commissario straordinario per
la spending review, Carlo Cottarelli, raccontò di aver partecipato in
uno dei suoi ultimi giorni di lavoro a una riunione al ministero
dell’Agricoltura. In quell’occasione lo colpì che, nonostante fosse una
giornata di sole, i termosifoni andassero al massimo e, per il gran
caldo, si dovessero tenere aperte le finestre. Lo fece notare agli altri
partecipanti al consesso che però minimizzarono. Tutti. Con un
sorrisino. Quasi infastiditi. Be’, la prossima volta, prima di spiegare
ad Angela Merkel come si fa a promuovere lo sviluppo in Europa,
ricordiamoci almeno di spegnere quei termosifoni.