Corriere 20.9.16
Serve chiarezza sull’italicum anche per il bene della riforma
di Stefano Passigli
Il
vivace scambio di opinioni nel Forum di Cernobbio tra il ministro
Boschi e l’ex premier Monti circa l’impatto che le riforme del Governo
possono avere sulla nostra economia è un buon esempio di come spesso il
dibattito politico si fondi su travisamenti della realtà. Nel Forum era
stato presentato uno studio che, pur affermando che l’Italia avrà
bisogno di almeno 8 anni per tornare ai livelli pre-crisi del 2008,
prevedeva che nel medio termine i redditi pro-capite e i consumi
potessero incrementarsi significativamente. Anche se nessuno ha
ricordato che queste previsioni si fondavano sull’eroico assunto che non
intervenissero modifiche nelle grandezze economiche e geo-politiche che
maggiormente influenzano l’economia di un Paese (costo del petrolio e
materie prime, rapporto tra valute e tassi di interesse, trattati ed
evoluzione del commercio internazionale, conflitti militari, etc.), lo
studio ha permesso al ministro Boschi di affermare che le riforme
istituzionali volute dal Governo, oltre a semplificare la vita delle
imprese, daranno una grande spinta all’economia, e al professor Monti di
controbattere che la riforma costituzionale «non andrebbe sovracaricata
di aspettative in tema di effetti positivi prodotti sull’economia» e di
ricordare come «non sia Bruxelles a chiederci una riforma della
Costituzione».
Chi aveva ragione tra i due contendenti? La
risposta è semplice: entrambi. Le riforme meritano infatti un giudizio
diverso a seconda che si faccia riferimento alla Costituzione e alla
legge elettorale, oppure alla riforma del mercato del lavoro attuata con
il Jobs act, della giustizia, delle Banche Popolari e del Credito
Cooperativo, e soprattutto della Pubblica Amministrazione. Queste ultime
sono riforme strutturali da cui la nostra economia può attendersi
benefici effetti. Assieme al minor carico fiscale per le imprese, agli
investimenti sulla banda larga, al progettato aumento delle pensioni
minime, sono il cuore delle politiche di governo dell’Esecutivo a guida
Renzi, sulle quali è lecito esprimere un giudizio positivo.
Se
invece guardiamo alla riforma costituzionale e della legge elettorale,
allora il giudizio del Professor Monti è pienamente valido: niente nella
riforma del Senato e nell’Italicum autorizza l’entusiastico tam tam a
loro sostegno di incauti ambasciatori e solerti commentatori, né a
sostenere che i costi della politica diminuiranno, che il processo
legislativo sarà più veloce, e soprattutto che la nostra economia ne
beneficerà. In altre parole, si possono approvare le politiche di
governo dell’attuale Esecutivo, ma mantenere un giudizio critico sulle
sue forzature in materia istituzionale, giunte sino a porre la fiducia
sulla legge elettorale ed a sostituire nelle Commissioni parlamentari i
membri del Pd dissenzienti.
È insomma opportuno distinguere tra
«politiche di governo» — su cui è fisiologico un continuo confronto tra
maggioranza e opposizione — e quelle che potremo chiamare «politiche del
Paese» (riforme costituzionali ed elettorali, giustizia, politica
estera, ma anche scuola, università e ricerca), su cui la continuità è
essenziale ed è patologico si decida a colpi di maggioranza con continui
cambiamenti di rotta al mutare delle maggioranze di governo.
Quando
alcuni leader di grandi Paesi, o prestigiose testate internazionali, si
esprimono a favore delle nostre riforme, essi fanno riferimento alle
concrete politiche di governo, e non alla pasticciata composizione del
nostro futuro Senato e alle sue confuse competenze legislative, o ad una
legge elettorale che — anche senza citare l’abnorme premio di
maggioranza che può giungere a raddoppiare il numero di seggi spettanti
al partito vincente — mantiene lo scandalo delle candidature plurime e
della nomina di circa metà del Parlamento da parte dei segretari di
partito, elementi questi già giudicati illegittimi dalla Corte
Costituzionale. In proposito è deprecabile che la Corte abbia deciso di
rinviare la seduta già programmata non pronunciandosi così sulla
legittimità dell’Italicum prima del Referendum.
Una pronuncia
avrebbe favorito la trasparenza del giudizio che i cittadini saranno
chiamati a dare nel Referendum, dato che la riforma della Costituzione
avrà un ben diverso esito se unita alla concentrazione di potere nelle
mani del Premier di turno determinata dall’Italicum, o ad una diversa
legge elettorale che mantenga al Parlamento e alle magistrature di
garanzia il loro tradizionale ruolo.
Piaccia o meno, la forma di
governo e l’indipendenza dei grandi organi costituzionali dipendono non
solo dalla Costituzione ma anche dalla legge elettorale. Un governo che
su di essa ha posto la questione di fiducia, e la Corte Costituzionale
suprema garante della sua legittimità, hanno il dovere di pronunciarsi
prima del voto referendario. Non averlo fatto rischia di portare
ulteriore consenso al voto a favore dei partiti antisistema.