Corriere 18.9.16
L’altro ha due volti difficili da unificare
di Giovanni Belardelli
Negli
stessi giorni in cui è stata resa nota la decisione franco-inglese di
costruire una muraglia antimigranti a Calais, la sindaca di Parigi Anne
Hidalgo ha annunciato la costruzione di un campo di accoglienza nella
capitale francese. Due notizie che sintetizzano bene il dilemma e il
paradosso in cui si dibatte da tempo l’Europa. È lecito infatti
immaginare che presto alcuni (e forse non pochi) dei migranti ospitati e
rifocillati a Parigi comme il faut andranno a Calais per cercare di
raggiungere in qualche modo la Gran Bretagna, trovandosi di fronte al
suddetto muro. L’Altro, il migrante, ha dunque due volti che non
riusciamo, nella nostra mente prima ancora che nelle politiche degli
Stati, a riunificare: da una parte i derelitti in fuga da guerre e
miseria, che vorremmo accogliere; dall’altra (e si tratta
sostanzialmente delle stesse persone) gli stranieri di cui spesso
abbiamo timore e che cerchiamo di respingere.
Ciò che determina un
po’ ovunque i successi elettorali dei partiti antimmigrati si lega
appunto alla difficoltà di contemperare le ragioni dell’accoglienza con
le ragioni della paura, riconoscendo che anche queste ultime possono
avere un fondamento. È vero che i migranti non tolgono il lavoro agli
italiani: quale lavoro possono mai togliere i clandestini che, nel Sud
d’Italia, lavorano 12-16 ore al giorno per 3 euro l’ora? Ma bisognerebbe
non vi fossero situazioni come quella descritta tempo fa da Federico
Fubini ( Corriere del 26 aprile) di centri di accoglienza che
garantiscono ai migranti «vitto e alloggio senza lavorare né studiare»;
senza neppure l’obbligo di rassettare la propria stanza visto che a ciò
pensa una donna delle pulizie. Saranno pure realtà isolate, ma il solo
fatto che in qualche luogo d’Italia possano esistere rischia di rendere
intollerabile l’accoglienza agli occhi di milioni di italiani in
condizioni di difficoltà economica, inducendoli a vedere dell’Altro solo
il volto minaccioso. Spesso evochiamo il razzismo per spiegare
situazioni di malessere e di paura che invece hanno giustificazioni più
semplici e del tutto non ideologiche. È il caso dell’Abetone dove il
sindaco un mese fa ha chiesto, su pressione delle famiglie impaurite e
preoccupate, di poter vietare ai migranti assegnati al suo Comune (ben
54 su 622 abitanti) il pullman che porta gli studenti nelle scuole dei
centri vicini. Accadeva infatti che quei migranti, tutte persone adulte e
robuste, imponessero ai ragazzi di alzarsi per lasciar loro il posto.
Come si vede, l’Alabama degli anni 60 prontamente evocata dal
viceministro Nencini c’entrava poco. In generale, l’impressione,
destinata ad alimentare il senso di insicurezza e di paura, è che una
vera politica nei confronti dei migranti manchi. Che manchi, in primo
luogo, la capacità di stabilire quali sono le regole che tassativamente
vogliamo vengano rispettate da chi viene accolto nel nostro Paese.
Ancor
più, forse, manca il coraggio di affrontare quell’aspetto
dell’immigrazione che maggiormente incute timore nell’opinione pubblica.
Mi riferisco alla peculiarità che presenta (in Italia e altrove)
l’immigrazione islamica. La paura di essere accusati di islamofobia ci
impedisce spesso di affrontare la questione in modo serio, guardando in
faccia ciò che rende in questo caso più difficile l’integrazione nel
nostro sistema di valori e nel nostro ordinamento giuridico. In primo
luogo, per riferirsi all’aspetto che riassume buona parte della
questione, la posizione della donna rispetto all’uomo. Secondo un
sondaggio svolto qualche mese fa in Gran Bretagna, il 39% dei musulmani
che vivono in quel Paese ritiene che «le mogli dovrebbero sempre
obbedire ai loro mariti».
Proprio in Gran Bretagna, anzi, esiste
da anni, in nome del multiculturalismo, un sistema giudiziario parallelo
che riconosce alla comunità islamica la possibilità di applicare in
proprie corti la sharia per tutto ciò che riguarda i diritti familiari
(dunque, la sottomissione della donna). Come ha rivelato un dossier di
Micromega sull’argomento, la sharia viene applicata anche in Germania,
benché in forma clandestina e dunque nel chiuso di alcune comunità
islamiche. In Italia, per le minori dimensioni delle comunità islamiche e
per la più recente immigrazione, non siamo a questo punto. Ma
bisognerebbe sfruttare questo vantaggio per affrontare in tempo la
questione; ad esempio verificando davvero che, nel chiuso delle comunità
di immigrati, non esistano pratiche incompatibili con i nostri
ordinamenti come la poligamia e i matrimoni combinati. In questo modo si
otterrebbe anche di dare all’opinione pubblica la percezione che chi
governa è consapevole dei problemi legati all’immigrazione e riconosce
la fondatezza di certi timori.