giovedì 15 settembre 2016

Corriere 15.9.16
«Così si va oltre la fertilità e si approda nell’etica»
di A. Bz.

La nascita di Louise Brown, prima bambina in provetta, nel 1978, poi la clonazione della pecora Dolly, nel 1996, e ora l’esperimento dei ricercatori inglesi che fa ipotizzare la possibilità di un concepimento senza l’ovulo materno: progressi scientifici che hanno aperto un ampio dibattito etico sulla procreazione. Ne parliamo con Umberto Veronesi, scienziato di fama mondiale.
Professor Veronesi come vede questo nuovo passo avanti dal punto di vista etico?
«La procreazione è stata un’area intoccabile fino alla nascita di Louise Brown. All’epoca Robert Edwards, l’ideatore della tecnica di fecondazione in vitro, dichiarò che il successo di quella nascita oltrepassava il problema della fertilità per entrare nel campo dell’etica del concepimento: “Volevo scoprire — disse — chi fosse davvero al comando, se Dio stesso o gli scienziati, e ho dimostrato che noi eravamo al comando”. Le discussioni sono state infinite, ma il quesito è uno solo: a chi appartiene la vita e chi ne è padrone? Per l’etica cristiana appartiene a Dio, nascita e morte sono nelle sue mani e l’uomo non deve intervenire. Se seguiamo questa etica, la procreazione dovrebbe tornare ad essere un tabù tout court: dalla ormai classica fecondazione in vitro, fino alle sperimentazioni più avanzate, come questa».
L’ipotesi è che potrebbe permettere ai gay di procreare. Che cosa ne pensa?
«L’omosessualità è una variante naturale della sessualità, sempre esistita, che ha avuto sorti diverse, promossa o vituperata, in relazione alla cultura predominante. Non c’è motivo, dunque, per cui, se la scienza fa effettivamente un passo avanti, i gay, come tutti gli altri, non ne possano usufruire, se vogliono».
Qualcuno osserva che con queste nuove tecniche, la donna potrebbe perdere una delle sue prerogative più importanti: la capacità procreativa.
«Dal punto di vista sociale ed evolutivo perdere l’esclusiva della procreazione potrebbe non essere uno svantaggio perché la donna si libererebbe del tratto potenzialmente riduttivo della “buona fattrice”. La sua posizione di indipendenza e forza intellettuale ne risulterebbe valorizzata. Ma tutto fa pensare che, pur avendone la possibilità, la maggior parte delle donne non rinuncerebbe alla gioia di essere madre».