martedì 13 settembre 2016

Corriere 13.9.16
La madre nascose gli abusi raccontati dalla figlia 13enne
Melito, le violenze in un tema. La famiglia temeva il discredito

MELITO PORTO SALVO (Reggio Calabria) Sapevano delle violenze sessuali subite dalla loro figlia all’epoca tredicenne, ma non hanno denunciato i violentatori. «Le rivelazioni dei fatti avrebbero provocato discredito della famiglia e forse saremmo dovuti andare ad abitare in un altro paese». Così si è giustificata la madre di Maddalena (nome di fantasia) quando l’avvocato della famiglia le ha consigliato di sporgere querela.
Nel descrivere la vicenda di Melito Porto Salvo, paese di diecimila anime sul versante ionico, a pochi chilometri da Reggio Calabria, il giudice delle indagini preliminari Barbara Bennato, che ha mandato in carcere otto ragazzi del luogo, tra cui un minorenne, con l’accusa di stupro, si è soffermata sull’isolamento patito dalla vittima. Scrive il gip: «La ragazzina si era sentita sola, senza alcuna protezione e, pur sopraffatta dalla rabbia per l’abbandono dei genitori, si era trovata nelle condizioni di dover subire in silenzio un penoso rosario di violenze, atteggiamento paradossalmente impostole a protezione dell’incolumità degli stessi genitori, distratti e inadeguatamente interessati alla sua crescita evolutiva».
«Per vergogna», insomma, i genitori di Maddalena, hanno lasciato la loro figlia in balia dei suoi violentatori per tre anni. La coppia era sul punto di separarsi.
Maddalena conosceva bene i suoi aguzzini: era imparentata addirittura con il «capo» del gruppo, quel Giovanni Iamonte, figlio di Remigio attualmente al 41 bis, considerato dagli inquirenti il boss dell’omonima famiglia di ’ndrangheta che gestisce le attività criminali a Melito Porto Salvo. Il padre della giovane infatti è cugino di Remigio, mentre la mamma ha lavorato alle dipendenze del boss per anni.
In questa storia la scuola ha avuto un ruolo determinante. È grazie a un tema svolto in classe dalla vittima, che frequentava il liceo delle Scienze umane e linguistiche a Reggio Calabria, che è stato possibile far emergere la storia di Maddalena. Con i carabinieri di Melito che hanno indagato la ragazzina ha ricostruito la sua vicenda iniziando proprio dal tema. Ecco cosa ha riferito: «(...) fino a che un giorno a scuola la mia professoressa d’italiano ci dà un tema dove dovevamo parlare del ruolo che avevano avuto i nostri genitori nella nostra vita (...). E io nonostante non abbia detto niente per proteggere anche loro ero arrabbiata con loro perché comunque loro non se ne sono mai accorti di niente (...). Come fai a non accorgertene che tua figlia sta attraversando un periodo difficile, una difficoltà... niente completamente».
I carabinieri allertati da telefonate anonime che parlavano di violenza sessuale su una minorenne del luogo, avevano fatto delle indagini riuscendo a individuare la ragazzina. Più volte avevano sentito in caserma i suoi genitori. Mai, però, era arrivata un’ammissione o la disponibilità di questi ultimi a denunciare. Anzi, i militari hanno registrato un «atteggiamento reticente e ondivago» della madre.
Un avvocato amico di famiglia era riuscito a fissare un appuntamento con il procuratore aggiunto di Reggio Calabria Gaetano Calogero Paci per formalizzare la querela. La mamma di Maddalena si era detta disponibile poi, però, aveva fatto marcia indietro, «manifestando il suo disappunto per l’operato del legale».
E mentre la madre si rifiutava di denunciare i violentatori di sua figlia, il padre raccontava ai carabinieri particolari agghiaccianti sul comportamento della ragazzina, senza però voler mai denunciare quello che pure aveva visto. «Ho riscontrato sul corpo di mia figlia delle piccole cicatrici all’interno delle gambe e sui polsi; mia moglie mi ha riferito che sono dei tagli che si procurava a scopo autolesivo con dei coltelli e che pertanto è stata costretta a nascondere».