lunedì 12 settembre 2016

Corriere 12.9.16
Spesa pubblica
La verità dietro i numeri
La trappola del debito I risparmi su scuola e servizi per poi pagare gli interessi
di Federico Fubini

L’errore peggiore che si possa commettere quando si parla di spesa pubblica è farne una questione ideologica o peggio una guerra di religione. Non perché non sia legittimo il confronto fra culture diverse sul ruolo dello Stato nell’economia, ma perché in Italia è sempre potente la tentazione di affidarsi ai propri pregiudizi o alle impressioni invece che ai fatti, per poi prendere (o pretendere) decisioni immediate.
Prima i fatti, dunque, perché è più prudente partire da lì. La questione più ovvia da chiarire, ma anche la più superficiale, è se questo governo dal 2014 abbia veramente ridotto oppure aumentato la spesa pubblica. Sostenitori e detrattori assicurano infatti l’una cosa e l’altra, a seconda di dove siano schierati. Vedremo tra poco perché questa domanda che non aiuta a capire poi molto, ma la risposta ad essa dipende in buona parte da come si valuta il bonus da 80 euro deciso nel 2014 e i suoi succedanei degli anni seguenti. Tolti circa 77 miliardi di interessi da pagare sul debito pubblico (un fattore fuori dal controllo del governo), la spesa corrente dello Stato cresce oppure si stabilizza a seconda che si segua l’una o l’altra fra due interpretazioni.
Il governo dice che quei bonus sono un taglio dell’imposta sui redditi, dunque in teoria non dovrebbero dare luogo ad alcun aumento delle uscite. Le norme di contabilità europea seguite anche dall’Istat classificano invece quel provvedimento come un trasferimento alle famiglie, dunque una spesa.
In questo caso contribuisce per quasi 10 miliardi a far salire le uscite correnti dello Stato (al netto degli interessi) da 684,1 miliardi di euro del 2013 ai 691,2 del 2015.
Ma, appunto, non serve a nulla fare di una disputa contabile una questione ideologica. Si può discutere nel merito di quella misura. I sostenitori dicono che è giusto dare ossigeno alle famiglie dopo anni di austerità, gli scettici notano che forse non ha funzionato: l’Istat nota che nel secondo trimestre i consumi sono saliti dall’anno prima, ma gli italiani hanno comprato sempre di più prodotti esteri, al punto che l’import è corso più dell’export e infatti il saldo nel commercio con il resto del mondo ha tolto un bel po’ alla crescita del Paese.
Anche così, però, è una discussione dal fiato corto. In Italia litigare sul dito che indica la luna è uno degli sport nazionali e il clima che si è creato attorno alla spending review lo conferma. Il punto non è capire solo quanto spende lo Stato, ma in cosa e in come. Quanto a questo, la buona e cattiva notizia allo stesso tempo è che con gli ultimi governi (da Berlusconi con Tremonti, a Prodi con Padoa-Schioppa, fino agli attuali) tagli alla spesa ce ne sono stati. E di feroci. Non sono stati falcidiati solo gli investimenti. Grazie all’Ufficio parlamentare di bilancio scopriamo che le spese per istruzione, in valori attuali, sono scese da 1.308 euro per abitante del 2007 a 1.026 del 2014; i tre miliardi della Buona scuola di Renzi arrivati nel frattempo non compensano che in minima parte: se l’Italia volesse investire nell’educazione quanto accade in media dei Paesi della Ue — in proporzione al Pil — dovrebbe trovare almeno dodici miliardi di euro. In altri termini, lo Stato recupera tagliando su scuola e università parte degli oneri in più a cui fa fronte per colpa di un debito del tutto fuori dalla norma.
Altri esempi di serie spending review non mancano. Quella per la Difesa è leggermente sotto alle medie europee e dal 2009 è scesa da 381 a 305 euro per abitante in valori attualizzati. Il costo dei cosiddetti «Servizi generali» — in sostanza gli statali — è di 2.259 euro per italiano nel 2014 contro 2.032 della media dell’area euro, ma è in calo costante dai 3.538 euro del ‘96. Il governo Monti impresse un’accelerazione su questo fronte e oggi la combinazione di stipendi congelati più blocco dei rimpiazzi fa sì che il costo del personale pubblico sia sceso da 166 miliardi del 2011 a 159,2 del 2015: un’enormità, se si tiene conto della pur scarsa inflazione di questi anni.
Dunque tagli di spesa se ne sono fatti, eccome. Restano però almeno due domande urgenti. La prima è se anche l’attuale governo abbia fatto la propria parte. In buona parte sì, se si guarda ai dati sulle uscite per consumi finali pubblicati dall’Istat: sia che si guardi alla spesa pubblica totale dell’amministrazione (meno due miliardi nel 2015 sul 2014), o ai servizi generali (meno 1,2 miliardi), o alla protezione dell’ambiente e assetto del territorio (meno 750 milioni), di sforbiciate ce ne sono state. Non però per i 25 miliardi di euro che il governo sostiene di aver coinvolto nella spending review.
L’impressione è che anche qui bisogna intendersi su come si calcolano i fattori. Per esempio il governo sostiene che continua a tagliare sulla sanità, e sicuramente sta riducendo gli sprechi. Ma in senso assoluto quei tagli non sono da prendere alla lettera: per tradizione il ministero dell’Economia indica delle «tendenze» di crescita della spesa sanitaria in linea con un’immaginaria ripresa del Pil (uscite da 109 miliardi nel 2013, a 121 nel 2018) e poi considera «taglio» qualunque aumento degli oneri al di sotto di quei livelli. Nel 2015 la sanità è costata 112,4 miliardi.
Ed ecco l’altra domanda, ancora più urgente: com’è possibile che dopo aver messo sotto controllo tutte queste voci la spesa corrente salga ancora (al netto degli interessi)? In piccola parte sono sussidi alle imprese che l’anno scorso sono cresciuti di 3,7 miliardi dall’anno prima, a quota 25,7 miliardi, in gran parte per le aziende di trasporto pubblico. Ma soprattutto è per via della spesa pensionistica, perché questa continua a salire rapidamente in modo meccanico, benché più sotto controllo dagli interventi di Mario Monti nel 2012. Le uscite da pensioni fra tre anni costeranno ben 25 miliardi più di quanto siano costate tre anni fa. Questo spiega in buona parte perché la spesa corrente sia di altrettanto al di sopra dei livelli ai quali la lasciò il governo di Enrico Letta.
I fatti dunque mostrano che non è una questione di ideologie, ma di scelte. Margini per ridurre le uscite dello Stato ce ne sono ancora, fuori e dentro il sistema pensionistico, ma non sarà facile. L’Italia (non solo il governo) deve decidere che tipo di amministrazione vuole, e in quali snodi ne vuole concentrare l’efficienza. Se vuole ottenere qualcosa, questo Paese deve sapere dove vuole spostare le risorse scarse che ha a disposizione: ai giovani o agli anziani, verso i consumi di beni (spesso) prodotti all’estero o a sostegno di chi innova e crea lavori qualificati? Il resto, francamente, è rumore di fondo.