Corriere 12.9.16
Una «doppia Europa» per salvare il progetto e governare la Brexit
di Antonio Armellini
Il
coro è stato unanime: solo tornando allo spirito di Ventotene» l’Europa
potrà ripartire. Quella immaginata da Altiero Spinelli (presentato da
più parti, chissà perché, come «ex comunista», quando nel Manifesto di
Ventotene di rivoluzionario c’è molto, ma di comunista nulla) ed Eugenio
Colorni postulava il superamento dello Stato nazionale, considerato la
causa principe di instabilità e conflitti. Il movimento federalista non
ha smesso, un po’ ammaccato, di ricordarlo, ma a Ventotene è proprio
dagli Stati che si è partiti. Non si è sentita la voce europea della
Commissione: al tempo di presidenti come Hall-stein e Delors — o Prodi —
sarebbe stato impensabile: nell’era di Juncker è sembrato inevitabile.
Tutto ciò non per delle geremiadi inutili, ma per cercare di capire di
quale Europa stiamo parlando.
Complice la fuoriuscita britannica,
Renzi ha ottenuto per l’Italia il posto di prima fila che cercava.
Hollande e Merkel hanno presentato una immagine di solidità europea che
potrebbe tornare utile, in previsione di scadenze elettorali delicate.
Il programma annunciato dal ponte di nave «Garibaldi» contiene tutte le
giuste priorità; i tre Paesi si sono impegnati a realizzarlo in tempi
brevi e a illustrarlo al Vertice informale di Bratislava, il 16
settembre, per farne un impegno comune al prossimo Consiglio europeo.
Come effetto di annuncio, niente da dire; fra il dire e il fare però…
Immigrazione,
Schengen, euro, terrorismo, sicurezza, Brexit: che siano questi i temi
su cui si gioca la sopravvivenza dell’Europa come soggetto politico
autonomo non sfugge a nessuno. Su come affrontarli le posizioni restano
distanti e lo confermano le prime reazioni al viaggio della Merkel a
Varsavia e nei baltici. Parlare di polizia di frontiera europea quando
il referendum ungherese sta gemmando molti epigoni, di difesa e di
esercito comune quando Francia e Italia stanno su sponde distinte in
Libia, rischia di diventare mera astrazione se prima non si definisce
l’unità di intenti su cui si dovrebbe operare. C’è il rischio di creare
nuovi strumenti prima di averne definito il quadro politico, con una
inversione logica tipica del processo comunitario, che in passato bene o
male ha funzionato ma ora non più, come dimostra la vicenda dell’euro.
Una
integrazione differenziata dovrebbe poter salvaguardare la dinamica
europea, prevedendo tempi, strumenti e modalità diversi in funzione
delle rispettive capacità e volontà politiche. Si tratta di un passo
avanti importante, che tiene correttamente conto del fatto che non è
possibile muovere tutti con la stessa determinazione e velocità, ma ha
un limite. Tutti i modelli di cui si discute (ne ha parlato da ultimo
anche il ministro Gentiloni) partono dall’assunto che l’obiettivo ultimo
dell’integrazione differenziata rimane lo stesso: lontano e indefinito,
ma comune. Che ci sia, in altre parole, un mantra europeo condiviso. Ma
l’«unione sempre più stretta fra i popoli» è stata consegnata
all’archivio della memoria e quel mantra non c’è più.
È necessario
compiere un passaggio logico ulteriore e prendere atto che nella Ue
coesistono non percorsi, ma due «famiglie» politiche distinte: l’una in
direzione di una identità politica comune e l’altra di una integrazione
guidata dal mercato. Sono autonome, reciprocamente permeabili, non
conflittuali e si muovono lungo percorsi paralleli, all’interno di una
Unione Europea retta dai principi fondamentali della democrazia
rappresentativa, dell’economia di mercato, dello Stato di diritto e
delle libertà della persona. Consentire a esse di operare con tempi,
modalità e strumenti dettati dalle rispettive priorità rappresenta una
forma più avanzata e sicuramente più efficace di «integrazione
differenziata», capace di superare le tensioni inevitabili fra diverse
velocità all’interno di un percorso unitario (basti pensare al difficile
rapporto fra ins e outs nell’euro).
Una simile «Europa di due»
potrebbe massimizzare le opportunità di entrambe. Consentirebbe di
perseguire l’Europa politica senza patire i vincoli di quanti
privilegiano la sovranità statuale; di promuovere quella del mercato
senza pagare lo scotto di una sovranazionalità rifiutata. Permetterebbe
di testare i limiti dell’idea di Europa sovranazionale, verificando
quanti fra coloro che la auspicano la vogliano davvero (cominciando dai
diciannove dell’euro). L’Europa di due avrebbe potuto prevenire il
trauma della Brexit e potrebbe governarne meglio i seguiti. Così come
potrebbe utilmente contrare nuove derive separatiste.
Arrivarci,
vorrebbe dire superare il tabu di una revisione dei trattati che nessuno
dice di volere. Sarebbe un’Europa diversa da quella di Altiero Spinelli
ma, davanti allo sfacelo in cui rischia di sprofondare, lui sarebbe il
primo a chiedere a gran voce di mettere da parte pregiudizi e timidezze e
por mano a una rifondazione dell’intero edificio.