sabato 10 settembre 2016

Corriere 10.9.16
Le divisioni dei Democratici e il prezzo che pagano tutti
Un pd così diviso e litigioso è un danno per tutto il paese
di Massimo Franco

I l referendum sulle riforme costituzionali è già complicato di per sé. Non bastasse le critiche più dure e corrosive si debbono a esponenti vecchi e nuovi dei Democratici, il partito del premier. Viene da chiedersi come mai, dopo quasi tre anni da segretario e due e mezzo da capo del governo, Renzi si ritrovi più accerchiato di prima. I risultati del voto amministrativo e la crescita zero, complice una narrativa referendaria azzardata, hanno finito per enfatizzare i contraccolpi di una eventuale sconfitta, tutt’altro che scontata. Il risultato collaterale è stato di sovraesporre l’Italia come nazione in pericolo di stabilità e di tenuta del sistema agli occhi di un’Europa risucchiata dai nazionalismi, e dunque a caccia di capri espiatori. La questione della data del voto non ancora fissata è rilevante non in sé, ma per lo sfondo di nervosismo e tensioni interne. E la rendita di posizione garantita dai pasticci dei Cinquestelle a Roma e dai lavori in corso nel Centrodestra non durerà all’infinito.
La babele delle posizioni del Pd è diventata il vero tallone d’Achille di Matteo Renzi. Il referendum sulle riforme costituzionali è già complicato di per sé. Spiegarne i contenuti si dimostra meno facile del previsto. E personalizzarlo come era stato fatto all’inizio ha significato accentuare le resistenze. Oggi il premier sembra oscillare tra un istinto liquidatorio verso i fautori del No, e un atteggiamento difensivo che punta a smentire l’accusa di preparare un cambio pasticciato della Costituzione; e di averne caricato eccessivamente il significato. E le motivazioni più dure e corrosive si debbono a esponenti vecchi e nuovi dei Democratici.
Se critiche di questo tenore provenissero solo dal Movimento 5 Stelle, dalla Lega e da Forza Italia, rintuzzarle sarebbe relativamente semplice: sono avversari, stanno all’opposizione, strumentalizzano. Ma il fatto che arrivino dalla sinistra e dallo stesso Pd, e ora anche, ambiguamente, dalla Cgil, cambia lo sfondo. Trasmette l’immagine di un partito-perno del governo e del Paese attraversato da crepe profonde. Già associare un perno a due o tre crepe è un ossimoro, sia nella realtà fisica che in quella simbolica della politica. Ma se Renzi non riesce a convincere tutti nelle proprie file, il rischio che le ragioni del Sì emergano ridimensionate diventa non solo virtuale.
Probabilmente hanno ragione i suoi sostenitori a far presente che molti fautori del No nel Pd puntano a logorare o scalzare il presidente del Consiglio. La domanda che sorge spontanea, tuttavia, è come mai dopo quasi tre anni da segretario e due e mezzo da capo del governo, Renzi si ritrovi più accerchiato di prima. La prospettiva preoccupante è che da teorico della «rottamazione», termine infelice e violento se applicato alle persone, il premier appaia come candidato-principe al logoramento; e per controversie che in gran parte rimandano al suo partito.
L’impressione è che stia pagando una strategia costruita in un momento di pericolosa euforia, quando intravedeva un futuro costellato di vittorie elettorali e di ripresa economica: due condizioni che in pochi mesi sono state smentite, purtroppo, da una realtà dispettosa; e che, complice una narrativa referendaria azzardata, hanno finito per enfatizzare i contraccolpi di una eventuale sconfitta, tutt’altro che scontata. Il risultato collaterale è stato di sovraesporre l’Italia come nazione in pericolo di stabilità e di tenuta del sistema agli occhi di un’Europa risucchiata dai nazionalismi, e dunque a caccia di capri espiatori.
Ma soprattutto, la drammatizzazione e le sconfitte del Pd sul piano locale alla vigilia dell’estate hanno ridato ruolo e spinta a personaggi e fazioni del Pd che in teoria dovevano essere stati assorbiti o piegati dal nuovo corso renziano; e che invece hanno trovato nel referendum un facile campo di battaglia. Il solo dettaglio che in questi giorni riscuotano applausi e solidarietà alle feste del partito attaccando il premier, acuisce il sospetto di una leadership in affanno. La questione della data del voto referendario non ancora fissata diventa rilevante non in sé, ma perché si inserisce in questo sfondo di nervosismo e di tensioni interne.
Non averla decisa è un’arma nelle mani degli avversari di Renzi e del Sì. E finisce per sottolineare e forse esagerare le fratture nel Pd e la consistenza del fronte del No. Sono incertezze che l’Italia non si può permettere, e che il governo dovrebbe cercare di ridurre al minimo. La sua posizione di rendita è data dal deserto dello schieramento alternativo: un privilegio garantito dai pasticci e dalle convulsioni capitoline del Movimento 5 Stelle, e da un centrodestra che per adesso somiglia a un cantiere a inizio lavori. Ma le rendite non durano all’infinito.
Bisogna stare attenti. I limiti evidenti e macroscopici della formazione di Beppe Grillo favoriscono la sopravvivenza del governo. Specularmente, tuttavia, la guerra civile nel Pd e i risultati mediocri in economia si candidano a essere la garanzia della tenuta e perfino dell’ascesa del M5S. Se non si spezza questa dinamica perversa, una vittoria del Sì al referendum non basterà a raddrizzare la situazione. Anzi, potrebbe farla precipitare. Per i Democratici, l’unità dovrebbe essere un imperativo e un gesto di responsabilità verso il Paese. E Renzi, come segretario e premier, è il primo a doversene fare carico.