Repubblica 10.9.16
Giorgio Napolitano
“Bocciare la revisione della Carta sarebbe un’occasione mancata, scarseggia il senso di responsabilità”
“Un errore la personalizzazione, ma sbaglia anche chi fa del referendum il terreno di un attacco radicale a chi guida il Paese”
“Assurda la guerra alle riforme ma serve un accordo per cambiare l’Italicum”
C’è qualcosa di più di un vento euroscettico, siamo davanti a un’ondata di politica della rabbia
Si rischia di consegnare il 54 per cento dei seggi a chi al primo turno ha preso molto meno del 40% dei voti
C’è qualcosa di più di un vento euroscettico, siamo davanti a un’ondata di politica della rabbia
I governi devono avere il coraggio di posizioni innovative e anche di richiami alla coesione
intervista di Mario Calabresi
Giorgio
Napolitano è nato nel 1925 a Napoli. Dopo l’addio al Quirinale nel 2015
ha continuato a impegnarsi sulla scena pubblica, a partire dalla difesa
della riforma costituzionale. In agosto ha ricevuto il premio Capalbio
per il suo libro “Europa, politica e passione”
«CON
QUELLO che succede nel mondo e quello che ha sulle spalle l’Italia, è
davvero surreale l’infuriare di una guerra sul referendum
costituzionale». L’intervista è appena finita e Giorgio Napolitano che è
venuto a trovarci a Repubblica si è già alzato per andare a casa, ma
continua a scuotere la testa preoccupato: «Non c’è respiro, non c’è
visione ampia, manca lo sguardo lungo e soprattutto scarseggia il senso
di responsabilità».
La parola che ha ripetuto di più nell’ora e
mezza di colloquio è “guerra”, tale è la voglia di bollare come insana
la china presa dallo scontro sulla riforma. «Credo si comprenda che
mettere (alla cieca) a rischio la continuità e l’azione del governo oggi
esponga il Paese a serie incognite in termini di convulsione politica e
istituzionale. E la cosa è diventata più grave dopo il referendum
britannico, perché molti, e non solo nell’Unione, aspettano di vedere,
nonostante i due casi siano clamorosamente diversi, se ci sarà il bis di
un rovesciamento di governo in Europa».
Il presidente emerito
della Repubblica non riesce ad andare in pensione, perché dalla passione
politica è impossibile congedarsi, ma se la sua attenzione è tutta per
l’Europa e le sue derive populiste, e per i troppi conflitti e focolai
di tensione nel mondo, il suo impegno concreto è concentrato sulla
possibilità in questo momento di riformare l’Italia, il suo stesso
ordinamento costituzionale.
Convinto sostenitore del Sì al
referendum ma convinto anche che la personalizzazione impressa da Renzi
sia stata un errore, spiega che occorre una svolta costruttiva nel
confronto sulla riforma costituzionale, e anche una riflessione sulla
legge elettorale, sulla quale «il governo dovrebbe definire il suo
atteggiamento indipendentemente dal pronunciamento della Corte
costituzionale».
Presidente, cosa la spinge a impegnarsi ancora nel dibattito politico e sul referendum?
«Non
solo l’idea di una politica come passione, ma un’inquietudine profonda
nel vedere così distruttivamente divisa la politica italiana, così poco
presente il senso di responsabilità di fronte a problemi che gravano di
molte incognite il futuro del Paese e delle sue giovani generazioni. Non
vedo abbastanza respiro, capacità di elevarsi al di là di tante dispute
estremizzate e di ritrovarsi in alcune grandi esigenze di impegno
comune, come quella a cui ci ha richiamato tragicamente il recente
terremoto. È questo che mi inquieta».
Si possono leggere i suoi
interventi quasi come dettati dalla necessità e dall’urgenza di finire
un lavoro iniziato, nonostante lei abbia lasciato da un anno e mezzo il
Quirinale.
«Mi spinge a far sentire la mia voce anche il tentativo
di molti di cancellare il ricordo di quella pressante richiesta
rivoltami dopo le ultime elezioni ad accettare il secondo mandato di
presidente, e il ricordo del discorso di quel 22 aprile 2013 al
Parlamento riunito in cui diedi conto del perché avevo accettato, e a
quali condizioni, l’invito quasi unanime a continuare».
Si è mai
pentito di aver accettato il secondo mandato nonostante la stanchezza,
la convinzione di voler tornare a casa dopo aver fatto il proprio dovere
e l’auspicio di sua moglie a ritagliarvi infine uno spazio privato?
Ricordo che il trasloco di libri e vestiti era già stato fatto e non
fece mai il viaggio al contrario, a sottolineare come lei considerò il
secondo mandato un fatto eccezionale e necessariamente temporaneo.
«Potrei
certamente parlare, e ho parlato più volte, di errori e insufficienze
della mia lunga vita pubblica. Ma non ho da pentirmi per quella mia
scelta avendo sempre concepito la politica con senso del dovere, cioè
come responsabilità a cui non ci si può sottrarre».
Dal suo punto di vista come si è arrivati a questo scontro sulle riforme?
«Noto
prima di tutto che si è parlato poco del fatto che le firme per
chiedere il referendum le hanno raccolte i fautori del sì mentre quelli
del no non hanno avuto la forza di raggiungere il numero minimo. Forse
c’è anche da riflettere se fu giusto prevedere nell’apposita mozione
parlamentare, con l’accordo del governo Letta/Quagliariello, la facoltà
di sottoporre comunque a referendum il testo di riforma che fosse stato
approvato».
Chi è responsabile di quella che lei definisce una guerra?
«È
noto che io non ho condiviso la iniziale politicizzazione e
personalizzazione del referendum da parte del Presidente del Consiglio,
ma specie all’indomani del sia pur lento sforzo di correzione di questo
approccio da parte di Renzi, nulla può giustificare la virulenza di una
personalizzazione alla rovescia operata dalle più diverse opposizioni
facendo del referendum il terreno di un attacco radicale a chi guida il
PD e il governo del Paese ».
Gli oppositori sono molti, anche all’interno del Pd.
«Vedo
molte smemoratezze tra politici e tra studiosi che sembrano aver
dimenticato tutto il lungo iter di riflessioni e di vani tentativi di
rivedere la seconda parte della Costituzione. Peraltro oggi non si
tratta solo, nel porvi mano, di recuperare un abnorme ritardo ma di
vedere come è ridotto il nostro quadro istituzionale per non averlo
riformato prima. In particolare come è stato mortificato il Parlamento, e
stravolto il processo legislativo, da pesanti, croniche forzature.
Questa riforma ne può consentire il superamento, e rappresenta oggi,
specie per questo, una priorità e un’urgenza ».
Oggi però la
riforma è sotto accusa perché Renzi avrebbe prevaricato sul Parlamento
facendo presentare al governo un progetto di riforma a tutto beneficio
dell’esecutivo.
«Non si dicano altre falsità su come è stato
avviato quel progetto: sono state le Camere che a schiacciante
maggioranza, il 29 maggio 2013 (era allora in carica il governo Letta)
hanno “impegnato il governo a presentare alle Camere un disegno di legge
costituzionale” di cui la mozione parlamentare aveva indicato finalità e
obbiettivi. Renzi ha ricevuto il testimone e non ha dunque con una
scelta arbitraria calpestato il Parlamento. Restituiamo allora una
misura al confronto sul referendum. E non facciamo prevalere riserve
specifiche anche comprensibili sulle novità sostanziali della riforma:
ricordiamoci lo spirito che condusse una larghissima maggioranza ad
approvare la Carta nell’Assemblea Costituente nonostante su punti non da
poco molti avessero forti riserve ».
Proprio l’altro ieri il
presidente del consiglio ha chiamato “riforma Napolitano” il testo che
sarà sottoposto al referendum. È d’accordo?
«La riforma non è né
di Renzi né di Napolitano, ma è quella su cui la maggioranza del
Parlamento ha trovato l’intesa. E importanti sono le novità che
contiene, nelle quali perciò mi riconosco in coerenza con le tesi da me a
lungo sostenute».
Molti dicono che questa riforma è un’occasione
mancata «È bocciandola che se ne farebbe un’occasione mancata. Lasciando
credere che si potrebbe ripartire da zero e fare meglio».
Eugenio
Scalfari, come molti altri sostiene che non può votare a favore del
referendum se prima non si cambia la legge elettorale. «Pur conoscendo
lo spirito costruttivo che muove Eugenio Scalfari, non ho mai creduto
alla formula del “combinato disposto”, all’effetto perverso congiunto
che scatterebbe tra la riforma costituzionale e l’Italicum».
Il motivo è una somma di poteri che rischia di non avere contrappesi.
«Di
contrappesi vecchi e anche nuovi ce ne sono di assai corposi. Non vedo
alcun pericolo autoritario, cosa che riconoscono anche molti esponenti
del No, ma a mio avviso è in tutt’altro senso che c’è da riflettere
sull’Italicum. Perché rispetto a due anni fa lo scenario politico
risulta mutato in Italia come in Europa. Ci sono nuovi partiti, alcuni
dei quali in forte ascesa che hanno rotto il gioco di governo tra due
schieramenti, con il rischio che vada al ballottaggio previsto
dall’Italicum e vinca chi al primo turno ha ricevuto una base troppo
scarsa di legittimazione col voto popolare. Si rischia di consegnare il
54% dei seggi a chi al primo turno ha preso molto meno del 40% dei voti.
Ritengo che questi e altri aspetti dell’Italicum meritino di essere
riconsiderati».
Fa bene il governo ad aspettare le decisioni della Corte Costituzionale sulla nuova legge elettorale?
«Credo
che il governo debba definire il suo atteggiamento indipendentemente
dall’attesa del pronunciamento della Consulta. Non basta però rendere
ossequio al ruolo del Parlamento dichiarando di essere disposti a tenere
conto degli orientamenti che esso esprimerà. Dovrebbe essere interesse
di Renzi promuovere una ricognizione tra le forze parlamentari per
capire quale possa essere il terreno di incontro per apportare modifiche
alla legge elettorale. C’è in questo momento una sola iniziativa sul
tappeto, è di esponenti di minoranza del PD tra i quali Speranza ed è
una proposta degna di essere considerata, insieme ad eventuali altre».
Cambiare la legge elettorale oggi non può sembrare un modo per cercare di fermare il movimento cinquestelle?
«Non
mi sono mai posto il problema di trovare un marchingegno per impedire
una possibile vittoria dei cinquestelle né di escluderli da
consultazioni ed eventuali intese per modifiche alla legge elettorale».
Se
si togliesse il ballottaggio verrebbe meno quel meccanismo tanto
apprezzato che permette di sapere il vincitore delle elezioni già la
sera del voto, come accade per esempio in Francia.
«Un meccanismo
che ci dà subito la certezza di chi governerà ma che presenta non poche
debo- lezze ai fini del governo effettivo del Paese, come ci dice quel
che sta accadendo in Francia».
Lei non fa che parlare della crisi
dell’Europa, il libro che raccoglie i suoi ultimi discorsi mette al
centro proprio l’allarme per il deterioramento di uno spazio comune di
pace costruito per mezzo secolo.
«Avverto una forte preoccupazione
ma non ho mai voluto cedere alla tentazione di toni catastrofici, non
ho mai detto, quasi per principio, che l’Unione è sull’orlo della
disintegrazione. Si è costruito nel corso dei decenni qualcosa di molto
complesso e sì è andati in molti campi abbastanza avanti sulla via di
una vera e propria compenetrazione tra economie, Stati, società nel
quadro dell’Unione europea. Tanto che stiamo vedendo attraverso le
convulsioni seguite alla Brexit in Inghilterra quanto sia ormai
difficile per una parte staccarsi dal tutto. Però condivido una
preoccupazione molto seria: c’è qualcosa di più di un vento euroscettico
o euro distruttivo che circola da noi. Siamo davanti a un’ondata di
posizioni populiste, di “politica della rabbia” e di furia iconoclasta
che non soffia solo in Europa ma anche negli Stati Uniti».
Cosa si dovrebbe fare?
«Nel
proprio ambito l’Europa, i governi e le istituzioni che ne hanno la
responsabilità e le figure politiche che ci credono devono non tendere
all’attendismo, ma andare avanti, avere il coraggio di posizioni
innovative e anche di richiami forti a elementi di coesione, di
disciplina, in sostanza di riaffermazione dell’autorità delle norme e
delle istituzioni comuni».
In che senso?
«Se si pensa che
oggi l’Europa sta con il fiato sospeso in vista delle elezioni
presidenziali in Austria o di un referendum di dubbia ammissibilità in
Ungheria, ci si rende conto del punto di gravità cui la situazione è
giunta».
Le ultime elezioni in Germania hanno suonato l’ennesimo campanello d’allarme per l’avanzata di forze xenofobe e populiste.
«Ci
sono elementi largamente previsti ma anche imprevedibili in questo voto
tedesco. Per esempio il clamoroso passaggio di voti dal partito ex
comunista dell’Est - la Linke - alla formazione più nazionalista che sia
nata nella Germania unificata. Ma vedo il positivo nella reazione della
Cancelliera Merkel che non ha fatto marcia indietro e reagisce
confermando piuttosto che rinnegare la sua linea sui profughi. Le
difficoltà sono serie e dovunque, ma conta moltissimo ogni espressione
forte di volontà politica da parte di quanti hanno a cuore l’Europa».
I
rapporti tra Italia e Germania sembravano aver toccato il punto più
basso nello scontro sulla disciplina di bilancio, tanto che lei come
ultimo atto prima di lasciare il Quirinale si preoccupò di organizzare a
Torino un incontro tra i presidenti dei due Paesi insieme ai
rappresentanti della società civile per provare a ricucire un dialogo.
Come vede la situazione ora?
«Penso siano stati fatti notevoli
passi avanti cercando di far dialogare non solo le leadership di governo
ma anche le forze che rappresentano l’economia, la cultura e la società
civile dei due paesi. Dal punto di vista del rapporto tra i due governi
c’è stato un momento di notevole tensione al Consiglio europeo dello
scorso dicembre anche per accenti del governo italiano che non
considerai persuasivi, ma poi si è trovato il modo di operare un
positivo riequilibrio».
Prima di lasciare la Presidenza lei
espresse preoccupazione per un’anacronistica riproposizione di
comportamenti da guerra fredda e auspicò un ritorno della collaborazione
con la Russia per affrontare le sfide che abbiamo davanti, dall’Isis,
al terrorismo alla Siria. Sono passati due anni ma se guardiamo al gelo
di questi giorni tra Obama e Putin dobbiamo concludere che passi avanti
non ne sono stati fatti.
«Per capire la Russia mi rifaccio
all’analisi più convincente che abbia letto, contenuta in un’intervista
di Repubblica a Vittorio Strada pubblicata due mesi fa: dopo la caduta
del muro di Berlino e il crollo dell’Unione Sovietica l’Occidente ha
alimentato tra i russi frustrazioni e sospetti che hanno costituito la
base per politiche reattive e di rivalsa, anche condannabili, decise da
Putin, ma sorrette da forte consenso interno. La crisi in Ucraina con
cui si è ancora alle prese non è nata con l’annessione della Crimea ma
prima, e posso dirlo con personale cognizione di causa, con la
deliberata esclusione della Russia da ogni consultazione in vista
dell’accordo di associazione tra Ucraina e Unione Europea».
Crede che il futuro spingerà a una ricomposizione?
«Quanto
a Obama e Putin, non c’è dubbio sulla mancanza di feeling tra i due
Presidenti, ma c’è stata al tempo stesso nel corso dell’ultimo anno una
collaborazione crescente tra Lavrov e Kerry. La verità è che la
drammatica necessità di convergenze e intese tra Russia e America su più
fronti, quanto mai cruciali, è tale da rendere insostenibili e
contraddittori gli atteggiamenti da ritorno alla guerra fredda. Questo è
il mondo che ci circonda, dominato da sfide assai ardue per l’Europa e
per l’Italia, così da far apparire surreale e miope uno scontro qui così
virulento sulla riforma costituzionale. È tempo di uscire da questo
assurdo stato di belligeranza».
«CON QUELLO che succede nel mondo e
quello che ha sulle spalle l’Italia, è davvero surreale l’infuriare di
una guerra sul referendum costituzionale». L’intervista è appena finita e
Giorgio Napolitano che è venuto a trovarci a Repubblica si è già alzato
per andare a casa, ma continua a scuotere la testa preoccupato: «Non
c’è respiro, non c’è visione ampia, manca lo sguardo lungo e soprattutto
scarseggia il senso di responsabilità».
La parola che ha ripetuto
di più nell’ora e mezza di colloquio è “guerra”, tale è la voglia di
bollare come insana la china presa dallo scontro sulla riforma. «Credo
si comprenda che mettere (alla cieca) a rischio la continuità e l’azione
del governo oggi esponga il Paese a serie incognite in termini di
convulsione politica e istituzionale. E la cosa è diventata più grave
dopo il referendum britannico, perché molti, e non solo nell’Unione,
aspettano di vedere, nonostante i due casi siano clamorosamente diversi,
se ci sarà il bis di un rovesciamento di governo in Europa».
Il
presidente emerito della Repubblica non riesce ad andare in pensione,
perché dalla passione politica è impossibile congedarsi, ma se la sua
attenzione è tutta per l’Europa e le sue derive populiste, e per i
troppi conflitti e focolai di tensione nel mondo, il suo impegno
concreto è concentrato sulla possibilità in questo momento di riformare
l’Italia, il suo stesso ordinamento costituzionale.
Convinto
sostenitore del Sì al referendum ma convinto anche che la
personalizzazione impressa da Renzi sia stata un errore, spiega che
occorre una svolta costruttiva nel confronto sulla riforma
costituzionale, e anche una riflessione sulla legge elettorale, sulla
quale «il governo dovrebbe definire il suo atteggiamento
indipendentemente dal pronunciamento della Corte costituzionale».
Presidente, cosa la spinge a impegnarsi ancora nel dibattito politico e sul referendum?
«Non
solo l’idea di una politica come passione, ma un’inquietudine profonda
nel vedere così distruttivamente divisa la politica italiana, così poco
presente il senso di responsabilità di fronte a problemi che gravano di
molte incognite il futuro del Paese e delle sue giovani generazioni. Non
vedo abbastanza respiro, capacità di elevarsi al di là di tante dispute
estremizzate e di ritrovarsi in alcune grandi esigenze di impegno
comune, come quella a cui ci ha richiamato tragicamente il recente
terremoto. È questo che mi inquieta».
Si possono leggere i suoi
interventi quasi come dettati dalla necessità e dall’urgenza di finire
un lavoro iniziato, nonostante lei abbia lasciato da un anno e mezzo il
Quirinale.
«Mi spinge a far sentire la mia voce anche il tentativo
di molti di cancellare il ricordo di quella pressante richiesta
rivoltami dopo le ultime elezioni ad accettare il secondo mandato di
presidente, e il ricordo del discorso di quel 22 aprile 2013 al
Parlamento riunito in cui diedi conto del perché avevo accettato, e a
quali condizioni, l’invito quasi unanime a continuare».
Si è mai
pentito di aver accettato il secondo mandato nonostante la stanchezza,
la convinzione di voler tornare a casa dopo aver fatto il proprio dovere
e l’auspicio di sua moglie a ritagliarvi infine uno spazio privato?
Ricordo che il trasloco di libri e vestiti era già stato fatto e non
fece mai il viaggio al contrario, a sottolineare come lei considerò il
secondo mandato un fatto eccezionale e necessariamente temporaneo.
«Potrei
certamente parlare, e ho parlato più volte, di errori e insufficienze
della mia lunga vita pubblica. Ma non ho da pentirmi per quella mia
scelta avendo sempre concepito la politica con senso del dovere, cioè
come responsabilità a cui non ci si può sottrarre».
Dal suo punto di vista come si è arrivati a questo scontro sulle riforme?
«Noto
prima di tutto che si è parlato poco del fatto che le firme per
chiedere il referendum le hanno raccolte i fautori del sì mentre quelli
del no non hanno avuto la forza di raggiungere il numero minimo. Forse
c’è anche da riflettere se fu giusto prevedere nell’apposita mozione
parlamentare, con l’accordo del governo Letta/Quagliariello, la facoltà
di sottoporre comunque a referendum il testo di riforma che fosse stato
approvato».
Chi è responsabile di quella che lei definisce una guerra?
«È
noto che io non ho condiviso la iniziale politicizzazione e
personalizzazione del referendum da parte del Presidente del Consiglio,
ma specie all’indomani del sia pur lento sforzo di correzione di questo
approccio da parte di Renzi, nulla può giustificare la virulenza di una
personalizzazione alla rovescia operata dalle più diverse opposizioni
facendo del referendum il terreno di un attacco radicale a chi guida il
PD e il governo del Paese ».
Gli oppositori sono molti, anche all’interno del Pd.
«Vedo
molte smemoratezze tra politici e tra studiosi che sembrano aver
dimenticato tutto il lungo iter di riflessioni e di vani tentativi di
rivedere la seconda parte della Costituzione. Peraltro oggi non si
tratta solo, nel porvi mano, di recuperare un abnorme ritardo ma di
vedere come è ridotto il nostro quadro istituzionale per non averlo
riformato prima. In particolare come è stato mortificato il Parlamento, e
stravolto il processo legislativo, da pesanti, croniche forzature.
Questa riforma ne può consentire il superamento, e rappresenta oggi,
specie per questo, una priorità e un’urgenza ».
Oggi però la
riforma è sotto accusa perché Renzi avrebbe prevaricato sul Parlamento
facendo presentare al governo un progetto di riforma a tutto beneficio
dell’esecutivo.
«Non si dicano altre falsità su come è stato
avviato quel progetto: sono state le Camere che a schiacciante
maggioranza, il 29 maggio 2013 (era allora in carica il governo Letta)
hanno “impegnato il governo a presentare alle Camere un disegno di legge
costituzionale” di cui la mozione parlamentare aveva indicato finalità e
obbiettivi. Renzi ha ricevuto il testimone e non ha dunque con una
scelta arbitraria calpestato il Parlamento. Restituiamo allora una
misura al confronto sul referendum. E non facciamo prevalere riserve
specifiche anche comprensibili sulle novità sostanziali della riforma:
ricordiamoci lo spirito che condusse una larghissima maggioranza ad
approvare la Carta nell’Assemblea Costituente nonostante su punti non da
poco molti avessero forti riserve ».
Proprio l’altro ieri il
presidente del consiglio ha chiamato “riforma Napolitano” il testo che
sarà sottoposto al referendum. È d’accordo?
«La riforma non è né
di Renzi né di Napolitano, ma è quella su cui la maggioranza del
Parlamento ha trovato l’intesa. E importanti sono le novità che
contiene, nelle quali perciò mi riconosco in coerenza con le tesi da me a
lungo sostenute».
Molti dicono che questa riforma è un’occasione
mancata «È bocciandola che se ne farebbe un’occasione mancata. Lasciando
credere che si potrebbe ripartire da zero e fare meglio».
Eugenio
Scalfari, come molti altri sostiene che non può votare a favore del
referendum se prima non si cambia la legge elettorale. «Pur conoscendo
lo spirito costruttivo che muove Eugenio Scalfari, non ho mai creduto
alla formula del “combinato disposto”, all’effetto perverso congiunto
che scatterebbe tra la riforma costituzionale e l’Italicum».
Il motivo è una somma di poteri che rischia di non avere contrappesi.