mercoledì 31 agosto 2016

MONDO

Repubblica 31.8.16
Madrid
L’anarchia spagnola che fa volare il Pil “Noi senza governo stiamo meglio”
Non c’è un esecutivo dallo scorso dicembre, ma l’economia cresce. Avvenne anche in Belgio
di Ettore Livini


In luglio creati 84mila nuovi posti di lavoro E le aperture di bar di tapas superano le chiusure Ma c’è chi contesta il mito del paese acefalo e felice e attribuisce alle riforme del leader Pp i meriti

MADRID GOOGLE, Tesla & C. possono mettersi il cuore in pace. L’era dell’auto senza conducente nasce già vecchia. L’Europa ha brevettato un prodotto ancora più rivoluzionario: i paesi senza guidatore. In grado di vivere felici e prosperare facendo a meno del governo e viaggiando con il pilota automatico. La prima cavia è stato il Belgio. Uscito in forma smagliante dai 541 giorni orfani di premier dopo le elezioni del 2010. Ora tocca alla Spagna. Madrid non ha un esecutivo eletto dallo scorso dicembre. Il paese è andato due volte al voto (l’ultima il 26 giugno) senza riuscire a darsi una guida: Mariano Rajoy, leader del Partito Popolare, cercherà di formare entro venerdì — con scarsissime possibilità di successo — un governo di colazione con Ciudadanos.
I gufi però sono già in azione. Il motivo? Semplice: senza un primo ministro le cose — in Spagna — vanno a gonfie vele: il Pil cresce a ritmi da tigre asiatica (+3,2% le previsioni 2016), a luglio sono stati creati 84mila posti di lavoro, lo spread con i Bund è più basso di quello dell’Italia. E per la prima volta da otto anni — la prova regina del benessere ritrovato — le aperture di bar per le Tapas hanno superato le chiusure. Squadra che vince — anche quando la squadra non c’è — non si cambia. E un pezzo del paese, malgrado le preoccupazioni di Bruxelles, spera in gran segreto nel flop di Rajoy e in nuove elezioni — previste il giorno di Natale — per continuare a sognare.
Antonio Arroyo, 24 anni e una laurea in economia aziendale mai sfruttata («Mi barcameno con collaborazioni saltuarie ») è uno dei tanti fan di questa strana anarchia iberica. «La politica ha fallito. Siamo orfani del bipolarismo. In questi giorni i partiti litigano persino su dove sedersi in Parlamento. Io vedo i fatti — dice bevendo un bicchiere di bianco in un bar a fianco del Prado — da quando la Spagna non ha più medici al capezzale sta molto meglio!». Lui — a dire il vero — non ne ha beneficiato troppo («Sono al verde, tra due giorni parto per fare la vendemmia a Martignol in Francia, prendo 2mila euro in tre settimane»). I numeri però sembrano dargli ragione.
Il limbo della politica non ha frenato i consumi, saliti del +4,9% a luglio. Le banche — salvate nel 2012 da 40 miliardi della Ue — «hanno ripreso a dar soldi ad aziende e cittadini», festeggia il segretario di Stato all’economia Inigo Fernandez Nemesa. Il tempo — governo o non governo — sta cicatrizzando persino le ferite della “Burbuja del Ladrillo”, la bolla del mattone che ha messo in ginocchio il paese nel 2008: «Due anni fa qui vivevano 3mila persone. Ora siamo 8mila e nessuno ci chiama più “gli spettri della città fantasma”», ride Angela Lambea, grafica di 34 anni e fresca acquirente per 98 mila euro di un appartamento di 100 metri quadri alla Sesena, la mega-speculazione del palazzinaro Francisco Hernando Contreras, al secolo “El Pocero” (lo spurgafogne). Lui è fallito, la sua (ex) cattedrale nel deserto a sud della capitale è finita sul groppone delle banche. E proprio ora, con buona pace dei 254 giorni senza premier, sono rispuntati gli acquirenti a riempire gli spazi vuoti: «Io e mio marito abbiamo ritrovato lavoro a tempo indeterminato a gennaio — racconta Angela — con il primo stipendio abbiamo fatto il mutuo e ci siamo messi un tetto sulla testa».
Un caso? I profeti della stabilità e del dirigismo, impegnati in queste settimane a picconare il mito del paese acefalo e felice, sono sicuri di sì. «Il buon stato di salute dell’economia spagnola è figlio dell’inerzia dei provvedimenti di un esecutivo, quello di Rajoy, che ha funzionato », dice Paolo Vasile, consigliere delegato di Mediaset España (ritornata agli utili degli anni pre-crisi). La riforma del mercato del lavoro — una sorta di Jobs Act in salsa iberica — «ha reso Madrid più conveniente di Francia e Germania », assicura Joachim Hintz, direttore finanziario della Seat (Vw). Risultato: i big dell’auto hanno investito miliardi nel paese che è diventato il secondo produttore d’Europa assorbendo parte degli esuberi del settore costruzioni. Altro che pilota automatico: «Il boom dell’industria delle quattro ruote e dell’export è merito del lavoro dell’ultimo esecutivo — si autopromuove Fernandez Nemesa — niente è dovuto al caso». Certo, la fortuna ha dato una mano: le crisi in Egitto, Africa del Nord e Turchia hanno regalato una stagione d’oro al turismo (+12,7% gli arrivi) e «in Costa Blanca ad agosto non si trovava un letto a pagarlo oro», come giura Carola Valls di Visit Benidorm. «Ma con un governo in carica — è certo Miguel Cardoso, capoeconomista della Bbva — il Pil 2016 sarebbe cresciuto del 3,5%».
Non tutto quel che luccica, ovviamente, è oro. Molti nodi sono ancora da sciogliere: la disoccupazione viaggia al 20% (era al 26%), il lavoro creato è spesso precario «e l’abolizione di quella riforma è la nostra priorità appena saremo al governo», giura Pedro Sanchez, leader dei socialisti del Psoe, strizzando l’occhio a Podemos. Entro metà ottobre c’è da presentare il budget (con nuovi tagli) alla Ue. E le Cassandre predicano prudenza: «La paralisi politica ha ridotto del 19,6% gli investimenti in opere pubbliche. Prima o poi la “fiesta” di questi mesi finirà», vaticina l’associazione costruttori. Magari avranno ragione. Ma lo ripetono da metà gennaio. E il sogno della Spagna felice che fa fiesta e vola con il pilota automatico — per ora — è ancora realtà.

Repubblica 31.8.16
Rajoy cerca la fiducia ma gli mancano sei voti
Ieri il discorso alle Cortes: “O me o il caos. Io sono la sola possibilità di dare alla Spagna un governo”
di Alessandro Oppes


MADRID. Ottanta minuti per un discorso che, salvo colpi di scena altamente improbabili, non produrrà alcun frutto concreto. Mariano Rajoy si presenta davanti alle Cortes due mesi dopo le elezioni di fine giugno e al termine di un’estate senza vacanze per chiedere un’investitura presidenziale che, lo sa già, il Parlamento non gli concederà. Né oggi in prima votazione, quando occorre la maggioranza assoluta di 176 deputati, né venerdì prossimo quando sarebbe sufficiente la maggioranza semplice. Non basta la giravolta dell’ultim’ora propiziata dai centristi di Ciudadanos («Mai con Rajoy», ripeteva da mesi il loro leader Albert Rivera) che dopo una trattativa- lampo con il Partito Popolare ha deciso di far confluire sul candidato il pacchetto dei suoi 32 seggi. La somma fa 170, mancano almeno 6 “sì” e non arriveranno dai socialisti né da alcun altro gruppo politico. Per questo Rajoy insiste sull’ineluttabilità di un governo da lui guidato: in caso contrario — ed ecco tornare il “discurso del miedo”, la minaccia basata sulla paura — la Spagna si vedrebbe condannata a tornare alle urne per la terza volta in un anno. In più, addirittura il giorno di Natale, in conseguenza della rigida applicazione dell’”orologio istituzionale” messo in marcia in modo malizioso fissando per oggi il primo voto d’investitura. «Io o il caos», è la sostanza della teoria ripetuta fino alla sazietà da Rajoy che sei mesi fa, quando il candidato premier era il socialista Pedro Sánchez, lo ridicolizzò perché si presentava alle Cortes senza avere i voti sufficienti. Ora il leader popolare rischia di trovarsi in una situazione simile. Ma oggi, dalla tribuna parlamentare, Sánchez gli confermerà il “no” del Psoe. Dal fronte di Podemos, Pablo Iglesias propone di rilanciare il dialogo con il Psoe. Sánchez per ora non risponde, da venerdì si vedrà.

Il Sole 31.8.16
In Germania boom di vendite per le casseforti
Nell’era dei tassi a zero molti risparmiatori tedeschi preferiscono tenere i soldi in casa
di Riccardo Barlaam


Meglio il contante. Pagare cash. Ai tedeschi la moneta di plastica non piace. Un’atavica inconscia eredità dell’era nazista o della Stasi, la temibile e occhiuta polizia segreta della Germania Est. Per il timore recondito forse che le agenzie governative possano mettere le mani sui risparmi, investigare sulle ricchezze nascoste, accumulate dalla volitiva gente teutonica. Ancora oggi, l’80% degli acquisti retail in Germania avviene in contanti, contro il 46% degli Stati Uniti, più avvezzi alle carte di credito, secondo un report della Bundesbank. I tedeschi amano il contante. Ora - affare degli ultimi tempi - nell’era dei tassi a zero e della crescente sfiducia nelle banche, in Germania sta avvenendo un fenomeno curioso: molti risparmiatori hanno deciso di ritirare i soldi dalla propria banca. Preferiscono tenerli in casa. Sotto il materasso, che nel loro caso è una moderna enorme cassaforte. «Se tengo i soldi in banca devo pagarci le tasse», è il pensiero piuttosto comune. Tanto più con i tassi di interesse finiti interritorio negativo, per quella politica - di allentamento quantitativo e di tassi bassi della Bce che molti tedeschi (sic) considerano «scellerata». Insomma sono finiti i tempi di guadagno facile con i depositi bancari ad alti tassi di remunerazione. Oggi con i prezzi immobiliari in aumento e il calo dei rendimenti delle polizze vita, molti preferiscono tornare alle banconote. «Nel momento in cui la banca mi ha detto che avrei dovuto pagare un interesse sui miei 50mila euro di depositi ho deciso per il cuscino», ha detto un risparmiatore al Wsj. Il nuovo trend “ventata di ottimismo” del risparmiatore tedesco si è subito tradotto in aumento vertiginoso nella domanda di casseforti. Burg-Waechter Kg, primo produttore tedesco, ha avuto un balzo nelle vendite del 25% nei primi sei mesi 2016. Anche i rivali Format Tresorbau e Hartmann Tresore hanno registrato un incremento del venduto a doppia cifra. Resta un mistero da svelare ai poveri abitanti dell’Europa mediterranea che faticano ad arrivare al 31 del mese senza finire in rosso. Per dirla alla Sturmtruppen di Bonvi:?«Ma dofe li prenteranno tutti quei soldi?»

La Stampa 31.8.16
Scoperte 72 fosse comuni tra la Siria e l’Iraq
Seppelliti fino a 15.000 corpi


Da 5.200 a 15.000 uccisi a colpi d’arma da fuoco, decapitati, investiti con autoveicoli o in altri modi, sono sepolti in 72 fosse comuni dell’Isis localizzate in Iraq e in Siria. Ma sono sempre solo una parte - forse minima - di quelli che si prevede verranno scoperti quando i jihadisti saranno costretti ad abbandonare le regioni. È questo il risultato di un’indagine condotta dall’agenzia Ap che si basa su racconti dei sopravvissuti, fotografie e immagini satellitari. Le vittime sono membri della minoranza religiosa yazida, considerati pagani dai fondamentalisti sunniti dell’Isis, sciiti, giudicati apostati, militari degli eserciti iracheno e siriano, civili considerati traditori. Massacri che gli uomini dello Stato islamico non hanno cercato di nascondere e di cui, anzi, si sono spesso vantati mettendo in rete le immagini delle più atroci esecuzioni. Secondo la Ap, delle 72 fosse scoperte finora, 55 sono in territorio iracheno e 17 in Siria.

il manifesto 31.8.16
Siria. Turchia e Rojava, tregua «approssimativa»
Gli Stati uniti annunciano un cessate il fuoco di due giorni tra Ankara e le Ypg. Erdogan non commenta
di Chiara Cruciati


Nessuna parata militare in grande stile quest’anno: il Giorno della Vittoria, immancabile occasione per celebrare le radici del nazionalismo turco, ieri è stato festeggiato in sordina. Dal Ministero della Difesa spiegano che il trauma subito la notte del 15 luglio, il tentato colpo di Stato, va superato lentamente. Forse si preferisce evitare una marcia delle forze armate i cui vertici sono stati decapitati dalle purghe post-golpe.
Non che il presidente Erdogan, che con lo stato di emergenza ha posto esercito e servizi sotto il proprio diretto controllo, non voglia risollevare le sorti dei militari. Per farlo ne esalta le gesta nel nord della Siria, facendo leva sulla facile propaganda della lotta al terrorismo. Peccato che – di nuovo – a scontrarsi contro l’Isis non siano le truppe turche penetrate, per la prima volta ufficialmente, in territorio siriano ma i kurdi delle Ypg. Ovvero quelli a cui danno la caccia da una settimana i sempre più numerosi carri armati di Ankara. Nel pomeriggio di ieri è, però, giunta la notizia di un accordo di cessate il fuoco tra le Forze Democratiche Siriane, Sdf, e l’esercito turco. A renderlo noto è stato il colonnello Thomas, portavoce del Comando Centrale della coalizione anti-Isis: «Nelle ultime ore abbiamo ricevuto l’assicurazione di tutte le parti coinvolte di una cessazione delle ostilità così da focalizzarsi sulla minaccia Isis. Un accordo approssimativo che durerà un paio di giorni, speriamo che si consolidi».
Thomas ha poi specificato che l’accordo è stato frutto della mediazione Usa. Le Sdf confermano parlando però solo di una «pausa», dalla Turchia non giungono commenti ufficiali. Ieri, per il sesto giorno, altri veicoli militari turchi erano entrati nel nord della Siria, in Rojava. E il capo di stato maggiore turco, Hulusi Akar, aveva precisato che Ankara non avrebbe mollato la presa. Una risposta diretta proprio alle recriminazioni degli Usa che, dopo aver sostenuto l’inaugurazione dell’operazione Scudo dell’Eufrate, lunedì hanno tolto l’appoggio. A monte sta l’obiettivo reale dell’offensiva, che la Turchia non ha comunque mai nascosto: le truppe turche e i miliziani delle opposizioni siriane (Esercito Libero in prima linea, ma anche gruppi turkmeni e islamisti) si stanno velocemente muovendo verso sud-est. Presa Jarabulus, frontiera nord-occidentale, i “ribelli” siriani minacciano Manbij.
Ironia della sorte, se si trattasse davvero di coincidenze, mentre i bulldozer militari di Ankara sono impegnati alla frontiera con Rojava a costruire un muro che separi i cantoni turchi dal Kurdistan turco, a combattere lo Stato Islamico sono ancora le Ypg alla testa delle Sdf, la ricca federazione di kurdi, arabi, circassi, turkmeni e assiri che sta ripulendo il nord della Siria dalla presenza Isis (il nemico che in teoria era la ragione scatenante l’operazione Scudo dell’Eufrate): a sud ovest di Manbij, liberata dall’occupazione islamista il 12 agosto, ieri si sono registrati scontri tra Sdf e sacche islamiste, fa sapere Shervan Darwish, portavoce Sdf.
Le Sdf hanno difeso alcuni villaggi del distretto di Manbij, attaccati con almeno tre autobombe dall’Is: gli islamisti, dice Darwish, hanno approfittato degli scontri in corso con le opposizioni siriane e che hanno indebolito le difese delle Sdf. Nel pomeriggio l’assalto del “califfato” non era ancora cessato, ma i jet Usa erano intervenuti a difesa degli alleati a terra. La posizione di Washington si fa ogni giorno più complessa, tra l’incudine kurda e il martello turco. Ieri alle proteste di Washington si sono aggiunte quelle della Francia. Il presidente Hollande ha avvertito la Turchia: «Questi interventi multipli e contraddittori portano con sé il rischio di una più ampia escalation». Per cui, suggerisce, Ankara deve subito interrompere i raid sulle Ypg.

il manifesto 31.8.16
Israele/Territori Occupati
Lieberman: giornalisti nemici dei soldati che combattono i terroristi
Il ministro della difesa israeliano sostiene che i media hanno già condannato i due soldati che hanno ucciso palestinesi che non presentavano alcuna minaccia. Per lui quei militari combattevano il terrorismo
di Michele Giorgio


GERUSALEMME Per i politici la colpa è sempre dei giornalisti. E anche il ministro israeliano della difesa, Avigdor Lieberman, si è aggiunto all’elenco di chi punta l’indice contro i media. A suo dire i giornalisti israeliani (facendo il loro lavoro) impedirebbero ai soldati di svolgere i loro compiti, instillando in loro il timore che potrebbero essere giudicati per quanto fanno nei Territori palestinesi occupati. «Mi aspetto che la stampa lavori sodo per rafforzare la capacità deterrente di Israele contro i nostri nemici e per non scoraggiare i nostri soldati dal combattere i terroristi», ha detto il ministro due giorni fa. Parole che avevano un fine preciso.
Lieberman infatti ha deciso di scendere in campo in difesa dei due soldati finiti sotto i riflettori per aver ucciso due palestinesi che non rappresentavano alcun pericolo. Il primo, il sergente Elor Azaria, è sotto processo per aver sparato, lo scorso marzo a Hebron, a sangue freddo alla testa di un giovane palestinese che poco prima aveva ferito con un coltello un altro militare. Il palestinese, Abdel Fattah al Sharif, ferito dagli spari di altri soldati, era a terra, praticamente immobile e non in condizione di nuocere, quando Azaria lo ha ucciso. L’accaduto è stato ripreso dalla telecamera di un palestinese che coopera con il centro israeliano per i diritti umani B’Tselem che ha subito diffuso le immagini facendo scattare l’arresto del sergente. Il secondo militare, di cui non è nota l’identità, venerdì scorso ha ucciso un palestinese disarmato, Eyad Hamed, 38 anni di Silwad (Ramallah), che non avrebbe rispettato l’intimazione di alt. Per Lieberman la stampa ha già condannato i due soldati. Con un insolito approccio garantista, il ministro ha spiegato che «occorre rispettare il principio della presunzione di innocenza, si è colpevoli solo dopo una sentenza definitiva dei giudici». Infine ha affermato che chi combatte il terrorismo «non può svolgere il suo dovere facendosi accompagnare da un avvocato».
Lieberman e altri ministri cavalcano lo sdegno dell’opinione pubblica schierata apertamente a sostegno dei due soldati finiti sotto accusa. Per la maggior parte degli israeliani i due militari hanno semplicemente fatto il loro dovere: prima si spara e poi si fanno domande «quando si a che fare con i terroristi». E in questo quadro il terrorista non è solo colui che fa esplodere una bomba o che compie un attacco armato ma anche il palestinese che lancia una pietra contro un’automobile israeliana o che «si comporta in modo sospetto». Su questo punta la difesa per ottenere la piena assoluzione per Elor Azaria, accusato peraltro solo di omicidio colposo. Il sergente israeliano afferma di aver sparato ad Abdel Fattah al Sharif per impedire che il palestinese azionasse una cintura esplosiva (che in realtà non esisteva). Una versione smentita dalle testimonianze di alcuni militari, incluso il suo comandante Tom Naaman. Tuttavia negli ultim i giorni Azaria ha visto migliorare la sua situazione processuale grazie ad una valanga di deposizioni e testimonianze, anche di alti ufficiali – come gli ex generali Shmuel Zakai, Dan Biton e Uzi Dayan – a suo favore.
Dayan in particolare, già qualche giorno prima della sua deposizione, parlando a Radio Darom, aveva lasciato capire che l’uccisione di Abdel Fattah al Sharif non doveva entrare in un’aula di tribunale perché, ha lasciato capire, andava risolta all’interno dell’Esercito. A sostegno di ciò Dayan ha portato l’esempio di tre lavoratori palestinesi, a bordo di un minibus, uccisi il 10 marzo 1998, all’incrocio Tarqumiya, tra Israele e la Cisgiordania, da soldati israeliani di guardia un posto di blocco. I militari dichiararono che avevano aperto il fuoco di fronte all’intenzione dell’autista del minibus di investirli. Una versione che fu smentita subito dalle indagini. I soldati furono fermati e interrogati ma non furono processati per l’omicidio che avevano commesso.
Intanto Human Rights Watch, in un suo rapporto, mette sotto accusa l’Autorità nazionale palestinese (Anp) del presidente Abu Mazen in Cisgiordania e il movimento islamico Hamas a Gaza che «arrestano, ingiuriano e incriminano penalmente giornalisti e attivisti che esprimono in modo pacifico critiche verso le autorità». Secondo l’Ong con sede negli Usa, in Cisgiordania l’Anp arresta «attivisti e musicisti che prendono in giro le forze di sicurezza palestinesi e accusano il governo di corruzione» in commenti postati su Facebook o in graffiti e canzoni hip hop. L’Ong riferisce il caso di un’attivista di Gaza critico di Hamas «arrestato e intimidito» e quello di un giornalista, finito in manette, perché «aveva postato la foto di una donna che cercava da mangiare in un bidone di spazzatura».

il manifesto 31.8.16
Burkini, si esprime l’Onu: «Il divieto discrimina i musulmani»


Dopo le polemiche dei giorni scorsi, cui ha fatto seguito la decisione del consiglio di stato francese, è intervenuta anche l’Onu sulla vicenda del burkini. L’Alto commissariato Onu per i diritti umani ha attaccato il divieto di alcuni comuni francesi al burkini in spiaggia, perché «discrimina» i musulmani.
Per questo accoglie con favore la decisione del Consiglio di Stato di bloccare l’introduzione del divieto. «Questi decreti non rafforzano la sicurezza – si legge in un comunicato – ma, al contrario, alimentano intolleranza religiosa e discriminazione dei musulmani in Francia, in particolare le donne. La parità di genere non si ottiene regolamentando i vestiti che le donne decidono di portare».
Per l’Alto commissariato Onu per i diritti umani, favorendo la polarizzazione tra le comunità, i decreti anti-burkini «hanno solo aggravato le tensioni e potrebbero in realtà nuocere agli sforzi destinati a combattere e prevenire l’estremismo violento». «Le limitazioni alla libertà di ogni persona di manifestare la propria religione o le proprie convinzioni, inclusa la scelta dell’abbigliamento, sono autorizzate solo in circostanze molto limitate, inclusa la protezione della sicurezza pubblica, l’ordine pubblico, la salute pubblica o la morale», prosegue la nota. Inoltre, «i codici che riguardano i vestiti, quali i decreti anti-burkini, colpiscono in modo sproporzionato le donne e le ragazze e ledono la loro autonomia, limitano la propensione ad adottare decisioni indipendenti sui modi di vestirsi e costituiscono una chiara discriminazione nei loro confronti».
L’Onu ha quindi «accolto con favore» la decisione del Consiglio di Stato. «Le persone che indossano il burkini non possono essere ritenute responsabili per le reazioni violente od ostili di altri», afferma in una dichiarazione diffusa su Twitter il portavoce dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani, Rupert Colville.

il manifesto 31.8.16
Brasile. Dopo un un'ultima discussione, forse oggi il verdetto per Dilma
Scontri davanti al Senato contro il golpe istituzionale
di Geraldina Colotti


Scontri e gas lacrimogeni, in Brasile, davanti al Senato, dov’è in corso il processo d’impeachment alla presidente Dilma Rousseff. La sentenza potrebbe arrivare oggi, dopo un ultimo maratonico confronto tra accusa e difesa. Se 54 degli 81 senatori voteranno contro Dilma, la presidente verrà sollevata dall’incarico e non potrà accedere a cariche pubbliche per 8 anni. Ai 54 milioni di persone che l’hanno eletta per un secondo mandato, nel 2014, verrà allora imposto un governo non scelto dal popolo, capitanato dall’ex vicepresidente Michel Temer, del Partito Movimento Democratico Brasiliano (Pmdb), ex alleato del Partito dei Lavoratori (Pt).
Temer – «il golpista Temer» per la piazza e per le sinistre – governerà allora fino al 2018, quando si svolgeranno le presidenziali. Il suo gabinetto – interamente composto da maschi bianchi, anziani, corrotti, referenti del grande capitale nazionale e internazionale in un paese di grandi povertà e a maggioranza meticcia – ha già promesso lacrime e sangue per i lavoratori. E un anticipo c’è già stato con il piano di privatizzazioni messo in campo prima di tutto ai danni della impresa petrolifera di Stato, Petrobras. Dietro la mega-inchiesta Lava Jato, che indaga l’evidente intreccio tra affari e politica dai risvolti internazionali che coinvolge quasi tutti i partiti, c’è stato anche un uso politico, teso a togliere di mezzo soprattutto la gestione progressista che ha tenuto il paese finora: quella del Pt che, pur non esente da magagne, non è certo il primo corrotto.
La statura morale di chi resterà a governare se Dilma perde, infatti, offre ben poche garanzie etiche. La percentuale di inquisiti per corruzione fra i parlamentari e i senatori che hanno fin qui votato l’impeachment, è assai elevata: uno per tutti il presidente del Senato Renan Cailheros, per cui la magistratura ha chiesto l’allontanamento dall’incarico e il carcere. Un’accusa che i senatori della sinistra brasiliana gli hanno ricordato in aula. Temer, che governa a interim dal 12 maggio dopo la sospensione della presidente per 180 giorni, ha dovuto rinunciare a diversi ministri per corruzione.
Un video diffuso dai media – ma non addotto come prova – ha mostrato l’architettura del golpe istituzionale, messo in atto dall’ex presidente della Camera, Eduardo Cunha, poi inquisito e sollevato dall’incarico. E un’altissima percentuale di candidati alle municipali di ottobre, appartenenti sia al partito di Temer che a quelli di opposizione, è indagata o è stata arrestata.
Durante un’appassionata difesa in Senato, Dilma ha ricordato le vere motivazioni dell’impeachment e nominato Cunha che ha voluto vendicarsi del suo diniego a coprirne le malefatte. La statura morale di Rousseff – ex guerrigliera torturata dalla dittatura militare – è apparsa evidente, e il suo discorso è stato applaudito anche da senatori a lei contrari: «Non ho conti all’estero», ha detto riferendosi a quelli di Cunha. Si è dichiarata innocente dall’accusa di aver truccato il bilancio, ha denunciato la «rottura costituzionale» incombente e chiesto nuove elezioni.
Difficile che abbia però convinto qualche senatore e che le previsioni catastrofiche vengano smentite. Se perde, Dilma ricorrerà alla Corte suprema. Lo ha confermato durante le 11 ore in cui ha risposto alle domande dell’aula. Il disegno, però, è più ampio e interessa tutto l’arco progressista dell’America latina, dove le forze conservatrici sono tornate prepotentemente. L’ex presidente Lula da Silva lo ha messo nero su bianco in una lettera inviata sia all’ex omologa argentina Cristina Kirchner che al presidente Venezuelano, Nicolas Maduro