mercoledì 31 agosto 2016

ITALIA

La Stampa 31.8.16
I fondi spariti della ricostruzione
Così dal ’97 i partiti hanno gestito i soldi pubblici del dopo-terremoto
Inchiesta terremoto: spesi in “consulenze d’oro” il 40% dei soldi destinati alle case crollate
di Paolo Festuccia


La caccia agli appalti è cominciata. La sta facendo la Guardia di Finanza su delega della procura di Rieti. Obiettivo: accertare quali ditte, quali tecnici e con quali criteri sono stati concessi soldi pubblici per la ricostruzione post sisma del 1997. A cominciare dai lavori svolti nei Comuni di Accumoli ed Amatrice dove le opere rifatte e realizzate per il miglioramento sismico sono crollate nuovamente.
Ma Amatrice e Accumoli, in questa storia di crolli e ricostruzioni, rappresentano solo una piccola parte del fiume di denaro pubblico che con il sisma umbro-marchigiano sono piovuti sull’intera provincia di Rieti. Non solo, il reatino ha beneficiato anche di un’altra cospicua iniezione di denaro pubblico anche per lo sciame sismico del 2001. Risultato: tra il primo stralcio e il secondo i soldi pubblici spesi per riedificare gli immobili lesionati, chiese, scuola e abitazioni private sono stati 61 milioni e 625 mila euro. A questi si devono aggiungere altri 5 milioni (sempre di euro) e il totale arriva a 66 milioni di opere finanziate. Una vera manna per costruttori, professionisti, ingegneri e architetti. A vigilare sulla doppia ricostruzione, soprattutto nella prima fase dell’emergenza, in tempi diversi e in base alle alternanze di governo alla Regione Lazio, si sono avvicendati tre sub commissari: il primo l’ex presidente della Provincia di Rieti Giosuè Calabrese (Ppi all’epoca), il secondo con l’avvento della giunta Storace, l’ex assessore regionale (reatino) di Alleanza nazionale al Turismo e alla Cultura Luigi Ciaramelletti. Infine nel 2005 l’allora presidente della provincia, oggi parlamentare del Pd, Fabio Melilli, quando già molto ormai era stato assegnato.
I tanti professionisti
Calabrese ha affidato lavori e incarichi per oltre 30 milioni, Ciaramelletti per poco meno. Sotto il loro scettro si sono alternati oltre 790 professionisti della zona: geometri, ingegneri, architetti, geologi. Tanti anche per «dividersi» consulenze minori e appalti di lieve entità. Ma molti, come elencato nel piano di attuazione del programma stralcio, hanno lavorato su diversi fronti contemporaneamente, e quindi a piccole dosi «hanno portato a casa cifre interessanti», afferma una fonte ben informata. In molti casi nella lista ci sono pure ex sindaci, ex consiglieri comunali di vari Comuni, figli di: alcuni tra questi sono passati da un municipio all’altro. Del resto i Comuni beneficiati dalla manna pubblica (tra il primo e il secondo stralcio) sono stati 49 su 72 e molti professionisti sono stati chiamati come progettisti in un luogo e come collaudatori in un altro. Per ogni lavoro «sono stati impiegati tre professionisti… E va da sé che anche nelle opere minori questo ha in un certo senso - riprende la fonte - abbassato anche il valore di prestazione d’opera circa la qualità del rifacimento». Un’accusa pesante, dunque. Non solo, se si osservano i documenti balza subito agli occhi come i 33 milioni di euro stanziati siano stati frazionati in interventi, (soprattutto tra Amatrice e Accumoli dove si è verificato il sisma e i palazzi sono crollati nuovamente), con importi non oltre i 150 mila euro, cifra entro la quale appalti e incarichi, all’epoca, potevano essere affidati a trattativa privata. Chi conosce quegli atti, insomma, assicura che la pioggia finanziaria è scesa sui Comuni «mettendo d’accordo tutti: sia la destra che la sinistra, sia i liberi professionisti di destra che quelli di sinistra». Da Amatrice a Fiamignano, passando per Cittaducale e Rieti. Stime alla mano, l’incidenza delle consulenze progettuali ha pesato sull’opera per il 40 per cento dei lavori (Iva compresa). Insomma, su 125 mila euro stanziati 45 mila sono andati ai tecnici e solo 75 mila al rifacimento dei lavori. Se il nodo si affronta da questa prospettiva, allora, è probabile che gli inquirenti nel sequestrare le carte degli appalti affidati vogliano anche accertare se le imprese si siano limitate solo al rifacimento della parti crollate, oppure abbiano anche provveduto al miglioramento sismico così come previsto nel capitolato. Non quindi all’adeguamento ma almeno al miglioramento. «Un fatto è chiaro - riprende la fonte - da tutta questa vicenda si evince che dare lavori a tre progettisti significa poi tagliare i costi sui lavori effettivi».
I tecnici di Amatrice
Tanto per citare un esempio, tra Amatrice e Accumoli, dove quasi tutto ciò che è stato rifatto è inagibile, crollato o fortemente compromesso dal terremoto del 24 agosto scorso, su un importo vicino ai tre milioni di euro stanziati tra integrazioni e fine lavori sono stati ben 72 i tecnici incaricati con l’aggiunta di geologi e collaudatori. Se il tariffario indica il 40% per la progettazione, questo significa che su 3 milioni circa un milione 200 mila euro è finito nelle consulenze mentre il restante milione e 800 mila euro in cemento armato e ferro. Che spalmato su 21 immobili fortemente danneggiati fa una media di poco più di 85 mila euro. Dentro questa cifra ci dev’essere il guadagno per impresa e operai.

Corriere 31.8.16
Così il Comune di Amatrice mentì sui lavori nella scuola: «Ora è antisismica»
di Giovanni Bianconi

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Corriere 31.8.16
Il giallo dei 21 milioni destinati agli edifici privati
Nessuno sa come sono stati spesi i fondi, tra cui 21 milioni di euro destinati agli edifici privati. Saranno convocati sindaci e funzionari
di Fiorenza Sarzanini

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Corriere 31.8.16
Cento edifici sequestrati dalla Procura
L’indagine per disastro colposo aperta dalla procura di Rieti. I sigilli anche all’ospedale
di Francesco Di Frischia

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Repubblica 31.8.16
Lo spreco delle mappe
Cartine incomplete e fondi perduti così lo Stato ha gettato cento milioni
È la cifra spesa negli ultimi sei anni per monitorare il rischio sismico. Ma spesso il lavoro è risultato inutile
di Antonio Fraschilla


UN groviglio infinito di competenze, di enti, di esperti che si occupano tutti della stessa cosa: mappare e monitorare l’Italia sul rischio sismico e idrogeologico. Tra Protezione civile, Regioni, Comuni ed enti di ricerca lo Stato ha speso negli ultimi sei anni almeno 100 milioni di euro per cartine e monitoraggi vari che spesso non “parlano” tra di loro. Un fiume di denaro che ha fatto la fortuna di studi d’ingegneria e geologia, mentre molti Comuni nei loro piani di prevenzione non hanno preso per nulla in considerazione queste mappe, a partire proprio da Accumoli. E lo spreco continua: anche l’ultima pioggia di fondi pari a 30 milioni di euro arrivata per la nuova frontiera in tema di monitoraggio e prevenzione, la cosiddetta “microzonazione” dei terreni, a oggi non è servita a garantire un quadro chiaro e omogeneo: alcune Regioni tra le più esposte ai terremoti, come la Sicilia, non hanno messo i pochi spiccioli necessari per cofinanziare l’intervento e i fondi rimangono nei cassetti. Altre Regioni le somme le hanno invece spese tutte, ma si scopre che queste nuove carte hanno criteri differenti da quelle vecchie ed è difficile metterle in comunicazione. Risultato? A La Spezia la “microzonazione” è pronta da due anni ma ancora in attesa di approvazione da parte della Protezione civile nazionale e quindi non utilizzata nel piano regolatore.
Tanta burocrazia, tanti soldi in ballo, pochissimi risultati. Nonostante i diversi enti che lavorano sul fronte antisismico, dalla Protezione civile all’Ingv, fino al 2003 soltanto 2.965 Comuni su 8.102 rientravano in un’area mappata sul rischio sismico. Dopo i fatti dell’Aquila lo Stato ha provato a muoversi un po’ e per prima cosa ha indicato i «centri di competenza deputati a svolgere attività, servizi, studi e ricerche »: dall’Istituto di geologia ambientale e geoingegneria all’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia (che da solo riceve 9 milioni all’anno per monitoraggio sismico), più un’altra dozzina di enti. Ognuno si è messo per conto proprio a “mappare” il Paese. Ma per alimentare la confusione, a questi enti se ne sono aggiunti altri. Anche le Regioni con fondi propri o europei hanno avviato mappature per il rischio idrogeologico e sismico e lo Stato nel 2010 ha dato loro 30 milioni di euro per la “microzonazione”, che consente di stabilire la qualità del terreno e come questo reagisce a una scossa. Almeno questa nuova pioggia di finanziamenti sarà servita a qualcosa? A quanto pare, no. In Liguria hanno speso tutti i fondi arrivati dallo Stato, ma qualcosa non va: «Purtroppo vi sono delle assurdità burocratiche — dice Carlo Malgarotto, segretario dell’ordine dei geologi ligure — Nel mio Comune, La Spezia, la mappatura è stata completata nel 2014. Ma ancora non è stata inserita nel piano regolatore per renderla operativa. La colpa però non è del Comune. Prima per oltre un anno abbiamo atteso il via libera della Regione, che ci aveva detto di modificare alcuni parametri perché i dati andavano adattati alle mappe geografiche in loro possesso. Adesso attendiamo ancora il via libera definitivo della Protezione civile nazionale, che a sua volta ci ha detto di verificare dei paletti informatici per consentire il dialogo con la loro mappa».
In Sicilia, una delle aree a più elevato rischio sismico del Paese, i fondi arrivati dallo Stato, ben 10 milioni, rimangono invece nei cassetti: in un bilancio da 24 miliardi di euro dal 2010 non si è riusciti ancora a trovare poche centinaia di migliaia di euro per cofinanziare il progetto. In compenso la Regione ha speso 8,2 milioni di euro di fondi Ue per varare una grande mappa sul rischio idrogeologico e sismico: peccato però che non sia stata messa in collegamento con le centraline di rilevamento e di fatto è soltanto una carta muta.
Mappe su mappe che i Comuni comunque nemmeno prendono in considerazione quando scrivono i piani di emergenza: se il piano di Accumoli sembra copiato da Amatrice anche nel nome delle vie, a Borghetto Vara in Liguria il piano era fatto talmente bene che il centro operativo in caso di emergenza era stato previsto in una palazzina ritenuta sicura: la prima ad essere stata travolta dall’alluvione del 2011.

Corriere 31.8.16
I «professionisti» della ricostruzione
Lavorano sempre gli stessi, tirano su muretti e palazzine e li riparano se crollano
di Sergio Rizzo

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La Stampa 31.8.16
Un sistema di illegalità diffusa
di Vladimiro Zagrebelsky


È malato un Paese che dopo l’ennesimo, prevedibile terremoto, con centinaia di morti e tante distruzioni, deve destinare le pagine dei suoi giornali per metà alle storie dei morti e dei sopravvissuti e agli annunci della ricostruzione, che questa volta sì, si farà sul serio. E l’altra metà delle pagine alle indagini di una procura della Repubblica, alla loro ampiezza e alla diffusione di illeciti e reati, che quasi sembrano costituire la normalità. Ancora una volta il ricorso alle consulenze esterne è il sospetto strumento di favoritismi, ruberie, finanziamento degli sponsor politici.
Questa volta oltre all’abuso di fondi pubblici emerge il disprezzo per norme antisismiche destinate a salvare vite umane e lo scandalo diventa più grave. Ma la regolarità con cui si nominano consulenti esterni alla amministrazione pubblica può significare che al suo interno non vi sono professionalità adeguate, il che sarebbe gravissimo e chiamerebbe in causa la catena gerarchica fino ai governi che hanno tollerato tale degrado. Oppure che - quando non sia necessaria una specifica eccezionale specializzazione - il consulente nominato è un amico, amico di chi può. In entrambi i casi si mette in discussione la struttura essenziale della amministrazione pubblica e dello Stato.
Stupisce la mancanza di reazioni dall’interno della pubblica amministrazione, così avvilita.
Con o senza consulenze esterne e connivenze interne, c’è chi ruba il denaro pubblico e c’è chi chiude gli occhi, non controlla che i lavori finanziati dallo Stato siano portati a compimento e regolarmente (severamente) collaudati. Si dirà ancora una volta che è colpa dei burocrati, ma in queste vicende hanno poteri e responsabilità sia i ministeri, sia sindaci e giunte comunali e regionali: organi eletti da quegli stessi cittadini che non vengono protetti e sono invece messi in pericolo. Le indagini accerteranno se e dove vi siano responsabilità, ma ci vorrà molto tempo, perché essendo indagini giudiziarie esse tendono a produrre prove utilizzabili davanti al giudice nel processo. E le regole del processo sono rigorose. I processi accerteranno o escluderanno responsabilità individuali. Ma ora lo scenario che si apre descrive - ancora una volta - un sistema. Un sistema in cui a tutti i livelli amministrativi, compresi quelli elettivi e i partiti che li esprimono, l’illegalità - questa volta sulla pelle delle persone - diviene strutturale.
L’intervento della magistratura, ovviamente doveroso, rischia allora di suscitare malintesi, infondate speranze e illusioni. Come dimostrano le ancor recenti polemiche contro i giudici di Perugia accusati con ben orchestrata campagna di sostituirsi ai tecnici (sismologi) e agli amministratori, alle speranze e alle illusioni si accompagneranno critiche e accuse. E si parlerà di supplenza della magistratura, irrispettosa della discrezionalità degli amministratori. Ma ora è il caso di avvertire che il problema che emerge - anche questa volta - può forse essere represso a posteriori attraverso i processi, ma che non c’è salvezza per il Paese, fino a quando una rivolta morale non restauri o instauri in Italia senso civico, correttezza e un poco almeno di «virtù repubblicana».
Ho parlato di speranze illusorie riguardo all’opera della magistratura penale, per la sua naturale finalizzazione ad altro, che non è la soluzione di una deviazione così diffusa e grave. Se un tocco di sarcasmo è consentito, si può notare che i regimi corrotti di solito hanno una magistratura asservita: della corruzione si può bisbigliare, ma senza prove. L’Italia corrotta è incoerente, poiché mantiene una magistratura indipendente. E allora la corruzione viene fatta emergere ed è sotto gli occhi di tutti. Ma inutilmente, poiché l’ipocrisia protegge la corruzione.

Il Sole 31.8.16
Cassazione. È stalking anche se non si cambia vita
Non serve che lo stato di ansia porti la vittima a un mutamento nello stile di vita
Rientra nell’ambito della tutela anche lo sguardo insistente
di Patrizia Maciocchi


Roma Il reato di stalking c’è anche quando la vittima non cambia le sue abitudini di vita. Con la sentenza 35778 depositata ieri, la Cassazione chiarisce che gli atti persecutori prevedono eventi alternativi: perché scatti la condanna, non è necessario che allo stato di ansia e di paura indotti nella vittima si associ il mutamento di abitudini. Nel caso esaminato, in cui la persecuzione era stata messa in atto per questioni economiche e non “passionali”, basta lo stato d’animo indotto nella vittima e verificato non solo in base alla sua testimonianza, ma anche sulle affermazioni delle persone che erano vicine alla donna perseguitata.
Per la Suprema corte, la reazione della vittima può variare, come dimostrato da precedenti sentenze. Con la decisione 15603 del 2016, i giudici hanno confermato lo stalking anche quando il soggetto perseguitato reagisce: la “risposta” violenta non è infatti sufficiente ad escludere il timore per la propria incolumità. E non deve essere considerato indicativo neppure lo stile di vita. Per questo, la Suprema corte afferma la sussistenza del reato anche quando la persona destinataria delle pressioni cerca di “svagarsi” in discoteca (sentenza 48332).
Sullo stalking, che non di rado è l’anticamera di una violenza dalle conseguenze estreme, la Cassazione ha con il tempo stretto le maglie. Nel reato è rientrato anche il divieto di sguardo (sentenza 5664/2015), perché fissare negli occhi in modo intimidatorio, la persona che si dovrebbe evitare è un modo per minacciarla e intimorirla. In questo contesto, un avvertimento è stato però lanciato anche alle parti lese: non possono essere concilianti con i loro persecutori. Atteggiamenti di “apertura”, come ad esempio rispondere al telefono quando lo stalker chiama, può essere una mossa che lo salva dalla condanna (9221/2016).
Anche se in genere il volto dello stalker è quello di un ex e - qualche volta - anche di una ex, non sempre gli atti persecutori sono il risultato di una reazione patologica alla fine di un rapporto.
La Cassazione ha ormai bollato come stalking anche i continui dispetti e le pressioni esercitate dai vicini di casa. Lo stalking condominiale può portare la vittima a prendere tranquillanti e ad aver paura di uscire, come avvenuto nel caso esaminato con la sentenza 26878/2016. Per la Cassazione, tolleranza zero anche con i corteggiatori troppo pressanti che arrivano ad entrare di prepotenza in casa della donna desiderata. Con la sentenza 35353 del 23 agosto scorso, la Cassazione ha accolto il ricorso del Pg e della vittima contro la decisione del Gip di dichiarare il non luogo a procedere nei confronti del persecutore che aveva messo in atto un “assillante corteggiamento” fatto di telefonate e visite sgradite. Per il Gip, però, lo spasimante non era uno stalker e anche la violazione di domicilio poteva rientrare nel raggio d’azione della particolare tenuità del fatto. I giudici usano la mano pesante anche con il figlio che si accampa nel sottoscala di mamma e papà per chiedere continuamente soldi. Secondo la Suprema corte (sentenza 29705 del 13 luglio), il figlio , classe 1959, con il suo “bivacco” fisso intimoriva gli anziani genitori.

Il Sole 31.8.16
Separazioni. Se l’obbligato ha difficoltà
Sequestro dei beni per garantire l’assegno all’ex
di Antonino Porracciolo


Sì al sequestro conservativo previsto dall’articolo 671 del Codice di procedura civile sui beni dell’ex coniuge obbligato a pagare un assegno di mantenimento all’altro coniuge. Lo ha affermato il Tribunale di Perugia (giudice Ilenia Miccichè) in un’ordinanza dello scorso 1° agosto.
Le parti in lite sono coniugi nei cui confronti il Tribunale ha pronunciato la separazione personale, onerando il marito di versare alla moglie 550 euro al mese. Nel giudizio di separazione, l’uomo aveva affermato di aver chiesto prestiti di denaro per far fronte ai debiti e di aver subìto una riduzione del proprio lavoro; aveva, inoltre, documentato di avere i conti correnti in rosso e aver incaricato un’agenzia immobiliare per vendere la casa coniugale. Ciò per la moglie prova l’esistenza del pericolo di perdere la garanzia del proprio credito e quindi giustificano il sequestro conservativo dei beni del marito.
Nell’accogliere la richiesta, il Tribunale osserva, innanzitutto, che il provvedimento previsto dall’articolo 671 è diverso dal sequestro atipico disciplinato dall’articolo 156 del Codice civile. Quest’ultimo presuppone l’inadempimento dell’onerato, mentre l’altro richiede solo il periculum in mora, cioè il rischio che un’obbligazione non sia eseguita. Per il Tribunale, non c’è dubbio che il sequestro considerato dall’articolo 671 sia «compatibile con il giudizio di separazione personale» e che quello atipico sia una «tutela aggiuntiva offerta nella materia dal legislatore». Altrimenti - prosegue il giudice - si arriverebbe «all’incongrua soluzione» di ritenere che la riforma del diritto di famiglia del 1975 ha diminuito le tutele per il coniuge debole: prima di tale riforma non si dubitava che il sequestro conservativo si potesse chiedere anche nel giudizio di separazione personale.
Di conseguenza - conclude il Tribunale -, il coniuge interessato può ricorrere alla tutela ordinaria offerta dall’articolo 671 anche se il coniuge obbligato non sia ancora inadempiente.
Nel caso in esame, il marito, oltre a contestare l’esistenza dei presupposti per il pagamento dell’assegno, aveva riconosciuto di non poter adempiere, tanto da aver messo in vendita l’ex abitazione familiare. Egli è quindi in situazione di «sostanziale indigenza», sicché appare «tutt’altro che infondato» il timore della moglie «che possa essere dispersa ogni garanzia patrimoniale a presidio del regolare adempimento futuro dell’obbligo di mantenimento». C’è anche il fumus boni iuris, cioè la verosimile fondatezza della pretesa in contestazione: i giudici avevano già attribuito alla donna il diritto all’assegno di mantenimento. Nel merito, il Tribunale («procedendo in via del tutto approssimativa a una valutazione astratta del credito futuro») ipotizza che l’assegno andrà versato per i prossimi 10 anni, quindi ne quantifica il totale in 66mila euro.

Il Sole 31.8.16
Il Consiglio di Stato precisa i limiti del concetto di infiltrazione
Mafia, basta anche un solo dipendente
di Francesco Clemente


Per ipotizzare il condizionamento mafioso dell’azienda che partecipa agli appalti pubblici, non è necessario che i dipendenti siano in gran parte collegati alle cosche mafiose: in questi casi, la gravita dei fatti che fa scattare l’interdittiva antimafia può riferirsi anche a un solo lavoratore in qualche modo vicino ai gruppi criminali. Il Consiglio di Stato - sentenza 3299/2016, Terza sezione, 20 luglio – ha così dato ragione al ministero dell’Interno, che chiedeva di ribaltare la tesi di primo grado secondo cui è illegittima l’interdittiva basata, senza idonee motivazioni, sull’ipotesi di scelte aziendali influenzate da un «trascurabile» numero di addetti nell’orbita della malavita, per di più se con mansioni solo esecutive e mai decisionali anche di fatto.
In questo caso, era stata bloccata una società del settore rifiuti affidataria di dieci contratti comunali, poiché ritenuta condizionata da 15 dipendenti su 90 con gravi precedenti penali, anche per associazione a delinquere di stampo mafioso o con rapporti di parentela e frequentazione con esponenti di cosche locali. Dettagli che, secondo l’azienda, avrebbero avuto «rilevanza sproporzionata» senza la prova del peso sui quadri dirigenziali o societari, facendo passare per «presenza massiva» una quota minima di operai, peraltro divisa in più cantieri, in parte assunta per subentri a ex gestori e paradossalmente con requisiti morali poiché con porto d’armi.
Il Consiglio di Stato spiega che la giurisprudenza ormai riconosce «numerose situazioni, non tipizzate dal legislatore,...“spie” dell’infiltrazione (nella duplice forma del condizionamento o del favoreggiamento dell’impresa)» e che le stesse, diverse per tempi, luoghi e persone, si possono valutare per desumere il tentativo di infiltrazione come da Codice antimafia (comma 6, articolo 91, Dlgs 159/2011). Tra esse, proprio l’assunzione di personale col profilo sospetto citato, quindi con presenza anche solo «rilevante» e non per forza, come la stessa Sezione ha chiarito in altri casi (sentenza 1743/2016), «esclusiva o prevalente».
Il condizionamento è infatti ipotizzabile «anche dalla presenza di un solo dipendente “infiltrato”, del quale la mafia si serva per controllare o guidare dall’esterno l’impresa, ciò che può risultare da atti investigativi..., frequentazioni ed altri elementi sintomatici»: l’obiettivo delle cosche «non è solo – o non sempre – la scalata delle gerarchie societarie, ma il controllo delle attività economiche più lucrose con ogni mezzo e con ogni uomo idoneo allo scopo, con una flessibilità di forme interne che sfugge…, per non attirare controlli esterni, alle “armonie prestabilite” del diritto societario».
Secondo il principio del «più probabile che non», come precisa la sentenza, in questi casi un numero comunque «non certo esiguo» di “infiltrati” – stabilito che non è una questione solo numerica - non può far escludere che gli atti e la vita stessa dell’impresa, soprattutto se piccola o media, dipendano da «direzione esterna». L’interdittiva è perciò legittima «se tale anomala presenza non è giustificata né preceduta da un’efficace attività di vigilanza e di selezione» dovuta per l’azienda che decide di avere rapporti con la Pa.

La Stampa 31.8.16
“Noi in classe, i prof non si sa”. La riforma vista dagli studenti
Le preoccupazioni dei ragazzi: tra ritardi, ricorsi e record di bocciature al Concorsone l’anno rischia di partire con un terzo delle cattedre scoperte. E a rimetterci saremo noi
di Daniele Grassucci


Anno nuovo, problemi vecchi. A poco più di un anno dall’approvazione della legge 107 sulla “Buona Scuola”, sono infatti ancora molti gli interrogativi aperti. La bella notizia è che finalmente si sono messe le mani su una materia troppo trascurata negli anni passati ma, come spesso accade, prima che il nuovo sistema entri a regime mostrando i benefici, c’è bisogno di tempo per ingranare. Per ora, intanto, sono diversi i grattacapo per chi sta tra i banchi. Il sito di riferimento per gli studenti Skuola.net li riassume punto per punto.
Cattedre vuote
Doveva essere una boccata d’aria per migliaia di precari della scuola. L’occasione per passare finalmente «di ruolo». Nella pratica, non è stato così semplice e l’incubo delle cattedre vuote a inizio anno – che il piano assunzioni avrebbe dovuto scongiurare una volta per tutte – potrebbe nuovamente tormentare gli studenti al ritorno tra i banchi. Questa volta la colpa non è del precariato storico, ma del concorsone le cui prove scritte si sono svolte tra aprile e maggio.Incrociando i dati degli uffici scolastici regionali e un’indagine effettuata dal portale Tuttoscuola si scopre che i posti banditi sono stati 63.712 (da collocare in 3 anni), i candidati più di 175mila. I promossi? Ancora non si sa. Perché il primo problema riguarda la tempistica: 315 delle circa 800 differenti procedure non verranno concluse in tempo per l’immissione in ruolo (il termine ultimo è il 15 settembre) e, in concreto, circa 100mila candidati non conosceranno il loro destino e dovranno rinviare i sogni di gloria al prossimo anno. Pochissime le commissioni che hanno già approvato le graduatorie.
E poi c’è la questione “bocciature”: dei 71.448 candidati a cui è «già» stato corretto il proprio scritto più della metà (il 55,2%) sono fuori; solo 32.036 aspiranti maestri e professori (praticamente la metà) sono stati ammessi a sostenere le prove orali. E pensare che la selezione era riservata solo a docenti abilitati! Il motivo? Secondo i commissari d’esame il livello di preparazione dei candidati non era adeguato. Controbattono i rappresentanti dei concorsisti, secondo cui la colpa è del metodo di valutazione che non teneva conto delle differenti competenze richieste ai vari docenti. Fatto sta che, proiettando i dati al totale degli esaminati, è di nuovo Tuttoscuola a stimare che alla fine di tutte le procedure c’è il rischio concreto che circa 23mila cattedre - un terzo del totale - non saranno assegnate.
Didattica traballante
Possibile quindi un paradosso. Cattedre senza docenti titolari e docenti assunti a tempo pieno ma senza cattedra. Una della novità principali della “Buona Scuola” è stata rappresentata dall’introduzione del cosiddetto organico funzionale, cioè di professori non destinati alla classica docenza curricolare ma a potenziare l’offerta didattica e formativa di ogni singola scuola, in base agli obiettivi del Piano Offerta Formativa (POF). Circa la metà del piano di assunzioni straordinarie finora condotte ha riguardato questa nuova tipologia di prof. Provenendo principalmente dalle graduatorie ad esaurimento, non sempre i dirigenti scolastici hanno potuto accogliere nel proprio istituto i docenti competenti nelle materie richieste. Ed è capitato, così, che l’istituto che chiedeva un professore di lettere si è ritrovato con un docente in più di diritto; che al posto di un professore di matematica si presentasse un insegnante di educazione tecnica.
Scuola-lavoro: un sogno
L’alternanza scuola-lavoro è uno dei pilastri della “Buona Scuola”. Ma anche uno dei più discussi. L’intento è lodevole: inserire i ragazzi nel mondo del lavoro, abituarli alle dinamiche e alle regole che troveranno in qualsiasi impresa. Un periodo di formazione in azienda obbligatorio per gli studenti dell’ultimo triennio delle scuole superiori che, a breve, sarà valutato anche alla maturità. Non sempre però passare dalla teoria alla pratica è stato facile. In particolare per i liceali, per i quali trovare un tirocinio e completare le 200 ore è stato davvero arduo, per la scarsità di imprese aderenti. E non sono mancati i casi di studenti accolti ma adibiti a mansioni tutt’altro che formative. Un’indagine di Skuola.net ha evidenziato poi che il 52% (il 55% al liceo) di questi “stagisti in erba” non ha trascorso neanche un giorno in azienda e che l’alternanza si è svolta esclusivamente all’interno dell’istituto scolastico tramite percorsi formativi ad hoc, come l’azienda simulata.
Chiamata diretta
In molti hanno polemizzato sulla questione “chiamata diretta” dei docenti in base alle competenze piuttosto che alle graduatorie; qualcuno ci ha visto l’apoteosi del nepotismo, l’occasione per i presidi di “scegliere” i docenti più graditi. Un rischio anche qui per la qualità dell’insegnamento? Forse, almeno in questo caso, un falso mito. Perché è vero che aumentano i poteri per i dirigenti scolastici ma, parallelamente, aumentano i controlli. I presidi devono rendere conto su ogni aspetto del proprio operato. I nuclei di valutazione sono in agguato: le lamentele dei genitori verranno considerate, l’erogazione dei bonus agli insegnanti saranno ponderati. L’introduzione delle fasce di stipendio - più alti solo per i dirigenti “virtuosi” – è un aspetto in grado di arginare molte delle polemiche. Anche se, ovviamente, una quota minima di abusi non si può escludere. E in questi giorni stanno fioccando i ricorsi.
La scuola del futuro?
Quello dell’edilizia scolastica e della sicurezza è un capitolo centrale quando si osserva l’universo scuola dal punto di vista dei ragazzi. I tragici eventi della scorsa settimana hanno solo amplificato ulteriormente il dibattito. Su questo aspetto bisogna dare atto al Governo di un attivismo sconosciuto ai precedessori del recente passato. Sia attraverso interventi diretti previsti all’interno delle Buona Scuola sia mediante stipula di mutui con la Banca Europea degli Investimenti, sono stati pianificati interventi per un valore di oltre 4 miliardi di euro. Alcuni già messi in cantiere e terminati, la maggior parte invece da realizzarsi nei prossimi anni. Dalle semplici ristrutturazioni, al miglioramento delle strutture, all’efficienza energetica fino alla messa in sicurezza o alla costruzione di nuovi edifici, la «lista della spesa» è impressionante. Ma il sisma che ha colpito il Centro Italia ha mostrato ancora una volta tutte le fragilità delle nostre scuole ma soprattutto, purtroppo, della macchina pubblica che dovrebbe sorvegliare sulla bontà degli interventi.
*Direttore Skuola.net

La Stampa 31.8.16
Curriculum e colloqui col superpreside
Ecco i problemi della chiamata diretta
Per il ministero dell’Istruzione la procedura premia i meritevoli, ma secondo i sindacati favorisce il clientelismo
di L. Ven.


Secondo il ministero, una grande possibilità per migliorare l’offerta didattica della scuola italiana. Per i sindacati, una procedura ingiusta che presta il fianco al clientelismo, al punto da presentare ricorso al Tar per presunta illegittimità costituzionale. La «chiamata diretta» è una delle novità principali (e più controverse) della riforma della scuola: per la prima volta i dirigenti scolastici possono scegliere i propri insegnanti, pubblicando degli avvisi pubblici, sfogliando curriculum e sostenendo anche dei colloqui. Il potere dei «super presidi» è pur sempre limitato dalle graduatorie e dagli «ambiti territoriali», da cui è obbligatorio attingere. E la novità non toccherà tutti gli insegnanti assunti prima del 2015, solo i nuovi. Ma si tratta comunque di una rivoluzione, che con l’inizio dell’anno scolastico dovrà essere messa in pratica in tutti gli istituti del Paese. Le prime chiamate dirette sono partite già quest’estate: a sperimentarle i docenti (vecchi e nuovi) che hanno fatto domanda di trasferimento, partecipando alla mobilità indetta dal ministero. Fin qui i curricula caricati sul portale del Miur sono stati 56.659. Ora toccherà ai nuovi assunti dell’anno 2016/2017, 32.419 in tutto il Paese, vincitori del concorsone (ammesso che venga completato in tempo) e iscritti nelle vecchie graduatorie. Ma tutte le novità portano qualche sconvolgimento, almeno all’inizio. E il debutto del nuovo sistema di selezione si sta rivelando più complicato del previsto: su forum e social network non si contano le denunce di abusi, presunte irregolarità e ritardi. E i sindacati, da sempre critici su questo punto della riforma, non perdono occasione per attaccare il ministero: «Siamo nel caos più totale», afferma la Flc-Cgil. «Gli istituti fanno contratti senza pubblicare nomi e motivazioni, chi adottando un criterio, chi l’altro». E tra segreterie oberate di lavoro e professori che ancora non sanno dove insegneranno, la prima campanella suona già fra due settimane.

La Stampa 31.8.16
“Sì alle Olimpiadi, portano soldi per migliorare la vita dei romani”
Strappo di Berdini, assessore all’Urbanistica della giunta Raggi: “È un’opportunità Ma dico no al modello Expo e delle grandi opere. Servono interventi strutturali”
di Ilario Lombardo


Quante cose si possono fare con 5 miliardi? Sono i soldi che pioverebbero su Roma, dal Cio e dal governo, se dovesse strappare alle avversarie le Olimpiadi del 2024. Soldi che potrebbero dare una mano a chi vuole offrire un nuovo volto alla Capitale e invece si trova a contare ogni spicciolo, come Paolo Berdini, assessore all’Urbanistica nella giunta di Virginia Raggi, il primo a uscire allo scoperto e a spiegare al telefono che a «certe condizioni», «ribaltando la prospettiva», senza inseguire «la logica delle grandi opere», il sì alle Olimpiadi è possibile. Anzi: «Può essere una grande occasione». Sulle Olimpiadi, è in corso un dibattito nel M5S, sulla carta compatto a dire no ai Giochi, ma con posizioni più sfumate al suo interno. Da una parte Raggi e il vicesindaco Daniele Frongia sono in trattativa con il presidente del Coni Giovanni Malagò che a sua volta cerca sponda in Luigi Di Maio, considerato tra i più dialoganti sulla candidatura. Dall’altra ci sono i più intransigenti, come Alessandro Di Battista e Paola Taverna, contrarissimi ai Giochi. Berdini è un «alieno», come si definisce, non è un 5 Stelle, e ha la libertà di chi parla per competenza e necessità.
Assessore, il messaggio del Coni sembra chiaro: i soldi li mettono il Cio e il governo. La giunta non spende un euro, Roma ne trae solo vantaggi. Se così è, perché dire di no?
«Certo che per l’assessore Berdini, che tutti i giorni verifica la mancanza di finanziamenti, per la cura della città e per le sue infrastrutture, avere a disposizione delle risorse è una bella prospettiva. Ma per le Olimpiadi bisogna ribaltare l’ottica»
Cioè?
«Non dobbiamo ragionare con la logica e la cultura delle grandi opere come si è fatto in tutti questi decenni. Le Olimpiadi possono essere un’occasione, da verificare nella sua praticabilità. Ed è compito dell’amministrazione farlo».
Raggi è stata un po’ ambigua a riguardo. E’ sembrata più possibilista solo quando ha detto che ben vengano i soldi per 160 impianti che versano in condizioni disastrose. È così?
«Se all’interno del progetto Olimpiadi inseriamo, non dico tutti, ma 80 di quegli impianti, con la regia del Comune a garanzia, è un’occasione da mettere nero su bianco».
Il primo impianto che le viene in mente?
«Lo Stadio Flaminio, che è in condizioni vergognose».
Il M5S e la Raggi però sono stati chiari in campagna elettorale: «No alle Olimpiadi, a Roma servono interventi ordinari».
«Infatti: Olimpiadi non più come evento straordinario ma dell’ordinarietà, da cui può partire una nuova cultura urbana che servirà da esempio per i Giochi del futuro, lontano dal solito modello, ormai fallito».
Olimpiadi sì, quindi, ma a certe condizioni? Quali?
«Che le opere non siano il trionfo dell’incompiuto, com’è successo con Expo che è stata una devastazione. Perché, chiusi i sei mesi di circo Togni, non hanno saputo che fare dei 120 ettari urbanizzati a vuoto. Servono opere strutturali che parlino con la città».
Niente grandi opere?
«Può esserci spazio per una grande opera, ma al servizio della città e dei cittadini. Senza scartare il “gioiello”, come a Rio, devono essere le Olimpiadi di Roma, cioè delle linee metro, della messa in sicurezza degli impianti sportivi. Cambiando la prospettiva sarebbe un’iniezione di futuro per la città a partire da un evento che prima era solo dissipativo».
Pensa ci siano ancora possibilità per convincere Raggi a dire sì?
«Certo, in una decina di giorni decideremo. Io dico: utilizziamo le Olimpiadi come occasione per dare un nuovo volto alla città. Se sono Olimpiadi che cambiano la vita delle persone e opere che portano benessere, non vedo perché dire di no».

il manifesto 31.8.16
Berdini apre sulle Olimpiadi a Roma: «Difficile dire di no a certe condizioni»
Paralisi 5 Stelle. Movimento diviso sul da farsi nella Capitale. Mezzo sì anche sul nuovo stadio della Roma. E la Regione chiede chiarimenti. Mentre la sindaca Raggi tace
 di Matteo Bartocci


ROMA «Ora i 5 Stelle devono decidere cosa vogliono fare da grandi», sospira uno dei tecnici indipendenti che segue da mesi il doppio dossier Olimpiadi e nuovo stadio della Roma.
Perché su entrambi i fronti i nodi stanno arrivando al pettine e sotto la superficie del movimento più di qualcosa si sta muovendo. Lo testimoniano le chiari aperture dell’assessore all’urbanistica di Roma capitale Paolo Berdini ieri in tv ad Agorà: «Se le Olimpiadi servono per fare quattro linee della metro o la messa in sicurezza degli impianti sportivi che stanno andando a pezzi a Roma dico di sì, entro dieci giorni decideremo».
Anche sul mega stadio americano della squadra di Pallotta il comune ieri ha inviato sul filo di lana le carte alla Regione Lazio (un atto dovuto) ma lo ha fatto in modo incompleto, senza il parere di conformità che avrebbe invece sciolto definitivamente la matassa. La giunta, infatti, prende tempo, come ha ammesso la sindaca Virginia Raggi alla festa del Fatto domenica scorsa.
Perché il nodo è politico, tutto interno al movimento e tra il movimento e il Pd, ma investe soprattutto il futuro della Capitale e di milioni di abitanti.
«Forse la partita si è riaperta», sussurrano al Coni con un tasso di ottimismo per ora non suffragato da nessun atto concreto della giunta pentastellata.
La verità è che sulle Olimpiadi, soprattutto, si consuma la partita tra Di Maio e Di Battista per la guida del movimento. I 5 Stelle, come detto in campagna elettorale, sono contrari. E Di Battista non perde occasione a livello locale per tenere fede a questo impegno.
Ma Di Maio, che è lo sfidante in pectore di Renzi, non può bocciare le Olimpiadi senza una buona ragione, una causa inoppugnabile e comprensibile anche a chi non fa parte dei meetup grillini e potrebbe votarlo a Palazzo Chigi.
Il problema è che per ora questo motivo non è chiaro, anzi, Malagò e Montezemolo hanno offerto alla nuova giunta campo libero: anticorruzione, scelta delle aree, letteralmente di tutto purché Raggi firmi il progetto definitivo da consegnare al Cio entro il prossimo 7 ottobre. Al Coni giurano che nei prossimi giorni questa carta già bianca diventerà bianchissima. Non a caso Berdini, prudentemente, aspettando le decisioni della sindaca, prova ad andare a vedere le carte nella conferenza dei servizi.
Perché la realtà è semplice: il comune di Roma, con Marino, ha già detto sì sia alle Olimpiadi che allo stadio della Roma. Perciò Raggi o revoca quelle scelte andando in consiglio (ma in questo modo attaccherebbe a Di Maio l’etichetta del signornò), come ha fatto la città di Amburgo limpidamente, o lavora duro sui dossier e dà i pareri necessari.
Dal punto di vista tecnico, infatti, le questioni da risolvere non mancano, se solo si volesse affrontarle.
Per le Olimpiadi gli ambientalisti hanno individuato 3 punti critici: il bacino remiero (un parco fluviale da 2 km da scavare sul Tevere), il centro media a Saxa Rubra e, soprattutto, la questione Tor Vergata, una zona vasta in cui vivono 500mila persone, che si può tradurre anche come «questione Caltagirone» (che è anche editore del Messaggero).
In quest’area, secondo il Coni e il comune targato Marino, dovrebbe stare il villaggio olimpico, che dopo il 2024 potrebbe diventare il campus universitario della capitale.
Il problema è che nel lontano 1987 tutti quei terreni erano di Caltagirone, che li trasferì all’università di Tor Vergata a condizione che la sua Vianini Costruzioni avesse gli appalti edili e di manutenzione nel futuro. Sono ancora validi quegli accordi? Se è così, significherebbe affidare i lavori delle Olimpiadi chiavi in mano a Caltagirone, ed è contro le norme europee. Se non è così allora di chi sono quelle aree? E’ pane per i denti di un’amministrazione comunale, che ancora oggi (ma neanche con Marino) ha detto una volta per tutte di chi e che cosa sono veramente quelle aree strategiche.
Idem sullo stadio romanista. Con Marino, il comune condizionò l’ok alla cura del ferro: o prolungamento della metro B o più treni sulla Roma-Lido. È una scelta che spetta al comune. E che la regione, guidata dal pd Zingaretti, sicuramente pretende oggi prima di dare il proprio via libera. Per i 5 stelle rovesciare il tavolo e dire di no a entrambi i progetti sembra arduo, anche per il rischio contenzioso con la stessa As Roma e il rischio finanziamenti dal governo in vista del primo bilancio della città a novembre.

Repubblica 31.8.16
Il Campidoglio
Staff e stipendi “Fissare un tetto a 76mila euro” Atac, altra bufera
di Lorenzo D’Albergo


ROMA. Il faccia a faccia con la sindaca Virginia Raggi, ieri ai funerali di Amatrice e pronta a partecipare a un’assemblea cittadina in Campidoglio, è solo rimandato. Perché i consiglieri comunali a 5Stelle e il mini-direttorio vogliono ristabilire le distanze con la prima cittadina. Troppo a lungo inascoltati sul dossier nomine, ora chiedono di fissare un tetto salariale per i professionisti di cui la giunta deciderà di dotarsi: 76mila euro l’anno, quanto un assessore. Nulla di più. Altra misura per ribadire che la voce degli eletti non potrà essere più ignorata: uno tra il presidente dell’Assemblea capitolina Marcello De Vito e il capogruppo Paolo Ferrara entrerà nel mini-direttorio. Al team composto dalla senatrice Paola Taverna, dall’onorevole Stefano Vignaroli, dall’eurodeputato Fabio Massimo Castaldo e dal consigliere regionale Gianluca Perilli si affiancherà quindi uno dei due mister preferenze.
Un segnale chiaro, che rende difficile nascondere i mal di pancia del gruppo anche per i consiglieri che meno si sono appassionati al tema stipendi: «Molte persone hanno sollevato dei problemi - spiega il presidente della commisione Trasporti ed eletto 5Stelle Enrico Stefàno - e hanno fatto bene a farlo. Per ora mi pare che si sia speso poco rispetto al passato. Il conto preciso andrà comunque fatto alla fine. Gli assessori, non dimentichiamocelo, hanno responsabilità enormi. È giusto che scelgano collaboratori di fiducia. Poi verificheremo il lavoro che faranno, se quei soldi saranno meritati. Siamo un movimento giovane, i problemi di crescita sono normali».
Un’affermazione, l’ultima, che non trova completamente d’accordo il mini-direttorio: i casi dell’ex Margherita Andrea Mazzillo, del vice capo di gabinetto alemanniano Raffaele Marra e lo stipendio triplicato all’ex funzionario e ora capo della segreteria politica della sindaca Salvatore Romeo fanno rizzare i capelli in casa M5S. Tanto che, se la sindaca non dovesse rivedere i loro stipendi, Taverna & co. potrebbero fare un passo indietro.
Ma la giunta è investita anche da una nuova polemica su Atac, l’azienda dei trasporti. Il senatore dem, ex assessore, Stefano Esposito pubblica sui social una lettera inviata dal dg Rettighieri alla responsabile della mobilità in giunta, Linda Meleo, in cui il direttore generale vuole «Non è possibile rfar circolare il 95% dei treni entro la metà del mese di settembre e non so da dove questo numero sia uscito». La replica di Meleo: «Grave divulgare comunicazioni riservate». Ma la polemica infuria anche su presunte pressione della giunta per spostamenti di personale.

La Stampa 31.8.16
Bandarin, Unesco
“Su Venezia solo chiacchiere. Un gioco di potere la fa morire”
“Se nulla cambia, la includeremo tra i siti in pericolo”
intervista di Giuseppe Salvaggiulo


«L’Italia deve guardarsi allo specchio e decidere che cosa fare di Venezia», spiega Francesco Bandarin, vicedirettore generale per la cultura dell’Unesco, l’organizzazione che ha dato all’Italia un ultimatum su Venezia. «Noi non siamo una polizia internazionale, ma un sostegno agli Stati. Collaboriamo. Al 90% l’Unesco è questo».
E per il resto?
«Controlliamo che i siti siano protetti adeguatamente. Nel settore del patrimonio culturale, spesso dobbiamo intervenire. Esercitiamo una funzione morale, non abbiamo carri armati. Cerchiamo di consigliare i responsabili dei siti».
Perché siete intervenuti su Venezia?
«Era inevitabile. Da anni chiediamo all’Italia di prendere sul serio la situazione di Venezia. Tutto il mondo s’è accorto che non può andare avanti così, tranne l’Italia».
La reazione ai documenti dell’Unesco non è benevola.
«Chiariamo le cose. Non siamo stati noi a inserire Venezia nella lista dei siti “patrimonio dell’umanità”. È stata l’Italia a chiederlo».
Questo che cosa vuol dire?
«La procedura prevede che se l’Unesco accetta la richiesta si stipula una specie di contratto con cui lo Stato assume degli obblighi. Poi noi seguiamo il sito e verifichiamo che gli obblighi siano rispettati. Nell’80 per cento dei casi va tutto bene».
E nel 20 per cento?
«In genere si tratta di siti minacciati o colpiti da catastrofi naturali e guerre. In altri casi - come a Venezia - quando manca l’azione dei governi, allora facciamo delle raccomandazioni».
I vostri documenti sono lunghi e dettagliati. Quali sono i punti decisivi?
«I nodi sensibili sono l’uso turistico della città e la salvaguardia fisica e ambientale, oltre alle questione delle grandi navi».
Cominciamo da qui. Che cosa avete detto all’Italia?
«Che è assurdo che enormi bastimenti attraversino il bacino di San Marco. Tutti ne parlano, ma dopo 5 anni non esiste ancora una decisione operativa soddisfacente. Anzi, le compagnie di crociera hanno addirittura anticipato il governo, con un principio di autolimitazione per evitare danni d’immagine. Ma non basta. Non c’è equilibrio, il turismo non ha freni. Così Venezia non è una città, ma un villaggio turistico con alcuni residenti come contorno».
Passi avanti?
«Per ora solo chiacchiere, tra cui proposte stravaganti come una tassa sui consumi. Che penalizzerebbe i residenti».
Come viene valutata questa inerzia?
«Sorprende che da Venezia arrivino solo lamentele, come quella secondo cui la città è al fallimento. Come si può fallire con 30 milioni di turisti che portano 6 miliardi di euro l’anno? Quando lo racconto, i colleghi mi guardano increduli. In difesa dello status quo c’è un colossale blocco di poteri e interessi, che rifiuta regole. Chi le propone viene assalito, a volte anche fisicamente. A anni fa scoppiò la rivoluzione per una tassa sui bus di 1 euro a passeggero».
Qual è il limite per un turismo sopportabile?
«L’unico serio studio fu fatto anni fa da Paolo Costa e diceva 12 milioni l’anno. Ora sono due volte e mezzo. Ma la cosa più preoccupante è l’assenza di una visione di lungo periodo. Sapere dove si arriva se non si fa nulla».
Dove si arriva?
«Il turismo è l’industria mondiale che si sviluppa di più. Ora siamo a 1,3 miliardi di turisti nel mondo, le previsioni Onu dicono che nel 2030 si supereranno i 2 miliardi. Quindi a Venezia quanti ne arriveranno: 40 milioni? 50? E se oggi è già stritolata, cosa ne sarà tra 15 anni?».
In un’assemblea il sindaco Brugnaro ha detto «quelli dell’Unesco mi fanno inc...».
«Non sono contrario alle polemiche, purché siano alte. Quelle così basse, per favore no. La realtà è che in un anno l’amministrazione non ha detto una sola parola strategica su Venezia».
Il Comune è il vostro unico interlocutore?
«No e non è l’unico responsabile. Venezia ha una governance complessa. La Regione ha enormi poteri ambientali, il governo mette i soldi e quindi ha voce in capitolo. Ma bisogna considerare che Venezia è la gallina dalle uova d’oro del turismo italiano».
Che cosa vi aspettate dall’Italia?
«Un rapporto dettagliato e misure concrete, se non saranno sufficienti valuteremo l’inserimento di Venezia nella lista dei siti in pericolo».
Il numero chiuso è un’opzione?
«Le scelte spettano alle autorità nazionali e locali. Ma non si può chiudere una città con un lucchetto».