La Stampa 27.8.16
Almeno cinquecento ospedali in pericolo in caso di terremoto
L’indagine del Parlamento è di tre anni fa da allora nessun passo avanti sostanziale
di Francesca Schianchi
Almeno
500 ospedali italiani avrebbero bisogno di lavori di messa in sicurezza
contro il rischio terremoti. Strutture importanti, punti di riferimento
in caso di emergenza, distribuiti lungo tutto l’Appennino, al centro
Italia ma ancora di più nel Mezzogiorno - in Campania, Calabria, Sicilia
e Basilicata. A lanciare l’allarme, già nel 2013, fu una relazione
della Commissione parlamentare d’inchiesta sull’efficienza del servizio
sanitario, presieduta dall’allora senatore Pd Ignazio Marino. Una
mappatura cominciata all’indomani del terremoto dell’Aquila (quando
l’ospedale cittadino «San Salvatore» venne dichiarato inagibile al 90
per cento) e durata quattro anni, fondata sui dati forniti dall’allora
sottosegretario Guido Bertolaso. Sebbene incompleta - vennero resi
disponibili dati particolareggiati solo di 200 edifici ospedalieri su
oltre mille: mancano informazioni sulle strutture di alcune regioni tra
cui il Lazio e le Marche - costituisce comunque il documento più recente
e approfondito a disposizione del ministero della Salute e della
Protezione civile per capire quale sia il quadro delle strutture
sanitarie del Paese dal punto di vista del rischio sismico. Un ritratto
spaventoso che, a distanza di tre anni, non ha fatto sostanziali passi
avanti.
Sul campione di 200 edifici – da Nord a Sud, dal Veneto
alla Sicilia - oltre la metà, il 60 per cento, presenta «carenze gravi» e
rischierebbe il crollo in caso di un terremoto del sesto grado della
scala Richter, l’intensità di quello di martedì notte. Con una magnitudo
appena più alta – del 6,2-6,3 – si sbriciolerebbe addirittura il 75 per
cento di quei padiglioni. E questo nonostante solo il 7 per cento del
campione si trovi in zone a rischio elevatissimo, mentre il restante 93
stia nella seconda zona sismica.
«Dopo aver ricevuto questi dati,
chiesi ad alcuni assessori regionali la chiusura di determinati
padiglioni - ricorda Marino – in particolare alcuni dell’Ospedale
Piemonte di Messina. Vennero chiusi e ricevetti lettere di protesta dei
cittadini: risposi a tutti, uno per uno, spiegando che non potevo fare
altrimenti, sapendo che quegli edifici avevano quasi il 100 per cento di
possibilità di crollo in caso di terremoto».
Il 62 per cento di
quel campione di 200 edifici è stato costruito in calcestruzzo armato,
il 23 in muratura, il 13 in calcestruzzo-muratura combinato e il
restante due per cento in prefabbricato e acciaio. Mentre per gli
edifici storici in muratura la reazione in caso di sisma dipende dallo
stato di conservazione e da eventuali interventi fatti negli anni,
spiega la relazione, per quelli in cemento armato molto dipende dalla
data di costruzione: i più sicuri sono quelli successivi al 1974. Il che
non fa stare molto tranquilli, visto che, secondo un censimento del
2001, il 65 per cento dei presìdi italiani risale a prima del 1970, il
20 a un periodo che va tra il 1971 e il 1990 e solo il 15 per cento è
successivo al 1991.
Alcuni edifici sono praticamente monumenti
storici, e risalgono a un paio di secoli fa (il 15 per cento del totale è
ante 1900), come certi reparti di quello di Faenza, terminati nel 1763,
o l’Ospedale Annunziata di Napoli, portato a termine nel 1889. Ma ce ne
sono anche tre costruiti secondo moderni criteri antisismici
certificati, spiegò nel corso della sua audizione Bertolaso: quello di
Frosinone, l’Ospedale del Mare di Napoli, il Gervasutta di Udine.