venerdì 26 agosto 2016

La Stampa 26.8.16
Salvatore Sciarrino
Indago il confine tra suono e silenzio
Il compositore lavora alla nuova opera “Ti vedo, ti sento, mi perdo “La musica è seduttiva come nessun’altra arte”
di Sandro Cappelletto


«Salvatore Sciarrino si vanta di essere nato libero e non in una scuola di musica». Così le prime righe del sito del compositore palermitano che a ottobre riceverà alla Biennale Musica di Venezia il Leone d’oro alla carriera. Lo scorso giugno al Teatro Comunale di Bologna è andata in scena una delle sue opere più riuscite,

Il sottotitolo recita: «In attesa di Stradella». Ma non è un omaggio al compositore barocco dalla vita melodrammatica, pugnalato da due sicari a Genova dopo troppe storie d’amore, d’amanti, di fughe e coltello. «No», dice secco Sciarrino. «Ho già consegnato il testo, ma lo asciugherò ancora, per renderlo più essenziale. Il tema dell’opera è il potere di seduzione della musica. La musica è seduttiva come nessun’altra arte. Lo era al tempo di Stradella, lo è ancora. Molti, ascoltando musica, non sanno trattenersi dal chiudere gli occhi: la dimensione visiva reale viene a disturbare la dimensione visiva suscitata dalla musica. Le sue immagini interiori, compiute e invisibili».
«Imitavo Burri»
Il maestro risiede da diversi anni nella quiete di Città di Castello. Lentamente, ora che è a un passo dai settanta, sta cedendo alla modernità: per comunicare non usa più il fax della cartoleria sotto casa, ha un cellulare con tanto di WhatsApp. L’immagine scelta per il profilo è quella di Gaspare, il Re Mago: anziano, con barba e capelli bianchi, lunghi, arricciati: «Particolare di un’adorazione vista a Berlino, così ben caratterizzato che sembra un ritratto».
L’arte visiva rimane una sua grande passione; quand’era ragazzo dipingeva: «La frequentazione con il contemporaneo è cominciata lì, prima ancora che con la musica: imitavo la pittura di Alberto Burri. Le passioni dell’infanzia poi si mitizzano, ma non potevo immaginare che gli sarei diventato amico, qui a Città di Castello dove lui era nato. Burri aveva una coscienza difensiva della propria arte. Per anni ha fatto la fame, poi quando ha potuto ha ricomprato i suoi stessi quadri, quelli che lo convincevano di meno, dagli amici a cui li aveva regalati».
Sciarrino ha passato il mese di luglio a Siena, insegnando composizione all’Accademia Chigiana: «Per 21 giorni. Di meno non è serio e a me non interessa. Il rapporto con i miei allievi continua negli anni». Goffredo Petrassi diceva: «Dai miei allievi ho imparato tantissimo». Lui concorda: «Insegnando ricevo stimoli enormi, mi trasformo. Si può insegnare solo se si è generosi». Lui insegna a cercare sé stessi e quella libertà che ha sempre rivendicato, a partire dalla Berceuse per orchestra del 1969, che stupì fino allo scandalo. Ma come, questo ragazzino si richiama a Chopin e al romanticismo, mentre in tutta Europa (solo in Europa, però) i compositori seri studiano la tecnica dodecafonica? Ed erano pronte le scomuniche, per chi sgarrava.
Sul tavolo dello studio, la nuova, recente traduzione italiana del Doctor Faustus. «Comporre è difficile», scriveva Thomas Mann, alla metà del secolo scorso. «È sempre stato difficile e lo sarà sempre», riflette Sciarrino. «Se la musica è un gioco, a me non interessa. Il compositore appartiene alla categoria degli esploratori: superare sé stessi, correre dei rischi, inventare, proiettarsi in altre dimensioni».
Il grado zero dell’ascolto
Lui ha trovato la sua dimensione indagando il confine tra suono e silenzio, tra azione e staticità. La musica di Sciarrino sta sulla soglia, possiede una propria ecologia, invita noi contemporanei, sommersi da tempeste di suoni e rumori subiti spesso involontariamente, a recuperare un grado zero dell’ascolto, da dove ripartire. Molti suoi lavori strumentali sfidano i suoni della natura: come se la stessimo ascoltando immobili nel silenzio di una notte, con le orecchie tese, con l’anima pronta a stupirsi: «Ho sempre voluto occuparmi della fisicità, della corporeità del suono».
«Poco succede, quasi niente nella sua musica», è scritto nella laudatio con cui nel 2006 è stato insignito del prestigioso Salzburger Musikpreis. Ma dal nulla si può schiudere l’infinito. Anche l’infinito delle nostre ossessioni, come accade in Infinito nero, ispirato da tre lettere di Torquato Tasso e attraversato da bisbigli, sussurri, fantasmi, visioni. Tasso impazzito, Borromini che si uccide a fil di spada, Gesualdo da Venosa, il principe assassino della moglie e dell’amante di lei: spesso Sciarrino prende ispirazione da personaggi «neri» del periodo barocco, che ama oltremisura - talvolta, in particolare nella vocalità, rischiando un certo barocco manierismo. Ma questo è il problema dei problemi della musica contemporanea: dopo il recitar cantando del ’600, dopo il belcanto, dopo il verismo, dopo l’espressionismo, dopo la sillabazione che frantuma la parola di tanti contemporanei, come scrivere per la voce comunicando con il pubblico ma senza apparire neo, post, ex? Come obbedendo alla strategica indicazione di Giuseppe Verdi - «Torniamo all’antico, sarà un progresso» - spesso Sciarrino si rivolge al passato, lo cita, lo trasforma. Lo ha fatto con Mozart, con Domenico Scarlatti, con Gesualdo, con le antiche canzoni da battello veneziane.
La lezione di Verdi
«Tutto quello che è diverso da me mi interessa. La tradizione è identità, è bagaglio. Non si impara dal niente. Mi misuro sempre con i classici, che non perdono mai la contemporaneità. Il moderno di per sé non mi interessa, dopo due mesi è già vecchio». Da Verdi ha imparato qualcosa? «Amo molto il suo aspetto irrazionale ed emozionale, così prorompente. Il grande insegnamento è la sua drammaturgia, in certi casi senz’altro pre-cinematografica: totale e dettagli, esterno e interno, ricchezza di immagini. Non si può dire di molti altri autori».
Da Verdi però Sciarrino, come la maggior parte degli artisti italiani contemporanei, non ha preso l’aspetto che una volta si diceva dell’impegno, della partecipazione civile: «È così. Bisogna esserne coscienti e anche prendersi una parte di colpa. La nostra civiltà europea ha perso parte della sua forza, è indubbio». E che cosa le rimane? «E se la sua vera nuova forza fosse la creatività, una rinnovata passione estetica da proporre al mondo contemporaneo? Oltre il culto ossessivo della tecnologia. Internet non porta alla comunicazione, ma all’isolamento: finiamo tutti col fare sempre le stesse cose. È una perdita del piacere vero della vita, in questo senso confermando una tendenza antica della nostra società, che rimuove il piacere non superficiale, lo censura».