venerdì 26 agosto 2016

Repubblica 26.8.16
Socialdemocrazia quel che resta di un’utopia razionale
Dalla Grecia alla Scandinavia, passando per la Brexit, in tutta Europa i partiti progressisti vivono un declino elettorale che sembra inarrestabile di fronte all’avanzata populista
Ma un percorso di rilancio è ancora possibile
di Giancarlo Bosetti


Mentre Jeremy Corbin alla guida del Labour medita di riproporre socialismo e nazionalizzazioni tornando persino a discutere l’articolo 4 dello statuto del partito (la nota clause IV con il cui emendamento Blair aveva aperto la via a tre vittorie consecutive), questa estate 2016 — ironie della storia — può celebrare il punto più basso della ritirata della socialdemocrazia europea. Non tutti i partiti della categoria sono precipitati, finora, come il Pasok dal 44 al 6% in soli 6 sei anni, ma i segni del declino sono drammatici nelle urne, nei sondaggi, nell’invecchiamento dei sostenitori rimasti fedeli. I numeri aggregati su una distanza più lunga dicono che la forza elettorale della socialdemocrazia in Austria, Danimarca, Francia, Germania e Regno Unito è passata dal 41% nei primi anni ottanta al 28 (l’Italia ha una storia in parte diversa),
mentre sono cresciuti in parallelo gli sfidanti anti-sistema, di destra e di sinistra, passando dal 9 al 23% (da un’analisi Hobolt-de Vries per Policy Network). Il 52% per il “leave” nel referendum britannico del 23 giugno è anche da mettere nel conto dei passivi della socialdemocrazia (come il 55% del referendum francese del maggio 2005 che bocciò la costituzione europea), per la stessa ragione per cui è da mettere tra gli attivi dei movimenti nazionalisti, anti-Ue. Sono molti gli appuntamenti ai quali la sinistra è arrivata divisa — a Parigi, Londra, Berlino e Roma — e con le idee poco chiare (vero anche per i suoi avversari tradizionali) e incerta nelle risposte da dare a movimenti piuttosto abili — da Ukip al Front National, da M5S al Partito liberale austriaco — nell’imporre una agenda flessibile, plasmata sugli umori dell’elettorato (sì, anche improvvisata e superficiale) ma capace di raccogliere rabbia e insicurezza, ricca di promesse e libera da responsabilità e verifiche di governo.
Il declino del ciclo socialdemocratico (o «la fine», come la chiamava Ralf Dahrendorf, già vent’anni fa, «fine — diceva — per compimento dei suoi obiettivi ») non è un tema nuovo e ogni volta che se ne è parlato i difensori più strenui dell’idea, tra i quali alcuni dei migliori politici espressi dalla classe dirigente europea, hanno sfoderato l’argomento forte della “adattabilità” dei partiti socialisti o laburisti a interpretare il conflitto politico contemporaneo in forme aggiornate, nonostante gli sconvolgimenti accaduti in cielo e in terra, nell’economia, nella cultura, nella tecnologia. Ora però la rimonta sembra più difficile, perché le defezioni avvengono in direzione dei nuovi sfidanti, mentre l’agenda del nostro tempo presenta contraddizioni insormontabili per partiti di tradizione socialista: la indispensabile legislazione sul lavoro flessibile, la “platform economy” (eBay, Amazon etc) al posto delle fabbriche, la liberalizzazione piena di una economia digitale (Uber), la sharing economy, i consumi collaborativi, il crowdfunding, i mercati ibridi, l’immigrazione sono tutti campi dove gli incursori dei partiti sfidanti possono liberamente schierarsi nel modo più redditizio. Le Monde, a metà agosto, ha dedicato due pagine all’impasse della sinistra europea: alla crisi del Psf arrivato terzo alle ultime regionali, 40mila tessere restituite dal 2012; agli spagnoli lacerati su appoggiare o no la coalizione con Rajoy; al caso slovacco, con un segretario, Robert Fico, alleatosi con due partiti di estrema destra; al duello in corso nel Partito laburista tra gruppo parlamentare e segretario. Avrebbe potuto raccontare il clamoroso caso danese, dove il Dansk Folkeparti, esemplare perfetto di malleabilità populista si è costruito come l’idrovora più efficiente nel succhiare voti ai vecchi partiti: meno tasse, blocco degli immigrati, protezionismo contro la globalizzazione. Il Df ha raggiunto il 33,7% contro il 26% dei socialdemocratici, ma non va al governo nonostante sia il primo partito. E sulla paradigmatica questione di Uber i populisti danesi si scagliano all’arma bianca contro, mentre la ragionante sinistra è divisa tra una vocazione liberale e una protezionista: quindi un po’ di Uber, ma non troppo. La natura di governo della socialdemocrazia, che si è stabilita così solidamente in Europa, la rende meno mobile sulle gambe nel corpo a corpo con i populisti, anche quando è all’opposizione.
Chi difende la “adattabilità” dei partiti socialdemocratici, comunque si chiamino, fa valere la forza di strumenti politici, che si sono mostrati capaci di metabolizzare nuove stagioni politiche e nuove culture. Ma lo sono ancora? Il dubbio adesso è lecito e potrebbe essere giunta davvero la fine di molti vecchi partiti. Diverso il caso del Partito democratico americano, che ha dimostrato di non conoscere aggressioni da “fuori”, ma di essere pienamente contendibile da outsider (Bernie Sanders) dall’interno. A dire il vero la stessa cosa si può dire ad abundantiam anche per i Repubblicani (Trump, più che outsider, un intruso indesiderato). Prendiamo atto che quel sistema è davvero molto rappresentativo e “inclusivo”. La vicenda è solo apparentemente simile a quella di Corbin, perché — qui sta la differenza chiave — in questo caso le primarie sono circoscritte all’area dei sostenitori e affiliati del partito, mentre negli Stati Uniti sono aperte a tutti. Gli affiliati tendono a eleggere un candidato più partigiano e meno attraente per gli elettori in generale. I laburisti usavano il gruppo parlamentare come contrappeso all’estremismo (i deputati ci tengono a vincere). E infatti oggi la spaccatura passa di lì, appare insanabile, e c’è chi parla di scissione.
Il Partito democratico italiano, costruito dalla nascita su una ipotesi di contesa bipartitica “americana”, ha adottato primarie aperte il che spiega, nel 2014, la vittoria schiacciante dell’allora outsider Renzi. Il Partito socialista francese è orientato a primarie per le presidenziali del 17, aperte alla coalizione, dunque non solo agli affiliati. Un cambiamento capace di rendere i socialisti una “scatola elettorale” buona per ora e per sempre in Europa potrebbe essere proprio questo. Non basteranno certo le primarie aperte. Bisognerà anche mettere fine alle “guerre civili” che dividono i partiti di centrosinistra, aprire il dossier dell’innovazione nel modo di far politica, nell’era di Change.org e di Avaaz, integrare le politiche di governo con strumenti di mobilitazione e partecipazione, utilizzare strumenti e tecniche della democrazia deliberativa, perché si veda quanto la politica tiene all’opinione dei cittadini, specie se arrabbiati, e non solo dei suoi simpatizzanti. Non mancano eccellenti ricette per risorgere, ma vanno utilizzate, se non si vuole che la nave vada a fondo.