La Stampa 26.8.16
Le misure antisismiche che l’Italia progetta ma esporta e non usa
L’esperto dello Iuss di Pavia: “Il costo? Solo il 10% di quello che pagheremmo per la ricostruzione”
di Claudio Bressani
Si
chiama «seismic retrofit», ovvero adeguamento sismico: un complesso di
tecniche per intervenire sui vecchi edifici esistenti e renderli più
sicuri contro i terremoti. Un campo in cui gli ingegneri italiani sono
all’avanguardia a livello mondiale. Eppure poi solo in rarissimi casi
queste misure sono applicate nel nostro Paese. «È certamente un problema
di risorse - dice il professor Paolo Bazzurro, docente di tecnica delle
costruzioni allo Iuss di Pavia, uno dei massimi esperti italiani - ma
anche di volontà politica, ovvero di scelte su come spendere i soldi.
Purtroppo scontiamo decenni di scarse azioni. Spesso anche le comunità
locali fanno resistenza, temono effetti negativi sul turismo».
Per
l’adeguamento degli edifici privati non ci sono obblighi di legge, solo
gli incentivi fiscali del 65% per i Comuni inseriti nelle zone 1 e 2.
Per gli edifici definiti strategici gli obblighi invece ci sarebbero,
«eppure - osserva il professor Bazzurro mentre nel pomeriggio torna
dalla riunione della commissione Grandi rischi a Roma - in tutto
l’epicentro non è rimasto più un edificio pubblico agibile. L’ospedale è
andato giù, le scuole pure, la caserma dei carabinieri è lesionata. Ci
sono programmi per intervenire, ma poi per attuarli di solito si aspetta
la catastrofe. Dove è stato fatto, come a Norcia dopo il sisma del
1997, ha dimostrato la sua efficacia. La forza del terremoto che l’altra
notte ha colpito la cittadina umbra è stata solo di poco inferiore a
quella di Arquata del Tronto. Quest’ultima è distrutta, mentre a Norcia
non c’è stato un solo morto e credo neanche un ferito».
Cosa
possiamo fare dunque per proteggere i vecchi edifici di cui l’Italia è
piena? «Se partiamo con l’idea di trasformare quelli in muratura
raggiungendo livelli di sicurezza comparabili con gli edifici moderni
costruiti con criteri antisismici, bisogna rassegnarci: non ci si
arriverà mai. Ma sarebbe già un grande risultato renderli sicuri, fare
cioè in modo che non collassino e che la gente non resti sotto». E
quanto costa? «Si può fare con una spesa abbordabile, nell’ordine del 10
per cento di quello che costerebbe la ricostruzione».
«Gli
antichi edifici in muratura - osserva ancora il professore pavese -
stavano in piedi con catene, tiranti, morsature agli angoli, tetti in
legno. Poi le catene sono state tolte, magari per ragioni estetiche, le
finestre sono state ingrandite, sono state aggiunte porte, il tetto è
stato rifatto in cemento armato che pesa di più. Risultato: l’edificio è
diventato più vulnerabile».
Per migliorare la sicurezza può
bastare poco, dalle semplici piastre per aggiungere vincoli, ad esempio
tra pilastro e trave, alla posa di tendini d’acciaio all’aggiunta di
elementi di rinforzo come archi o puntelli. Per gli edifici in cemento
armato si va dal rendere le colonne più resistenti con un «jacket», un
cappotto di calcestruzzo o materiali compositi, all’isolamento alla
base, cui si ricorre di solito per edifici più importanti come ospedali e
che si può adottare anche per quelli esistenti, dopo averli
«sollevati». All’Aquila è stato impiegato diffusamente anche per i
moduli abitativi del progetto Case. Soprattutto per gli edifici in
acciaio si usano gli smorzatori o dissipatori sismici. Altre tecniche
più complesse, come il cosiddetto «slosh tank», si utilizzano per
edifici più alti come i grattacieli.
Gli strumenti a disposizione
sono parecchi, per decidere quali adottare serve un’attenta analisi
delle caratteristiche di ciascun edificio. Certo, il problema è che sono
centinaia di migliaia: «Ci vogliono tanti soldi - conclude il professor
Bazzurro - ma sono comunque meno di quelli che spendiamo per
ricostruire».