il manifesto 26.8.16
La catastrofe politica
di Michele Prospero
Un
terremoto è anche una grande questione politica. Ma non lo è nel senso
che su una tragedia si possono ricamare meschine operazioni di
marketing, con bande musicali al seguito, annunci di ricostruzioni
miracolose e plastico avveniristico delle new town illustrato nella
quarta camera, quella di Vespa. Si illude in maniera grossolana il
governo se pensa di aver trovato ad Amatrice il suo Abruzzo. Cioè
calcola di approfittare delle macerie per sviluppare un nuovo episodio
di ingegneria della comunicazione, utile solo per la consacrazione del
nuovo leader del fare che si spende in narrazioni in vista del
referendum costituzionale.
Eppure, a tutta pagina, ieri
l’Huffington Post titolava, con un’enfasi degna della stagione retorica
del secolo scorso: «Presenza fisica e azione». E nell’articolo si poteva
leggere: «Svegliato alle 3,45 Renzi fa il punto dell’emergenza. Si
decide di non lasciare nulla al caso. Ma proprio nulla». E quindi «anche
la comunicazione viene organizzata a puntino». A puntino.
Con la
sua nuova tattica (proprio questo è il termine usato) il governo «cerca
di non lasciarsi spiazzare dall’evento naturale» e quindi di «accelerare
al massimo possibile». Il tentativo è quello di scandire
artificialmente i tempi delle scelte, di simulare pragmatismo e
efficienza: «La priorità è scavare, dice Renzi». Cose già viste.
Che
la catastrofe diventi politica in tal modo, ovvero che una tragedia
figuri come materia di tattica, di scenografia e di comunicazione
studiata «a puntino», questo è l’indizio di una decadenza inarrestabile
della sfera pubblica. È questione politica un terremoto ma in un senso
diverso, perché, ad esempio, su un evento catastrofico si è scritta una
delle pagine più importanti del pensiero moderno.
Nell’agosto del
1756 Rousseau scrive una lettera a Voltaire che aveva pubblicato un
poema sul terremoto di Lisbona. Sebbene scosso dalle macerie, Voltaire,
il cantore della grandezza del bel secolo delle arti e delle scienze,
non perde le certezze del mondano che loda la perfezione del tempo e
difende l’epoca «tanto denigrata dai mesti criticoni».
Rousseau lo
incalza negando che la catastrofe rinvii alla metafisica, alla
teologia, al fato. Sebbene ci siano eventi imprevedibili, considerate
«le combinazioni del caso» che smonta la pretesa che «la natura
dev’essere soggetta alle nostre leggi», Rousseau vede la politica
proprio dove Voltaire scrutava solo la teodicea, con il rapporto tra Dio
e il male, la bontà e la natura. Dalla teologia scende perciò sulla
politica. Lo spiega bene Ernst Cassirer: «Rousseau ha sottratto il
problema della teodicea al circolo metafisico, trasponendolo al centro
dell’etica e della politica».
L’irrazionalista, il sentimentale
Rousseau non se la prende con Dio (si distacca dalla pretesa
dell’illuminismo di punzecchiare la religione in nome della ragione
«quasi che dipendesse da noi credere o non credere in materie in cui la
dimostrazione non ha ragion d’essere») o con la natura e mette sotto
processo la società e così rilancia la ragione della politica come
risposta critica alle emergenze.
Rileva ancora Cassirer: è la
«coscienza della responsabilità della società, che Rousseau ha indicato
per primo. Il XVII secolo ignorava questa idea». Rousseau inventa la
politica moderna e scorge nelle macerie di Lisbona non già indizi di
metafisica ma le tracce del crollo di una civiltà alienata e per questo
mette sotto processo le scelte pubbliche nel progetto di città.
«Per
restare al vostro tema, e cioè Lisbona, – scrive il ginevrino a
Voltaire – dovete convenire che non era stata la natura a raccogliere là
ventimila case dai sei ai sette piani, e che se gli abitanti di quella
grande città fossero stati distribuiti in modo più uniforme e in
abitazioni più piccole, il disastro sarebbe stato molto minore, e forse
non vi sarebbe stato. Tutti sarebbero fuggiti alla prima scossa. Invece,
sono dovuti restare abbarbicarsi alle macerie esporsi a nuove scosse».
Non
è in questione Dio o la natura che si presenta con «la durata ipotetica
del caos». Contano scelte politiche nel contenere spiriti di lucro
quando si edifica una città. Se nelle città umbre l’intervento sulle
abitazioni dopo le precedenti emergenze ha consentito di prevenire
disastri ciò significa che non è il semplice fato a portare in altri
luoghi la morte, con scosse dalla intensità minore che abbattono
alberghi e ospedali.
Se le risorse scarse vengono promesse per il
ponte sullo stretto, dirottate sulle grandi opere, destinate a chi
compie 18 anni o regalate per le gigantesche decontribuzioni a favore
delle imprese, ciò accade per una scelta politica che non apprezza la
messa in sicurezza del territorio come bene pubblico prioritario.
Il
sostegno delle grandi potenze dell’economia e dei campioni della
finanza è più ricercato della manutenzione dei territori, delle città
affidata a lavori che mobilitano piccole imprese, artigianato,
competenze diffuse. E questo ordine rovesciato dei valori è politica,
cattiva politica che governa l’Italia come un paese periferico che frana
dinanzi alle emergenze.