Il Sole 26.8.16
Gli obiettivi dietro l’operazione militare
Erdogan e il Rubicone dello sfondamento a sud
di Vittorio Emanuele Parsi
Sono
fin troppo chiari i motivi che hanno spinto il governo turco a ordinare
al proprio esercito di varcare il confine con la Siria e occupare la
cittadina di Jarablus, congiuntamente alle formazioni di ribelli siriani
a loro vicine. Evidentemente la lotta contro il califfato del terrore
(nella quale per lungo tempo il presidente turco Recep Tayyp Erdogan non
si è certo distinto) non c’entra niente. Lo scopo di Ankara –
platealmente dichiarato ai microfoni della Tv turca Ntv dal ministro
della Difesa Fikri Isik – è quello di impedire che i combattenti curdi
delle Unità di protezione popolare (Ypg) possano occupare ulteriori
posizioni a ridosso del confine turco. Lo si era già capito nei giorni
scorsi, quando le bombe dei caccia di Ankara avevano indistintamente (ma
non accidentalmente) colpito tanto le aree ancora controllate dall’Isis
quanto quelle liberate dall’Ypg. Sempre per bocca del ministro Isik,
abbiamo anche appreso che la Turchia considera perfettamente legittimo
ogni suo intervento militare volto non solo a impedire la formazione di
un Kurdistan indipendente in Siria, ma anche di un’entità dall’autonomia
paragonabile al Kurdistan iracheno.
Fin qui nulla di nuovo nelle
parole. Ma molto nei fatti e soprattutto nel modo in cui questi si
stanno svolgendo. Mentre i carri armati turchi avanzavano in territorio
siriano, infatti, il vicepresidente americano Joe Biden si trovava ad
Ankara. Era la prima visita di un esponente di alto livello
dell’amministrazione Obama dal giorno dei due putsch di luglio (quello
abortito dei militari e quello perfettamente riuscito di Erdogan). Al di
là della perdurante tensione tra i due Paesi alleati (che rappresentano
il primo e il secondo esercito della Nato), era evidente la
“benedizione” all’avventurosa iniziativa turca (cui parteciperebbero
anche “consiglieri” americani), sottolineata peraltro dall’ammonimento
pubblicamente lanciato ai curdi di ritirarsi «a Est dell’Eufrate», pena
la «sospensione degli aiuti militari americani».
La “strategia”
dell’amministrazione Obama in Siria (ma esiste?) lascia sempre più
perplessi. È difficile capire, infatti, come si possa affermare in ogni
consesso il principio della “indivisibilità” della Siria quando poi si
sostiene l’occupazione di una fascia di territorio da parte di un Paese
confinante. La cosa è ancora più sorprendente se solo si considera la
riluttanza a lungo mostrata dalla Turchia nella lotta contro l’Isis: per
tacere delle oscure connivenze affaristiche, per le quali quali a
Bologna è indagato anche il figlio del presidente Erdogan. Oltretutto i
disinvolti “giri di valzer” di quest’ultimo con il presidente russo
Vladimir Putin e quello iraniano Hassan Rohani dovrebbero indurre
Washington a maggiore prudenza. È infatti chiaro che la Turchia, nel
perseguire (maldestramente) quello che considera il proprio
indiscutibile interesse nazionale sembra disposta a correre (e a far
correre agli altri) qualunque rischio.
Giunti a questo punto,
dieci anni dopo la caduta del regime di Saddam Hussein e a quattro anni
dall’inizio della guerra civile siriana, la questione curda ben
difficilmente potrà essere scopata sotto il tappeto e men che meno
risolta con le armi. Favorire una simile illusione non può che gettare
benzina sul fuoco di quell’incendio che da troppi anni sta devastando il
Levante. Oltre agli Stati Uniti, a fornire manforte alla Turchia si
ritrovano così Paesi come l’Iran, la Russia, l’Arabia Saudita, Israele e
– paradossalmente! – la stessa Siria di Assad: tutti, per un motivo o
per l’altro, timorosi che l’affermazione dei diritti nazionali del
popolo curdo possa fornire uno “scandaloso” e attrattivo precedente per
le minoranze interne che essi a diverso titolo opprimono. Si tratta di
Paesi che, peraltro, hanno allineamenti e interessi totalmente
contrastanti sulle più complessive vicende mediorientali, alcuni dei
quali l’America considera alleati o clienti, altri rivali o avversari.
Attraversando
il confine siriano, la Turchia ha varcato il suo Rubicone nella guerra
senza quartiere che da decenni conduce contro i curdi: si tratta di
un’escalation che non gioverà minimamente alla pace della regione, i cui
effetti potrebbero essere forieri di un ulteriore e non necessario
allargamento e approfondimento di un conflitto che, con la lotta
all’Isis, rischia di avere sempre meno a che vedere. È questa la
strategia attraverso la quale a Washington pensano di sconfiggere il
califfo?