venerdì 26 agosto 2016

Il Fatto 26.8.16
Il manuale sessuale di mons. Paglia Sex & the Vatican, Inquisizione 2.0
Esistono due soli modi di donarsi: verginità e matrimonio
Il preservativo non impedisce le malattie e toccarsi è peccato mortale
di Daniela Ranieri


È finalmente online il manuale Il luogo dell’incontro, il “progetto di educazione affettivo sessuale” a cura del Pontificio Consiglio per la Famiglia guidato da monsignor Vincenzo Paglia.
Presentato all’ultima Giornata della gioventù, il documento per educatori e ragazzi si articola in unità che vanno da titoli impegnativi quali “Le domande più importanti sul senso della vita e del proprio essere” ad altri più croccanti, come “A chi voglio aprire la cerniera della mia tenda?”.
Cliccandoci sopra si aprono slide coloratissime tipo Leopolda, solo che qui invece dei gufi e dei “conti di Pier Carlo” si sviluppa tutto uno storytelling catechesimale-rassicurante, una cornucopia di esortazioni, disegnini, consigli, canzoni e film con cui s’intende offrire ai giovani le linee per una corretta educazione sessuale; e chi, se non il Vaticano, così sempre dedito al progresso e allo sviluppo umano, può fornirne.
L’ATMOSFERA parte spigliata: Problema: “Il mio amore è limitato”. Soluzione: “Quando ci finisce il credito del cellulare perché lo abbiamo usato tanto, che facciamo? Lo buttiamo nella spazzatura o lo ricarichiamo?”, il che conferma che all’antica ossessione della Chiesa per il sesso s’è aggiunta in era bergogliana quella per i cellulari e il loro funzionamento (“Una vita senza Gesù è come un cellulare senza campo”; “La felicità non è un’app del telefonino”, aprile 2016).
Sbrigata con un uno-due micidiale la spiacevole pratica gender (“Uomo e donna li creò”, Gen 1,27), e liquidata la pratica del “Rimorchiare” comune a molti contemporanei (tra cui l’abate di Montecassino, habituée della app gay-radar Grindr) come “cosificazione dell’altro”, si passa ai classici. Come per l’antico Santo Uffizio, per la Santa Inquisizione 2.0 esistono solo “Due modi di donarsi: la verginità e il matrimonio”.
Ora, sia chiaro: a noi piace di più fare le cose sessuali quando il Vaticano ce le vieta, ma non aveva detto il Papa in persona, a giugno, che “ai matrimoni superficiali è preferibile la convivenza”? Che è meglio prepararsi insieme a un matrimonio responsabile che contrarre “matrimonios de apuro”, “di fretta”, riparatori, mondani? Evidentemente tra loro, il Papa e Monsignor Paglia, non si parlano (e del resto il Papa ha disposto che il Consiglio venga squagliato dentro un nuovo Dicastero che comprende anche laici).
Quindi per la vecchia guardia pre o anti-bergogliana il problema, come mille anni fa, sono gli organi sessuali utilizzati fuori dal matrimonio. È l’antico orrore della Chiesa per il sesso non procreativo, temuto più del furto e dell’omicidio. Ma tranquilli: “L’assenza di genitalità nel fidanzamento non implica un silenzio della sessualità”. Tra le opere che gli educatori mostreranno all’uopo, il film Hakito, il mio migliore amico, storia dell’amicizia tra un bambino e Hachi, il cane di suo nonno.
Cerchiamo “preservativo”: “(Si dice che, ndr) è necessario perché riduce il contagio dalle malattie sessualmente trasmissibili”. Invece? “Le statistiche dimostrano il contrario”. E l’aborto? “(Si dice che, ndr) ciò che importa è la libertà della donna e non si uccide una persona perché il feto non lo è”. Invece? “La scienza ci dice che l’essere umano è tale sin dal momento del concepimento”. Vabbè.
POI È TUTTO repertorio: “IL PECCATO”. Sottotitolo: “Autoerotismo/masturbazione” (per la Chiesa sono due cose distinte). La masturbazione, che tutto sommato sembrava una buona alternativa alla castità, è peccato: “La finalizzazione dell’impulso sessuale non incanala la persona ad uscire da se stessa per dirigersi verso un’altra bensì a simulare la causa neurofisiologica che produce lo scarico di tensione con uno stimolo genitale”. Se i preti ci avessero terrorizzato con questa frase invece che con “quante volte?” avremmo smesso subito.
Sarebbe questa l’educazione sessuale “in un’epoca in cui si tende a banalizzare e impoverire la sessualità”, “nel quadro di una educazione all’amore e alla reciproca donazione”, come aveva disposto Papa Francesco in Amoris Laetitia? A questo punto si tenessero le slide e ci ridessero il Diavolo che esce dal camino, almeno si ride.

Repubblica 26.8.16
L’amaca
di Michele Serra


NON si sa se alla Festa dell’Unità ci sarà il presidente dell’Anpi Carlo Smuraglia (i tempi di decisione, in quel venerabile consesso, non sono agili; stanno valutando l’invito; Renzi lo ha emesso in dodici secondi, l’Anpi risponderà in dodici giorni, è la classica incomunicabilità tra generazioni). Si sa, invece, che ci sarà Star Trek, nella figura insigne del comandante Kirk. Tra le due tipologie di combattenti provo un interesse nettamente superiore per i partigiani, che pur non disponendo di laser spaziali e disintegratori cosmici se la sono cavata benissimo. Il comandante Kirk, con tutto il rispetto, mi è sempre sembrato un amabile bischero da telefilm americano, come il dottor Kildare e Furia cavallo del West.
Ma spiega il responsabile della festa di Bologna, autore dell’invito a Kirk, che bisogna rivolgersi anche al pubblico non del Pd, non di sinistra, non politicizzato, non eccetera. Insomma, bisogna essere inclusivi e non escludenti. È un’antica dialettica, questa, delle feste dell’Unità: anche quando hanno smesso di invitare Giovanna Marini per invitare le spogliarelliste del Crazy Horse si trattava di essere inclusivi e non escludenti. Ai tempi non era stato calcolato, però, che per vedere le spogliarelliste del Crazy Horse (bravissime!) uno va al Crazy Horse, mentre alle feste dell’Unità ci va per sentire Giovanna Marini. Di qui (anche) la profonda crisi di identità della sinistra. Speriamo che vada meglio con il comandante Kirk. Chissà se gli presenteranno Smuraglia, per un confronto sulle strategie contro gli invasori alieni.

La Stampa 26.8.16
“Disastro colposo”, si muove la Procura
Nel mirino il crollo del campanile di Accumoli ristrutturato con i fondi per l’Aquila e della scuola di Amatrice. Verso il sequestro delle autorizzazioni nei due Comuni
di Paolo Festuccia


Per ora è solo un’ipotesi di reato quella di disastro colposo, ma è chiaro che la Procura di Rieti vuole vederci chiaro sulle modalità dei crolli avvenuti sia nel comune di Accumoli che in quello di Amatrice. Nel primo caso a destare l’attenzione degli inquirenti sarebbe il crollo del campanile appena ristrutturato con i fondi del sisma dell’Aquila, nel secondo la scuola di Amatrice. In tutti e due i casi, ovviamente, ci sono state vittime ed è questa la ragione sulla quale vorrebbe fare chiarezza il capo della Procura di Rieti Giuseppe Saieva che già giovedì mattina con un pool di inquirenti di buon ora era sui luoghi della tragedia.
Gli accertamenti
Ore di sopralluoghi fino a notte fonda e che stando a fonti degli ambienti investigativi avrebbero chiarito molti dubbi agli inquirenti. Se non altro sulla strategia da mettere in campo da qui in avanti per accertare «a ogni livello» eventuali responsabilità. Per questa ragione, già nelle prossime ore non è escluso che dal formalismo dei fascicoli di queste primissime ore che guardano tutto alle dinamiche sul riconoscimento delle salme, si possa passare anche ad atti più rilevanti per accertare le responsabilità dei crolli avvenuti nei due centri montani. Tant’è che l’attenzione - stando alle indiscrezioni - non si limiterebbero al solo campanile di Accumoli (ha ucciso una famiglia di quattro persone compresi due bambini di 7 anni e otto mesi) o alla sola scuola di Amatrice (ristrutturata nel 2012 e ora ridotta a cumulo di macerie) ma a tutte quelle strutture pubbliche e anche private che potrebbero avere avuto errori costruttivi o difetti nelle concessione delle licenze edilizie o nella direzione dei lavori.
«Atto dovuto»
Insomma, molti sono gli edifici pronti a finire nel mirino. E con loro tutti quegli atti tra autorizzazioni e concessioni ottenute per portare avanti quelle strutture ormai ridotte a cumuli di macerie. In questi casi, naturalmente, la cautela è d’obbligo ma vista la scrupolosità che in questi anni – dicono a Rieti – ha messo nel lavoro il capo della Procura non è da escludere che nelle prossime ore si arrivi a chiedere il sequestro di tutti gli atti espletati negli ultimi anni dagli uffici tecnici comunali sia nel comune di Accumoli che in quello di Amatrice.
Un opzione questa sia per valutare giuridicamente e nel merito le carte sia per identificare nomi, cognomi, e ditte di chi in quel territorio ha costruito abitazioni, scuole ed edifici pubblici. Per ora dalla Procura si limitano a ribadire che il fascicolo aperto è per disastro colposo è «un atto dovuto», ma in molti sono pronti a scommettere che in realtà, a breve, dall’atto dovuto si passerà al sequestro delle carte. Un caso analogo, dunque, a quella dell’Aquila dove alle tragedie umane sono seguite moltissime carte bollate.

Corriere 26.8.16
Materiali e collaudi La procura indaga per disastro colposo
In Italia molti Comuni a rischio non usano i fondi
di Ilaria Sacchettoni Mario Sensini


AMATRICE Com’erano fatti quegli edifici che sono crollati come castelli di carte? C’è un responsabile della morte di centinaia di persone? Sotto una generica ipotesi di reato — disastro colposo — la procura di Rieti ha avviato un’ampia indagine che potrebbe decollare a breve con un primo sequestro di macerie, funzionale ad analisi più approfondite. Sarà presto per dirlo, visto che si sta ancora aggiornando il calcolo di morti e dispersi, ma intanto si comincia a ragionare su un fatto palese: alcuni degli edifici, appena inaugurati, avrebbero dovuto essere a prova di sisma. Quali regole sono state seguite nella progettazione e nell’esecuzione? È possibile che siano stati utilizzati, ad esempio, materiali scadenti. E ancora: chi ha eseguito i collaudi e con quali procedure? La pm Cristina Cambi e il procuratore capo Giuseppe Saieva vogliono stabilirlo rapidamente: ieri hanno compiuto un sopralluogo e disposto dei sequestri, in particolare di immobili colpiti dal sisma in cui ci sono state vittime.
Quello in mano ai magistrati è un fascicolo che per il momento non contiene indagati, ma che è destinato ad ampliarsi a breve. Anche per le denunce che potrebbero arrivare da cittadini o da enti danneggiati: lo stesso Comune, ad esempio, potrebbe sporgere denuncia contro chi ha costruito, visto che molti edifici pubblici sono andati in briciole. In queste ore arrivano anche altre notizie: fondi stanziati nel 2009 eppure inutilizzati dai Comuni. Soldi per mettere in sicurezza edifici pubblici, come il campanile (che crollando ha ucciso un’intera famiglia) e la scuola di Amatrice ricostruita nel 2012. Le delibere con i relativi stanziamenti sono pubblicate anche sul sito della Protezione civile. A questo punto qualcuno potrebbe dover rispondere di reati ancora da accertare: dalla corruzione all’omissione di atti d’ufficio. Mentre nessuna denuncia è arrivata dai sindaci sulla tempistica dei soccorsi su cui si è polemizzato sia pure solo nelle primissime ore.
C’è da dire che il mancato utilizzo dei fondi per la prevenzione del rischio sismico per infrastrutture pubbliche ed edifici privati non è un problema dei soli Comuni montani del Lazio. Dei 963 milioni di euro stanziati dal governo dall’aprile 2009, a pochi giorni dal terremoto de L’Aquila, ad oggi, ne sono stati spesi pochissimi in tutt’Italia. «Colpa soprattutto di un meccanismo a dir poco farraginoso per l’erogazione dei contributi, che pure ci sono» dice il sindaco di Ascoli Piceno, Guido Castelli, vicepresidente dell’Associazione dei Comuni. «I fondi arrivano ogni anno con un’Ordinanza della Protezione Civile, ma tutte le verifiche sulle richieste sono centralizzate, e i soldi - continua Castelli - non arrivano».
Di fatto quei fondi sono serviti solo per sistemare alcune scuole. Le domande di finanziamento per ristrutturare o ricostruire ponti e viadotti, sono state, fin qui, appena 23. «Una era la nostra. Ho chiesto i soldi per rifare un ponte che rischiava di crollare tre anni e mezzo fa. Sono arrivati a maggio» aggiunge Castelli. Per la messa in sicurezza degli edifici privati, di quel miliardo, sono stati spesi pochi milioni di euro. Nel 2013, ad esempio, sono state presentate 11 mila domande ai Comuni, che le hanno girate alle Regioni e da queste alla Protezione Civile, ma ne sono state accolte solo 1.849, di cui 480 in Puglia e 580 in Calabria (191 nel Lazio, 114 nelle Marche, 77 in Umbria, le zone colpite dal sisma di questi giorni), con un contributo medio di 20 mila euro.
Nel 2010 gli edifici privati che hanno beneficiato dei fondi per la prevenzione sismica sono stati appena 21 in tutt’Italia, saliti a 1.192 nel 2011 e a 1.326 nel 2012. Per il 2016 la Protezione civile stima interventi su 8-12 mila edifici, «ma se la normativa resta questa - dice Castelli - è del tutto irrealistico». Le Ordinanze della Protezione Civile per lo stanziamento dei fondi sono di una complessità estrema, in media una novantina di pagine, più una decina di allegati tecnici. Pagine e pagine per descrivere cosa sia un “edificio”, quali caratteristiche debba avere, quali gli interventi possibili e le clausole di esclusione. Sono stati invece quasi tutti utilizzati i fondi concessi ai Comuni per la «microzonazione sismica del territorio», la premessa per qualsiasi intervento. Le mappe i Comuni le hanno fatte, pure Accumoli e Amatrice. Ci sono anche i soldi, ma le case continuano a crollare.

Corriere 26.8.16
«La nostra scuola crollata? Per i tecnici era a posto, mi fecero pure i complimenti»
di Virginia Piccolillo


AMATRICE Fa un passo e predispone un ospedale da campo («Ho avuto l’Ok da Zingaretti»). Ne fa altri cinque e tenta di risolvere l’intoppo burocratico dei certificati delle salme («Per ognuno bisogna andare a Rieti. Che ci posso fare se il magistrato qui non vuole venire?»). Ne fa altri sette e arriva, come uno schiaffo, la domanda sui fondi spesi e non spesi per la prevenzione. Ora che anche la Procura indaga sul crollo della scuola elementare di Amatrice, per il sindaco, Sergio Pirozzi, sembra arrivato il momento delle domande. E delle risposte.
La prima. Quella scuola elementare era stata ristrutturata ma è venuta giù. Perché?
Allarga le braccia e fa un sorriso amaro. «C’è stato il terremoto».
Ma la Procura indaga su quell’edificio che ieri, in un’altra scossa, ha perso un intero spigolo.
«Certo. È un atto dovuto. Ma non mi fraintendete. Non voglio difendere nessuno. Ognuno si assumerà le eventuali responsabilità. Io faccio il sindaco, non il tecnico».
Ma erano stati spesi trecentomila euro?
«Di più. Mi pare cinquecentomila stanziati dalla Regione e cento dal Comune».
E non sono serviti a nulla?
«No, no. Le migliorie antisismiche ci sono state, compatibilmente con il tipo di edificio».
Quale tipo?
«La scuola è sottoposto a vincoli dei beni culturali perché è stata costruita nel 1930».
E chi ha controllato che le migliorie tecniche fossero adeguate?
«Dopo il terremoto dell’Aquila facemmo venire i tecnici per verificare se la scossa, che qui si è sentita molto forte, avesse messo a repentaglio la stabilità dell’edificio. E la scuola è risultata a posto. Ma le dirò di più».
Ovvero?
«Nel 2013 qui ci fu un altro terremoto. E in quell’occasione ci furono altri rilievi tecnici. E per la stabilità della scuola io ricevetti addirittura i complimenti. Mentre per il liceo...».
Per il liceo?
«Nonostante non fosse di mia competenza io lottai perché i ragazzi non rientrassero in quella struttura pericolosa. E ora mi dovrebbero fare un monumento per quel container che può ospitare il centro operativo della protezione civile per i soccorsi perché è l’unica struttura rimasta agibile».
Il centro storico è distrutto. Davvero non si poteva far nulla per evitarlo?
«Facile parlare col senno del poi. Venissero quassù a vedere, invece di fare bassa speculazione».
Cosa scoprirebbero?
«Le anomalie questo terremoto le ha avute tutte. Duecento morti già estratti e quelli purtroppo che temiamo di trovare lì sotto lo dimostrano. Ma poi la violenza con cui ha colpito in alcune zone, mentre altre non sono state neanche sfiorate. La porta Carbonara non era mai crollata».
Le case erano a norma?
«Le normative sono cambiate con gli anni. I privati si adeguano a quelle in vigore al momento della costruzione».
Al netto delle feste e della sagra degli spaghetti quanti abitanti ha il centro storico di Amatrice?
«Circa duemila e cinquecento persone. Le altre sono seconde case per le vacanze riaperte in questo periodo. Se la scossa fosse arrivata lunedì i morti sarebbero stati molti, molti di meno».
Riaprirà la scuola dei bimbi?
«Subito. Amatrice deve ripartire».
Anche loro studieranno in un container?
«È la soluzione più sicura».
Quante tendopoli verranno allestite?
«Otto. E voglio che siano allestite al meglio. Qui la sera fa già zero gradi. In inverno la temperatura va ancora più giù».
Non pensa al modello New Town?
«No. Assolutamente. Amatrice era uno dei borghi più belli d’Italia e così deve tornare».
Come fare con un centro storico completamente distrutto?
«Io rivoglio la città com’era. Il modello sarà quello del Friuli, non delle New town. Meglio aspettare un po’ di più nelle tende ma riavere l’Amatrice disegnata da Cola Filotesio».
Lei aveva detto «Amatrice non esiste più». Adesso ha cambiato idea?
«Era un momento di scoramento che mi ha preso proprio quando ho visto che era caduta, per la prima volta nella storia, la porta della città».
Non lo direbbe più?
«No. I soccorsi sono stati straordinari. Abbiamo avuto prove di affetto dagli amici e da tutto il mondo. Siamo montanari. Di fronte alle difficoltà noi ci rimettiamo in marcia. C’è la dobbiamo fare. Amatrice risorgerà».

il manifesto 26.8.16
«Si muore di corruzione e imperizia nei lavori»
L'intervista. Il responsabile del Centro pericolosità sismica dell’Ingv Carlo Meletti: con una scossa simile in Cile o in California non ci sarebbe stata questa devastazione
di Rachele Gonnelli


«Una devastazione come in Irpinia nel 1980». Non è solo un’impressione quella di Carlo Meletti, responsabile pericolosità sismica dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia: è una prima valutazione fatta sulla base delle ispezioni che i suoi colleghi dell’Ingv stanno facendo in queste ore, perlustrando a tappeto la zona colpita dal sisma, e con i quali è in costante contatto.
Perché l’Irpinia e non L’Aquila? Perché è crollato quasi tutto ad Amatrice?
Sì, dai primi dati sembra che i crolli siano essenzialmente dovuti alla tipologia povera del costruito. Muri fatti con pietrame.
Amatrice ha pagato il prezzo della sua passata povertà? L’edificio rosso nuovo che si vede nella foto dall’alto (anche ieri in prima, ndr) è rimasto in piedi…
In realtà anche quello sembra seriamente danneggiato, da buttare giù. Nel filmato fatto dal drone dei Vigili del fuoco si vede chiaramente che è spezzato in due. Ed essendo di recente costruzione vuol dire una sola cosa: che il cemento armato non è stato legato bene con le travi dei pilastri. All’Aquila a volte il cemento non era neppure armato, mancava del tutto il ferro dentro.
Per essere antisismico un palazzo deve prima di tutto essere costruito come si dice, a regola d’arte? Questo spiega perché la torre medievale di Amatrice è rimasta in piedi ed edifici molto più moderni come l’ospedale o la scuola si sono sbriciolati?
Amatrice era proprio sopra al terremoto, che è stato superficiale. In questi casi il grosso della scossa più verticalea, immagino che se fosse stata più orizzontale la torre dell’orologio oscillando avrebbe avuto una maggiore probabilità di crollare. Anche in Emilia nel 2012 alcuni campanili stretti e lunghi hanno resistito perché l’accelerazione era verticale. La scuola era degli anni ’30 ma risistemata nel 2012 con tecniche modernissime, addirittura fibre di carbonio: ci sarà modo di capire cosa sia successo e se i lavori siano stati fatti bene. In generale possiamo dire che la prima norma antisismica è avere un muratore che sa fare bene il suo mestiere, che usa il filo a piombo come facevano i romani o gli egizi. Poi naturalmente ci sono molte altre regole da seguire ma nel terremoto del Sannio del 1688, un paese amministrato dai Borboni fu distrutto totalmente da un terremoto di grado 6,5, lo Stato pontificio mandò i suoi architetti che dopo attente analisi compilarono un decalogo per la ricostruzione e trasformarono Cerreto Sannita nel gioiello che si può tuttora ammirare (vedi il manifesto di ieri, ndr). La regola basilare era l’utilizzo di pietra squadrata con angolo a novanta gradi e di travi in pietra sugli stipiti. Molto semplice ed è ancora lì.
E a L’Aquila cosa è successo?
L’Aquila non doveva crollare, dietro la parte crollata ci sono le magagne evidenziate nelle perizie del tribunale. Non doveva crollare con una magnitudo di 6, molto vicina a quella di Amatrice. Con un sisma così si può morire solo in Italia, in Grecia e forse in Turchia, non altrove. In California e in Cile quasi non se ne sarebbero accorti. Il Cile ha molto da insegnare. Lì nel 1960 c’è stata la scossa più forte mai registrata dagli strumenti, 9,5. Poi è stato tutto ricostruito con una normativa seria. Nel 2010 hanno subito un terremoto di magnitudo 8,8 e ha fatto pochissime vittime. Dagli Stati Uniti un’équipe di ricercatori ha stabilito un nesso tra numero delle vittime a parità di magnitudo e tasso di corruzione calcolato sulla base degli indici internazionali che oggi esistono. Il Cile, com’è noto, è considerato un paese non corrotto, al contrario dell’Italia. E questo è il primo fattore di sicurezza, il secondo è una responsabilità civile molto forte che lega per sempre il costruttore o restauratore, e il suo committente, con il manufatto, anche dopo successive vendite.
In Umbria per la ricostruzione dopo il terremoto la Regione ha dato molti incentivi ai privati, forse non è un caso che oggi Norcia abbia resistito?
Nel ’79 in una zona poco a ovest, colpita da un sisma di magnitudo 6, non ci fu una devastazione paragonabile. Era l’epoca di Zamberletti e del dopo- Friuli, l’inizio delle vicende sismiche moderne nel nostro paese.
Finanziare dappertutto le ristrutturazioni antisismiche delle case private, si dice costerebbe troppo.
La Lunigiana dimostra il contrario. Nel ’95 un terremoto del 5,3 ha fortemente danneggiato la zona. La Regione Toscana ha dato 20 milioni di lire a famiglia per interventi antisismici su edifici in muratura. L’intervento migliore in termini di costo-beneficio sono le catene di ferro da una facciata all’altra e questo è stato fatto. Gli investimenti sono triplicati perché le famiglie che ne hanno approfittato per fare altri lavori a proprie spese e le ditte edili hanno acquisito «un know how». Nel 2013 in Lunigiana c’è stato un nuovo sisma del 5,3 e in sostanza non ci sono stati danni. La prevenzione si può fare e dà risultati.
Ma si può fare in tutte le zone rosse e viola della mappa dell’Ingv?
La mappa colorata è diventata un’icona pop dei nostri tempi. L’abbiamo fatta, ma a che serve se non ci agganci un’azione di prevenzione?
Invece cosa si dovrebbe fare?
Ancora oggi per capire lo stato degli edifici mi devo basare sui dati poveri del censimento Istat che aveva alcune domande sulla tipologia abitativa. Sono gli unici dati disponibili e se ne ricava che l’80% delle case italiane è precedente al 1981, cioè sono state costruite prima della ancor blanda prima normativa antisismica. Quanto a scuole e ospedali c’è solo una mappatura finanziata dalla Protezione civile nel Centro Sud grazie ai lavori socialmente utili a metà anni ’90. Che la prefettura dell’Aquila dovesse crollare era già scritto in quel librone.
E non è stato fatto nulla? Le scuole…
Qualcosa è stato fatto dopo S. Giuliano di Puglia ma ancora troppo a spot. In Italia c’è la sindrome Nintoo («not in my terms of office»), non si fa niente se non è spendibile elettoralmente subito. Erdogan, che evidentemente non ha questo problema, ha varato nel 2012 un piano ventennale per abbattere e ricostruire 7 milioni di case: proprietari e costruttori ci guadagnano con un aumento delle volumetrie. Noi potremmo fare di meglio, credo.

il manifesto 26.8.16
La catastrofe politica
di Michele Prospero


Un terremoto è anche una grande questione politica. Ma non lo è nel senso che su una tragedia si possono ricamare meschine operazioni di marketing, con bande musicali al seguito, annunci di ricostruzioni miracolose e plastico avveniristico delle new town illustrato nella quarta camera, quella di Vespa. Si illude in maniera grossolana il governo se pensa di aver trovato ad Amatrice il suo Abruzzo. Cioè calcola di approfittare delle macerie per sviluppare un nuovo episodio di ingegneria della comunicazione, utile solo per la consacrazione del nuovo leader del fare che si spende in narrazioni in vista del referendum costituzionale.
Eppure, a tutta pagina, ieri l’Huffington Post titolava, con un’enfasi degna della stagione retorica del secolo scorso: «Presenza fisica e azione». E nell’articolo si poteva leggere: «Svegliato alle 3,45 Renzi fa il punto dell’emergenza. Si decide di non lasciare nulla al caso. Ma proprio nulla». E quindi «anche la comunicazione viene organizzata a puntino». A puntino.
Con la sua nuova tattica (proprio questo è il termine usato) il governo «cerca di non lasciarsi spiazzare dall’evento naturale» e quindi di «accelerare al massimo possibile». Il tentativo è quello di scandire artificialmente i tempi delle scelte, di simulare pragmatismo e efficienza: «La priorità è scavare, dice Renzi». Cose già viste.
Che la catastrofe diventi politica in tal modo, ovvero che una tragedia figuri come materia di tattica, di scenografia e di comunicazione studiata «a puntino», questo è l’indizio di una decadenza inarrestabile della sfera pubblica. È questione politica un terremoto ma in un senso diverso, perché, ad esempio, su un evento catastrofico si è scritta una delle pagine più importanti del pensiero moderno.
Nell’agosto del 1756 Rousseau scrive una lettera a Voltaire che aveva pubblicato un poema sul terremoto di Lisbona. Sebbene scosso dalle macerie, Voltaire, il cantore della grandezza del bel secolo delle arti e delle scienze, non perde le certezze del mondano che loda la perfezione del tempo e difende l’epoca «tanto denigrata dai mesti criticoni».
Rousseau lo incalza negando che la catastrofe rinvii alla metafisica, alla teologia, al fato. Sebbene ci siano eventi imprevedibili, considerate «le combinazioni del caso» che smonta la pretesa che «la natura dev’essere soggetta alle nostre leggi», Rousseau vede la politica proprio dove Voltaire scrutava solo la teodicea, con il rapporto tra Dio e il male, la bontà e la natura. Dalla teologia scende perciò sulla politica. Lo spiega bene Ernst Cassirer: «Rousseau ha sottratto il problema della teodicea al circolo metafisico, trasponendolo al centro dell’etica e della politica».
L’irrazionalista, il sentimentale Rousseau non se la prende con Dio (si distacca dalla pretesa dell’illuminismo di punzecchiare la religione in nome della ragione «quasi che dipendesse da noi credere o non credere in materie in cui la dimostrazione non ha ragion d’essere») o con la natura e mette sotto processo la società e così rilancia la ragione della politica come risposta critica alle emergenze.
Rileva ancora Cassirer: è la «coscienza della responsabilità della società, che Rousseau ha indicato per primo. Il XVII secolo ignorava questa idea». Rousseau inventa la politica moderna e scorge nelle macerie di Lisbona non già indizi di metafisica ma le tracce del crollo di una civiltà alienata e per questo mette sotto processo le scelte pubbliche nel progetto di città.
«Per restare al vostro tema, e cioè Lisbona, – scrive il ginevrino a Voltaire – dovete convenire che non era stata la natura a raccogliere là ventimila case dai sei ai sette piani, e che se gli abitanti di quella grande città fossero stati distribuiti in modo più uniforme e in abitazioni più piccole, il disastro sarebbe stato molto minore, e forse non vi sarebbe stato. Tutti sarebbero fuggiti alla prima scossa. Invece, sono dovuti restare abbarbicarsi alle macerie esporsi a nuove scosse».
Non è in questione Dio o la natura che si presenta con «la durata ipotetica del caos». Contano scelte politiche nel contenere spiriti di lucro quando si edifica una città. Se nelle città umbre l’intervento sulle abitazioni dopo le precedenti emergenze ha consentito di prevenire disastri ciò significa che non è il semplice fato a portare in altri luoghi la morte, con scosse dalla intensità minore che abbattono alberghi e ospedali.
Se le risorse scarse vengono promesse per il ponte sullo stretto, dirottate sulle grandi opere, destinate a chi compie 18 anni o regalate per le gigantesche decontribuzioni a favore delle imprese, ciò accade per una scelta politica che non apprezza la messa in sicurezza del territorio come bene pubblico prioritario.
Il sostegno delle grandi potenze dell’economia e dei campioni della finanza è più ricercato della manutenzione dei territori, delle città affidata a lavori che mobilitano piccole imprese, artigianato, competenze diffuse. E questo ordine rovesciato dei valori è politica, cattiva politica che governa l’Italia come un paese periferico che frana dinanzi alle emergenze.

L’ultimo libro di Salvatore Settis è “Costituzione! Perché attuarla è meglio che cambiarla” (Einaudi).
Il Fatto 26.8.16
Salvatore Settis “La prima grande opera è la messa in sicurezza, non il falso sviluppo fatto di Tav, Ponti sullo Stretto e autostrade inutili”
intervista di Silvia Truzzi

Non è il momento delle polemiche”, si sente ripetere in queste ore di macerie e numeri neri come la morte. Ma è proprio il rispetto per chi ha perso tutto – vita, amici, case e futuro – che impone riflessioni. Salvatore Settis – archeologo, ex direttore della Normale di Pisa, ex presidente del Consiglio superiore dei Beni culturali, un curriculum sterminato che va dal Getty Center di Los Angeles allo European Research Council – da tempo si occupa della tutela del paesaggio e sabato sarà ospite per un dibattito sul referendum costituzionale alla festa del Fatto di Roma. Perché è la Carta che all’articolo 9 spiega che la Repubblica italiana “tutela il paesaggio e il patrimonio artistico della Nazione”. O almeno dovrebbe.
Professore, da tempo lei ha lanciato un allarme sulla tutela del paesaggio. Forse non sufficientemente ascoltato.
Non sono certo il primo ad averlo fatto. Nel 1980, dopo il terremoto dell’Irpinia, Giovanni Urbani scriveva: “Non è necessaria nessuna competenza in economia per sapere quale sarà il saldo di una politica economica che non si è mai degnata di far entrare nei propri conti i costi del dissesto geologico, del disordine urbanistico e della incuria verso il patrimonio edilizio storico. Ci vorrebbe assai poco per calcolare il danno economico che incombe sulla penisola ove persistesse, come purtroppo certamente persisterà, l’assenza di ogni politica di difesa del suolo e di consolidamento preventivo dell’edilizia storica”. Parole che paiono scritte oggi e che invano richiamai dopo il terremoto d’Abruzzo (2009) e dopo quello d’Emilia (2012), sostenendo, se posso autocitarmi, che la prima grande opera di cui il Paese ha bisogno è la messa in sicurezza del proprio territorio. Vale ora più che mai.
Il caso di Norcia – epicentro della seconda scossa dell’altra notte – dimostra che dove s’interviene per mettere in sicurezza gli edifici, i danni sono limitati.
Confrontiamo due dati: dopo il terremoto di Reggio Emilia del 1996 la Soprintendenza mise in sicurezza campanili e monumenti, e lo fece così bene da farli resistere al sisma del 2012. Nel 2012, invece, si è lasciato crollare il campanile di Novi Modenese e si è abbattuto con la dinamite quello di Poggio Renatico. Quel che è cambiato in questi anni non è la legge, ma la prassi berlusconiana instaurata dopo il terremoto d’Abruzzo. Da quel che accadrà ora ad Amatrice si capirà se questo governo è più fedele alla legge o all’ideologia delle cosiddette new town.
Dal Belice continuiamo a spendere solo per ricostruire. Ma oltre il 60% degli edifici italiani è stato costruito prima che entrassero in vigore le normative anti-sismiche.
Come facciamo per la salute del nostro corpo, così l’Italia dovrebbe fare per il proprio territorio: prevenire, prima che curare. Che cosa ci impedisce di farlo? Risposta: la colpevole rincorsa al falso sviluppo fatto di devastanti Tav, ponti sullo Stretto, inutili autostrade, opere pubbliche da farsi nell’interesse non dei cittadini ma delle imprese. La corruzione legata a molte di queste opere la dice lunga sul perché esse continuano a essere al centro dei progetti della politica.
Armando Zambrano, presidente dell'Ordine degli ingegneri, ha detto: “In Europa ci si preoccupa più del risparmio energetico che della p r e v e nzione antisismica perché i Paesi a maggior rischio sono praticamente solo Italia e Grecia”.
Italia e Grecia sono i Paesi della “periferia meridionale” citati nel documento JP Morgan (maggio 2013) come bisognosi di riforme costituzionali che riducano la spesa sociale e la tutela dei lavoratori (l’Italia è anzi ricordata espressamente). Mostrando i muscoli al largo di Ventotene, Renzi sarà stato un po’ imbarazzato per questa definizione dell’Italia come “periferica”? E per prenderla da un altro lato: che Europa è mai questa, se non si cura della tutela della vita dei cittadini e della sorte dei monumenti storici in Grecia e in Italia?
Le spese per la ricostruzione non sono considerate straordinarie e sono dunque sottoposte a vincoli di bilancio. Torniamo sempre allo stesso punto: questi principi – ora di rango costituzionale grazie alla riforma dell’articolo 81 della Carta – entrano in concorrenza con i diritti più importanti come sicurezza e salute.
Nonostante il nuovo articolo 81 della Carta stravolto dal governo Monti, resta in piedi “la primarietà del valore estetico-culturale, che non può essere subordinato ad altri valori, compresi quelli economici, ma deve essere capace di influire profondamente sull’ordine economico-sociale”, secondo più d’una sentenza della Corte costituzionale (per esempio la 151/1986). E se questo è vero per i monumenti, lo è a maggior ragione per la salute e la vita dei cittadini. Non posso credere che il governo calpesterà questa necessaria gerarchia di valori.

La Stampa 26.8.16
Le misure antisismiche che l’Italia progetta ma esporta e non usa
L’esperto dello Iuss di Pavia: “Il costo? Solo il 10% di quello che pagheremmo per la ricostruzione”
di Claudio Bressani


Si chiama «seismic retrofit», ovvero adeguamento sismico: un complesso di tecniche per intervenire sui vecchi edifici esistenti e renderli più sicuri contro i terremoti. Un campo in cui gli ingegneri italiani sono all’avanguardia a livello mondiale. Eppure poi solo in rarissimi casi queste misure sono applicate nel nostro Paese. «È certamente un problema di risorse - dice il professor Paolo Bazzurro, docente di tecnica delle costruzioni allo Iuss di Pavia, uno dei massimi esperti italiani - ma anche di volontà politica, ovvero di scelte su come spendere i soldi. Purtroppo scontiamo decenni di scarse azioni. Spesso anche le comunità locali fanno resistenza, temono effetti negativi sul turismo».
Per l’adeguamento degli edifici privati non ci sono obblighi di legge, solo gli incentivi fiscali del 65% per i Comuni inseriti nelle zone 1 e 2. Per gli edifici definiti strategici gli obblighi invece ci sarebbero, «eppure - osserva il professor Bazzurro mentre nel pomeriggio torna dalla riunione della commissione Grandi rischi a Roma - in tutto l’epicentro non è rimasto più un edificio pubblico agibile. L’ospedale è andato giù, le scuole pure, la caserma dei carabinieri è lesionata. Ci sono programmi per intervenire, ma poi per attuarli di solito si aspetta la catastrofe. Dove è stato fatto, come a Norcia dopo il sisma del 1997, ha dimostrato la sua efficacia. La forza del terremoto che l’altra notte ha colpito la cittadina umbra è stata solo di poco inferiore a quella di Arquata del Tronto. Quest’ultima è distrutta, mentre a Norcia non c’è stato un solo morto e credo neanche un ferito».
Cosa possiamo fare dunque per proteggere i vecchi edifici di cui l’Italia è piena? «Se partiamo con l’idea di trasformare quelli in muratura raggiungendo livelli di sicurezza comparabili con gli edifici moderni costruiti con criteri antisismici, bisogna rassegnarci: non ci si arriverà mai. Ma sarebbe già un grande risultato renderli sicuri, fare cioè in modo che non collassino e che la gente non resti sotto». E quanto costa? «Si può fare con una spesa abbordabile, nell’ordine del 10 per cento di quello che costerebbe la ricostruzione».
«Gli antichi edifici in muratura - osserva ancora il professore pavese - stavano in piedi con catene, tiranti, morsature agli angoli, tetti in legno. Poi le catene sono state tolte, magari per ragioni estetiche, le finestre sono state ingrandite, sono state aggiunte porte, il tetto è stato rifatto in cemento armato che pesa di più. Risultato: l’edificio è diventato più vulnerabile».
Per migliorare la sicurezza può bastare poco, dalle semplici piastre per aggiungere vincoli, ad esempio tra pilastro e trave, alla posa di tendini d’acciaio all’aggiunta di elementi di rinforzo come archi o puntelli. Per gli edifici in cemento armato si va dal rendere le colonne più resistenti con un «jacket», un cappotto di calcestruzzo o materiali compositi, all’isolamento alla base, cui si ricorre di solito per edifici più importanti come ospedali e che si può adottare anche per quelli esistenti, dopo averli «sollevati». All’Aquila è stato impiegato diffusamente anche per i moduli abitativi del progetto Case. Soprattutto per gli edifici in acciaio si usano gli smorzatori o dissipatori sismici. Altre tecniche più complesse, come il cosiddetto «slosh tank», si utilizzano per edifici più alti come i grattacieli.
Gli strumenti a disposizione sono parecchi, per decidere quali adottare serve un’attenta analisi delle caratteristiche di ciascun edificio. Certo, il problema è che sono centinaia di migliaia: «Ci vogliono tanti soldi - conclude il professor Bazzurro - ma sono comunque meno di quelli che spendiamo per ricostruire».

La Stampa 26.8.16
Tokyo sicura con esercitazioni e case costruite sulle molle
di Roberto Giovannini


Il Giappone, uno dei Paesi più esposti al rischio sismico, è davvero un esempio da seguire. Grazie a un mix di misure di prevenzione e di contenimento dei danni, riesce a limitare in modo notevole perdite umane e distruzioni. Anche in occasione di terremoti gravissimi, come quelli di Kobe del 1995 o quello del Tohoku del 2011.
Imitarle non è facilissimo però. In Italia si cerca di preservare gli edifici storici e le città antiche; in Giappone - dove da sempre gli edifici residenziali sono basati su materiali leggeri come il legno, che periodicamente per terremoti e guerre vengono distrutti - si preferisce buttar giù e ricostruire. Utilizzando, ovviamente, tutte le più moderne e aggiornate tecnologie antisismiche. Secondo, i governi laggiù spendono per ricostruzione, prevenzione e retrofitting antisismico risorse ingentissime, da noi impensabili. Infine, la popolazione giapponese è preparata agli eventi sismici, e disposta a rispettare le regole mirate a ridurre i rischi e i danni. Ridurre, non eliminare: il 14 e il 16 aprile scorsi due sismi hanno colpito Kumamoto, nel Sud del Giappone, con 80 morti e danni diretti e indiretti stimati in molti miliardi di euro.
La prima misura è quella che riguarda le procedure di costruzione degli edifici. I codici delle costruzioni sono periodicamente rivisti e aggiornati per tenere conto delle più innovative tecniche antisismiche. Tra queste, sistemi di molle o di cuscinetti che permettono alle strutture di assecondare i movimenti del terreno, e strutture molto elastiche che consentono ai grattacieli grandi ondeggiamenti senza arrivare a rotture strutturali. Ancora, appositi sistemi impediscono che rotture dei cavi elettrici o delle tubazioni del gas generino incendi o altri disastri: treni e metropolitane si arrestano subito.
Poi, come detto c’è una popolazione assolutamente preparata al rischio sismico. Sin da piccoli gli scolaretti giapponesi sanno che appena la terra comincia a tremare forte bisogna coprirsi la testa con un tatami e mettersi sotto un tavolo. In tutti gli uffici, pubblici o privati, si svolgono periodiche esercitazioni. In casa tutti tengono un kit di sicurezza con documenti, acqua, medicine e cibo per un paio di giorni.
Terzo, in Giappone esiste un sofisticato sistema di pre-allarme in grado di avvertire la popolazione dell’arrivo di un sisma importante, o di uno tsunami, basato su una rete di sensori situati in tutto il Paese. Non appena si avverte l’imminenza di un sisma, immediatamente l’allarme viene lanciato sovrapponendosi ai programmi televisivi in diretta, indicando forza e localizzazione presunta del sisma o dell’onda in arrivo. Sono quasi sempre soltanto pochi secondi di anticipo: forse quelli che fanno la differenza tra la vita e la morte. Da poco ha avuto un gran successo una app per gli onnipresenti smartphone, Yurekuru, che in caso di sisma individuato dalle autorità squilla fortissimo. Il primo agosto, però, per un errore tecnico dell’Agenzia pubblica, un (falso) allarme terremoto ha gettato nel panico milioni di giapponesi.

Il Sole 26.8.16
Investire in prevenzione strada obbligata per ripartire
di Alberto Quadrio Curzio


La tragedia del terremoto nell’area tra Rieti, Ascoli Piceno e Perugia suscita anzitutto partecipazione al dolore delle popolazioni colpite. È un sentimento autentico perché gli italiani in questi momenti drammatici si uniscono e lo dimostrano con la solidarietà concreta dei soggetti istituzionali preposti alle emergenze, quella dei volontari, quella degli operatori dell’economia (imprese, banche e sindacati), quella delle associazioni comunitarie religiose e non. Sono solidarietà nobili che contribuiscono a superare l’emergenza e che ci richiamano alle priorità e alle responsabilità.
E qui si riapre, ancora una volta, il grande libro di quanto fatto e non fatto con molti capitoli di analisi e di azione. Tra questi vi sono quelli sulle eventuali responsabilità e colpe, che non dovrebbero essere intonate al sensazionalismo, quelli di indennizzare al meglio chi ha subito danni, quelli di puntare su sistemi per prevenire o mitigare gli eventi catastrofali e le loro conseguenze. Di questi ci interesseremo con due tonalità, una storica e l’altra prospettica, parlando spesso di cifre per spiegare (pur prescindendo dal valore della vita umana) come la prevenzione costerebbe mediamente meno degli interventi ex post.
Continua pagina 4 Alberto Quadrio Curzio
Continua da pagina 1 Una retrospettiva.
In Italia ci sono serie analisi anche se non sempre i dati collimano. Tra queste vanno menzionate quelle condotte dal Cnr insieme a Ingv e a un consorzio universitario con il supporto di Fondazione Generali, quelle di Ance, di Cresme, di Cni alle quali ci riferiremo nel seguito senza un riferimento puntuale.
Si stima che quasi sei milioni di cittadini siano esposti a rischi idrogeologici e 22 milioni a rischi sismici e che nei circa 70 anni del dopoguerra fino al 2012 il danno prodotto da terremoti, frane e alluvioni abbia superato in Italia i 240 miliardi di euro attualizzati, ovvero una media di 3,5 miliardi all’anno. Si stima altresì che ogni 5 anni si verifichi in Italia un sisma disastroso. Dal 1968 al 2012 il totale di costi per le finanze pubbliche (comprese alcune previsioni di spesa) ammonta a 121 miliardi attualizzati per gli interventi di ripristino conseguenti i 7 terremoti più gravi, tra i quali ci interventi che potrebbero durare 50 anni. Emerge così anche la distinzione tra ricostruzioni efficienti e situazioni incancrenite. Né va dimenticato che tra i costi collettivi permanenti degli eventi catastrofali vi è un’accisa sui carburanti introdotta nel 1963 e che nel triennio 2010-2012 ha dato un gettito di 17,5 miliardi utilizzati (ma non bastanti) per la gestione e ricostruzione ex post di 5 terremoti e 3 eventi idrogeologici.
La prevenzione.
Di fronte a queste impressionanti cifre si pone un serio problema per le finanze pubbliche che in Italia sono sempre sotto vigilanza stretta. Se si effettua un calcolo di costi e benefici (prescindendo dal danno di perdita di vite umane) dati Usa indicano che 1 euro investito in prevenzione fa risparmiare 4 euro di costi per ricostruzione, con differenziazioni che dipendono dalla tipologia dell’intervento preventivo. Altre stime arrivano anche a un rapporto molto maggiore per l’Italia, su cui tuttavia aspettiamo conferme dalla citata ricerca del Cnr.
In Italia si fanno interventi di prevenzione che data la rischiosità sismica e idrogeologica del nostro Paese appaiono largamente insufficienti e, per lo stesso motivo, sono assolutamente necessari a cominciare dalla costruzioni con criteri antisismici e dalla diffusione della consapevolezza del rischio tra le popolazioni. Anche perché ci sono catastrofi che causano danni e morti anche come conseguenza delle edificazioni più o meno abusive in zone a rischio. Certamente questo non è il caso di centri urbani con millenni di storia e con riferimento ai quali gli interventi dovrebbero, a parità di rischio, essere prioritari anche per preservare un patrimonio artistico e architettonico unico al mondo .
Come ha ben argomentato ieri Giorgio Santilli su queste colonne, la prevenzione deve essere fatta su almeno due filiere: quella degli investimenti pubblici, anche con fondi europei; quella con incentivi ai privati. Sotto il primo profilo si argomenta che i fondi disponibili per interventi di messa in sicurezza del territorio vengono investiti con grandi ritardi e per importi inferiori agli stanziamenti a causa delle nostre barriere burocratico-normative. Sotto il secondo profilo concordiamo con Realacci che l'allargamento dell’ecobonus del 65% alle opere immobiliari antisismiche a livello di condominio (e noi aggiungeremmo di quartiere o di comune) sarebbe molto importante. Dovrebbe inoltre essere ripreso il percorso verso un sistema assicurativo con garanzia dello Stato contro le catastrofi che non esiste in Italia, a differenza di altri Paesi, e che ha perso slancio negli ultimi tempi dopo le proposte seguite al terremoto emiliano del 2012 e alle diffuse alluvioni del 2014.
I vincoli.
Arriviamo così ai vincoli europei e italiani di finanza pubblica convinti che le spese di investimento dovrebbero trovare nella normativa e nella prassi europea un New deal. Per gli eventi catastrofali, le regole della Ue stabiliscono che il Paese colpito possa avere temporaneamente più flessibilità di bilancio per fronteggiare l’emergenza, mentre non sono concesse ex ante delle flessibilità per investimenti di prevenzione. L’assurdità di questo criterio è resa evidente dal fatto che la prevenzione può salvare vite umane. Né si può valutare come contributo dell’Europa alle emergenze l’utilizzo del modesto Fondo di solidarietà costituito dal 2002. Comunque si giri il problema si ritorna sempre al punto di partenza. Senza una massiccia politica di investimenti infrastrutturali ecocompatibili l’Europa non proseguirà nella sua costruzione. Il Governo italiano farà la sua parte ma non avrà un compito facile in Europa perché alle deroghe fiscali per questo terremoto seguiranno ben presto i richiami al rigore. La battaglia deve perciò essere continuata su un piano alto: quello della crescita o del declino dell’Europa.
Una conclusione.
Rimanendo alla prevenzione degli eventi catastrofali la linea politico-istituzionale italiana dovrebbe anche travalicare gli schieramenti politico-partitici e quindi governativo-parlamentari che si succedono nel tempo, fissando come una costante non solo la tutela delle vite umane ma anche quella della nostra identità storico-culturale espressa da centri urbani ed opere d’arte con millenni di storia .

Renzi: 50 milioni all’emergenza
Il Sole 26.8.16
Edifici pubblici sicuri, servono 50 miliardi
La stima della Protezione civile per rendere antisismico il patrimonio nazionale
di Massimo Frontera


ROMA L’edilizia sbagliata presenta un conto pazzesco: 50 miliardi di euro, solo per gli edifici pubblici. Più una cifra «sull’ordine di centinaia di miliardi per gli edifici privati». La stima arriva dai tecnici della Protezione civile. «Per l’adeguamento sismico degli pubblici serve una cifra sull’ordine di 50 miliardi», spiega Mauro Dolce, uno dei direttori generali del dipartimento della Protezione Civile, tra i tecnici più impegnati sul fronte della prevenzione sismica.
«Il costo dell’adeguamento degli edifici pubblici - spiega - è fissato da norme e può essere calcolato con maggiore precisione». Diverso è il caso degli edifici privati. «Il costo per adeguare sismicamente gli edifici privati è molto più variabile - aggiunge Dolce - perché il proprietario può scegliere tra una gamma di interventi di messa in sicurezza il cui costo può variare tra 300 e 800 euro a metro quadrato».
Costi, appunto, pazzeschi. Un motivo in più per avviare, prima possibile, il piano di prevenzione nazionale da almeno quattro miliardi all’anno invocato sulle colonne di questo giornale da Mauro Grassi, capo dell’Unità di missione sul dissesto idrogeologico, uno degli uomini di Palazzo Chigi in prima linea sulla prevenzione territoriale. Proposta che sottoscrive in pieno anche l’Associazione nazionale dei costruttori edili (si veda intervista a fianco).
Un piano nazionale che - sul fronte degli edifici privati - utilizzi la leva del bonus fiscale del 65%, adeguatamente potenziato, come ha proposto il presidente della Commissione Ambiente della Camera Ermete Realacci, che ha già annunciato la convocazione dell’VIII Commissione di Montecitorio il 1° settembre con all’ordine del giorno una risoluzione per il rilancio dello sgravio fiscale. Sgravio fiscale che peraltro, il 31 dicembre arriva alla scadenza naturale (si veda sempre il «Sole 24 Ore» di ieri). L’obiettivo da raggiungere è comune al tema dell'efficienza energetica: passare dalla scala dell’unità abitativa e della villetta a quella dei complessi edilizi e dei condomini.
I 965 milioni che il governo ha messo a disposizione a partire dal 2009 per la prevenzione sismica sono una goccia nel mare. Una cifra, si legge ancora oggi sul sito della Protezione civile, «inferiore all’1% del fabbisogno che necessario per il completo adeguamento sismico di tutte le costruzioni, pubbliche e private, e delle opere infrastrutturali strategiche».
«Per gli edifici pubblici - ribadisce Dolce - il costo dell’adeguamento o del miglioramento sismico è calcolabile con precisione perché è legato all’applicazione di norme, per esempio l’adeguamento sismico delle scuole è stato calcolato in 13 miliardi». L’oscillazione imprevedibile degli edifici privati è spiegata con un esempio: «Moltiplicando il costo di 300 euro a mq per 10 milioni di abitazioni da 100 mq già si arriva a 300 miliardi, solo con gli edifici privati», calcola Dolce, includendo nel calcolo le abitazioni nelle aree a maggiore rischio sismico.
Dopo il terremoto in Emilia Romagna, anche il centro studi del Consiglio nazionale degli ingegneri aveva provato a fare lo stesso conto, arrivando a una cifra altrettanto shock: quasi 94 miliardi di euro per mettere in sicurezza le abitazioni in tutte le aree a rischio sismico.
I numeri elaborati dagli ingegneri hanno il pregio di segmentare il fabbisogno tra aree territoriali. La disaggregazione consente di individuare nettamente una priorità, da mettere in cima alla lista. Sono le abitazioni che si trovano nelle aree con classe 1, quella di massimo rischio sismico: oltre 650mila, per un costo stimato di messa in sicurezza di quasi 5 miliardi e mezzo.
Non stupisce che l’Italia - come emerge dalle elaborazioni del centro studi dell’Ance (su dati della Commissione Ue) - sia il primo Paese per utilizzo del fondo di solidarietà per gravi calamità: tra il 2002 e il 2015, l’Italia ha infatti “tirato” 1,32 miliardi, circa un terzo delle somme erogate a 28 Paesi. Le emergenze dell’Aquila e dell’Emilia Romagna hanno surclassato le alluvioni della Germania, che è il secondo Paese della lista, con 971 milioni utilizzati (terza la Francia con 204 milioni). Ma questi soldi sono solo per l’emergenza, non per la prevenzione. E da fare ce n’è.
È sempre l’Ance a ricordare che su 64.800 edifici a uso scolastico, 24mila sono in aree a elevato rischio sismico (il 37%). E che su 5.700 ospedali, 1.822 sono in aree a rischio sismico. E che il 70% dei fabbricati già esisteva quando sono entrate in vigore le prime norme antisismiche del 1974.
Il costo della mancata prevenzione, calcola sempre l’Ance, è altissimo: circa 3,5 miliardi di euro l’anno. La scarsa attenzione alla prevenzione si misura anche con l’irrisorio numero di edifici che in Italia sono coperti da una polizza specifica contro il rischio di danni causati dai terremoti. L’Associazione delle imprese assicuratrici ha stimato che solo l’1% delle abitazioni ha una copertura specifica per gli effetti dei terremoti, il che significa circa 300mila unità abitative.
(I documenti citati in questo articolo sono scaricabili dal quotidiano digitale «Edilizia e Territorio»).

Corriere 26.8.16
Convivere con l’imponderabile solo grazie alla speranza
di Emanuele Trevi


Non c’è cosa più dolorosa del conto delle vittime, quel numero che continua a salire ogni volta che ci colleghiamo a Internet, sperando follemente che i giochi siano fatti, che l’irreparabile si sia almeno solidificato in una cifra. E invece, come se fossero costretti a passare nel foro di una spietata clessidra, di ora in ora coloro che definiamo «dispersi» si aggiungono, uno dopo l’altro, alle vittime acclarate che li aspettano. Come se questa parola — «disperso» — che di per sé non ha nulla di rassicurante, la usassimo come un ultimo, fragilissimo velo, pronto a lacerarsi da un momento all’altro.
I terremoti hanno una lunga storia, scandita da date fatali e nomi di città distrutte e numeri di vittime. Ma dal punto di vista umano, dei riflessi emotivi e psicologici che l’evento suscita in noi, sembra al contrario che sia sempre lo stesso, interminabile terremoto a ricordare all’uomo di non fidarsi troppo della vita, e che quella che consideriamo la nostra terra, dove costruiamo case e ponti, campanili e ospedali, dovremmo considerarla come la groppa di un animale che a volte, chissà perché, si scrolla di dosso qualche centinaio o migliaio di esseri umani, senza nemmeno accorgersene, senza il minimo sentimento di ostilità.
Dicevo che sembra di assistere allo stesso eterno terremoto perché quello che scriveva Voltaire a proposito del disastro che rase al suolo Lisbona nel 1755 potrebbe applicarsi parola per parola a quanto vediamo accadere sotto i nostri occhi in questi giorni sull’Appennino laziale. Oggi forse è meno scandaloso che ai tempi di Voltaire affermare che nella nostra esistenza è presente e agisce il Male, e che nessun sistema filosofico o religioso, per quanti sforzi faccia, può sinceramente affermare che viviamo nel migliore dei mondi possibili.
Lo sappiamo tutti che non è vero, che questo è solo il mondo che ci è toccato in sorte, e nemmeno pensare che poteva andarci peggio è una grande consolazione, in fin dei conti. La realtà è che l’uomo, tra le tante cose che lo rendono diverso da ogni altro figlio della Natura, è anche quell’animale che ha coscienza di fare affidamento sull’inaffidabile. Una logica troppo ferrea lo avrebbe altrimenti condannato all’estinzione prima ancora che fosse capace di costruire una città. Ma in noi si realizza la più strana delle sintesi: quella della logica e della speranza. «Speranza» è proprio l’ultima parola del poema di Voltaire su Lisbona, ed è un attributo così umano, dice il grande poeta, che nemmeno Dio lo possiede. Ogni aspetto della nostra vita, minimo o grandioso che sia, ne è talmente impregnato che in sua assenza non potremmo nemmeno concepire la realtà, perché non avremmo nessun interesse a intraprendere alcunché nella certezza assoluta del disastro. Ed è molto triste constatare come non facciamo quasi nulla per rafforzare questo sottile filo d’oro della speranza, nel quale consiste tutta la nostra nobiltà. Tutte le grandi menti dell’epoca meditarono sul disastro di Lisbona, e ci stupisce ancora, sfogliando quegli scritti, verificare come ben poco è cambiato nella nostra maniera di pensare dal 1755 a oggi. Rousseau, il grande avversario di Voltaire, esprime esattamente la stessa giusta opinione dei nostri geologi e dei nostri sismologi osservando che se Lisbona fosse stata costruita meglio, migliaia di persone non avrebbero trovato la morte sotto le macerie.
Mi commuove più questo semplicissimo pensiero di un’intera biblioteca di testi filosofici e teologici. Perché la forza dell’imponderabile è tale, che ogni accorgimento umano può sembrare un castello di sabbia di fronte alle onde. Ma su questo non possiamo dire o fare nulla. A sperare un po’ meglio, invece, possiamo imparare .

Repubblica 26.8.16
L’occupazione
Crollano i contratti stabili: - 84% continua il boom dei voucher


ROMA. Crollano i contratti a tempo indeterminato. Nei primi sei mesi del 2016 i contratti stabili sono diminuiti dell’84 per cento rispetto allo stesso periodo del 2015. È quanto emerge dall’ultima rilevazione dell’Inps sulle assunzioni e cessazioni dei rapporti di lavoro.
A incidere sull’andamento del mercato del lavoro — come si era già evidenziato nelle precedenti rilevazioni — è sopratutto la riduzione degli sgravi contribuitivi sulle nuove assunzioni, passati dal 100 al 40 per cento.
Nel primo semestre sono stati stipulati 845.392 contratti a tempo indeterminato (comprese le trasformazioni di rapporti a termine e di apprendistato) mentre le cessazioni dei contratti a tempo indeterminato sono state 770.890 con un saldo positivo di 74.502 unità. Con un calo, appunto, dell’84 per cento rispetto al primo semestre del 2015 quando il saldo era stato positivo di 468.186 unità.
Nello stesso periodo è proseguita la cavalcata dei voucher: ne sono stati venduti 69,9 milioni con un aumento del 40,1 per cento rispetto al primo semestre del 2015.

il manifesto 26.8.16
Le assunzioni stabili calano del 33%
Inps. Un terzo in meno rispetto al 2015. Allarmante il dato sui voucher: aumento del 40%. Le donne e i giovani fino a 29 anni i più colpiti. Finiti gli sgravi, si è interrotto l’effetto di stabilizzazione dei precari
di Marta Fana


Sono impietosi gli ultimi dati dell’Osservatorio sul precariato dell’Inps: si assiste a un crollo dei contratti a tempo indeterminato, bilanciato da un aumento dei contratti a termine e di un sempre più diffuso utilizzo dei voucher.
Nei primi sei mesi del 2016, le cessazioni di rapporti di lavoro a tempo indeterminato superano le nuove assunzioni facendo registrare un saldo negativo di 120.253 unità, un dato di gran lunga inferiore ai numeri relativi allo stesso periodo del 2015, in cui i nuovi contratti netti a tempo indeterminato erano 131.502. Il dato dipende esclusivamente dalla riduzione delle assunzioni, -33% rispetto al 2015; le cessazioni quest’anno non superano quelle del primo semestre dell’anno appena trascorso. Inoltre, fin qui, la dinamica complessiva del tempo indeterminato fa peggio anche del 2014, anno in cui il Jobs Act (Decreto Poletti a parte) e gli sgravi erano soltanto un annuncio. Nonostante la contrazione delle assunzioni a tempo indeterminato si distribuisca su tutte le categorie di lavoratori, coloro che ne risentono maggiormente sono le donne e i giovani fino ai 29 anni. Inoltre, dei nuovi contratti a tempo indeterminato, solo il 57,6% è a tempo pieno (era il 59,3% nel 2015). Dal punto di vista qualitativo, è il commercio a trainare le assunzioni, lo stesso che chiede e impone con la contrattazione aziendale condizioni peggiorative per i lavoratori.
Rallentano anche le trasformazioni di contratti a termine in contratti a tempo indeterminato, -37% rispetto al 2015, anch’esse inferiori rispetto ai valori del 2014. È questo uno dei dati più eclatanti che il rapporto Inps fa emergere: l’effetto di stabilizzazione dei precari con contratti a termine una volta finiti gli sgravi si è interrotto. Qui, il ruolo del Jobs Act emerge solo nei mesi di marzo e aprile 2015. Ne è ulteriore prova l’andamento dei contratti di apprendistato che nel primo semestre di quest’anno si mostra costantemente crescente, contrariamente a quanto avvenuto un anno fa. Di nuovo, l’interpretazione più immediata e forse plausibile va rintracciata nella legge di stabilità 2015 che escludeva l’apprendistato dagli sgravi, facendone quindi venir meno il suo carattere di contratto più vantaggioso in termini di costi. Ora che gli sgravi sugli altri contratti sono diminuiti, le aziende trovano conveniente usare l’apprendistato come forma di contratto di inserimento verso una posizione formalmente a tempo indeterminato.
Quel che rimane quindi è il lavoro precario, contratti a termine e voucher. I primi aumentano del 24% nel confronto con il 2015, dato trainato da un netto calo delle cessazioni, mentre le assunzioni aumentano di un esiguo 0,6%. Anche in questo caso emerge il ruolo che gli sgravi contributivi del 2015 hanno giocato sulla dinamica contrattuale: nel 2015 le cessazioni di rapporti a termine erano funzionali alle trasformazioni che avrebbero beneficiato della decontribuzione.
Infine, il dato sui voucher, quello più allarmante: tra gennaio e giugno di quest’anno ne sono stati venduti 69.899.824, in aumento del 40% rispetto a un anno fa e del 145% rispetto al 2014. Un dato che si commenta da sé ed esprime la deriva del mondo del lavoro italiano, sempre più usa e getta, strappato alla sua funzione collettiva e democratica. In queste condizioni, non dovrebbe stupire la stagnazione dell’economia italiana, così come non può trovare altra spiegazione il dato della povertà dei giovani italiani, la categoria che più tra tutte subisce lo sfruttamento a mezzo di voucher, sempre più imbrigliati da una vita non più precaria ma ormai occasionale e accessoria.

Corriere 26.8.16
Il tecnico assunto nel «Raggio magico»: i professionisti costano
intervista di Ernesto Menicucci


ROMA «Cosa penso delle retribuzioni nello staff della Raggi e del vicesindaco? Le professionalità devono essere pagate per quello che valgono e per il ruolo che ricoprono».
Andrea Mazzillo, commercialista, professore universitario a Tor Vergata, esperto di finanza locale, è uno dei componenti del «Raggio magico», la ristretta cerchia vicino alla sindaca. E il suo contratto (con «trattamento economico annuo lordo parametrato alla fascia massima della retribuzione di posizione dirigenziale del contratto nazionale dei Dirigenti degli Enti Locali, ai sensi del comma 3 bis dell’art. 90 del decreto legislativo 267/2000») è uno di quelli di cui si discute.
Dottor Mazzillo, nella «base» c’è molto malcontento per questi stipendi...
«Non mi sembra. Le assicuro che c’è molta tranquillità».
Non crede però che stipendi così alti non siano in linea con la politica di M5S?
«Sono un tecnico, non un politico. Mi occupo di finanza locale, ho coordinato la stesura del programma elaborato proprio con attivisti e cittadini e per questo sono stato chiamato al Campidoglio».
Insisto: prendere oltre 100 mila euro non è troppo per il Movimento 5 Stelle?
«Ma sta parlando di me? Il mio compenso è di molto inferiore e poi parliamo sempre del lordo, più gli oneri vari per l’amministrazione...».
Un’opinione, da attivista, ce l’avrà. O no?
«Premesso che non sono un iscritto, perché M5S non è un partito, la mia opinione è che le competenze vanno pagate in base al ruolo che svolgono».
Il passato nel centrosinistra?
«Mi candidai nel 2006 con la lista civica Veltroni, quella locale nel Municipio in cui abito, mai con il Pd. È un’esperienza che è finita dieci anni fa e che non faceva per me proprio perché non esisteva la partecipazione dei cittadini».
Il rapporto con Raggi?
«C’è un rapporto professionale e amicale da anni con tutto il gruppo consiliare passato, collaborando in particolare con Marcello De Vito per le attività collegate alla commissione bilancio e quindi con tutti gli altri consiglieri trovandoci bene a lavorare insieme compresa Virginia Raggi».
Tanto che è stato anche il mandatario della sua campagna elettorale. Bilancio finale delle spese?
«Siamo in parità: 200 mila euro di entrate e di uscite».

Corriere 26.8.16
Roma, la sindaca resiste sui maxistipendi
Raggi minimizza: io questi mal di pancia non li ho sentiti. Il vicesegretario generale blocca una nomina
Le distanze con l’assessore al Bilancio Minenna, il gruppo consiliare le scrive e chiede decisioni condivise
di E. Men.


ROMA «Mal di pancia interno sui maxistipendi? Questo mal di pancia io non l’ho sentito». All’ora del tramonto, davanti alla scalinata della Lupa capitolina, sotto Palazzo Senatorio, Virginia Raggi cerca di smontare — o quantomeno smussare — le polemiche di questi giorni. La «base» romana del Movimento 5 Stelle è ad un passo dalla rivolta, gli attivisti si stanno organizzando per una megariunione da tenersi a settembre sul «caso Roma», il post di Francesca De Vito, sorella di Marcello, che accusava soprattutto il vicesindaco Daniele Frongia di aver scelto «amici di merende» come suoi collaboratori (il riferimento è soprattutto a Eric Sanna, ex compagno di stanza di Frongia quando i due erano all’Istat), ha fatto molto rumore e fatto agitare anche i vertici di M5S che stanno guardando con grande attenzione a cosa accade in Campidoglio.
Ma la sindaca tira dritto. Nessuna riduzione dei compensi, almeno per ora. Ma anche, al momento, nessuna nuova assunzione. Quelle già previste, per rimpinguare lo staff della comunicazione, vengono rinviate alla settimana prossima.
E, anzi, nella riunione di ieri dell’esecutivo capitolino, è stato il vicesegretario del Comune, Mariarosa Turchi, a «stoppare» l’assunzione di un ingegnere, Stefano Ciceroni, dicendo che nella delibera di nomina dovevano essere meglio spiegate le motivazioni dell’incarico. Il fronte, insomma, resta caldo. Tanto che i consiglieri comunali pentastellati stanno pensando di scrivere una lettera aperta alla sindaca per chiedere decisioni maggiormente condivise con il gruppo: «Se le scelte fatte finora fossero in linea con i principi di M5S non ci sarebbe nulla da dire, ma non è così. Noi non vogliamo fare i passacarte o gli schiacciabottoni», fanno sapere. Secondo gli spifferi che arrivano dal Campidoglio, anche il superassessore al Bilancio Marcello Minenna, avrebbe chiesto alla sindaca di rivedere gli stipendi, soprattutto quello del caposegreteria Salvatore Romeo. Raggi, però, non molla. E, come contromossa, avrebbe messo sul piatto anche la decurtazione dello stipendio della capo di gabinetto Carla Romana Raineri, molto vicina allo stesso Minenna.
La situazione, così, è in fase di stallo. Lo dicono anche i comunicatori del Comune: «Dobbiamo riorganizzare tutti gli uffici e gli staff». Raggi, che ha aperto la giunta (nella quale è stata approvata la delibera per la partecipazione di Roma al bando sulle periferie varato dal ministro Delrio: per la Capitale ci sono 18 milioni in ballo) con un minuto di silenzio per le vittime del terremoto, respinge le polemiche al mittente: «Queste ricostruzioni non le abbiamo sentite e nemmeno i cittadini. Lasciateci occupare di politica e voi continuate pure con le vostre ricostruzioni».
Caso chiuso? Non ancora. Perché sulle assunzioni al Comune pendono due ricorsi (uno di Fabrizio Ghera di FdI alla Procura e alla Corte dei conti, l’altro del Codacons solo alla magistratura contabile) che potrebbero aprire un altro fronte di fibrillazione interna al Movimento. Gli attivisti, infatti, stanno già pensando — se le cose andranno avanti in questo modo — di chiamare Virginia Raggi al recall , il meccanismo all’americana di verifica sul suo operato. Procedura prevista nel famoso «contratto», cioè il «Codice di comportamento» firmato dalla sindaca al momento della sua candidatura, da applicare in caso di gravi inadempienze agli impegni assunti. Oppure se, come si legge nell’articolo 9 (Sanzioni), «il sindaco venga iscritto in seguito a fatti penalmente rilevanti nel registro degli indagati e la maggioranza degli iscritti M5S decida per le dimissioni». Ma sono solo ipotesi. Almeno per ora.

Repubblica 26.8.16
Parma, via le panchine dalla stazione “Basta con i bivacchi degli immigrati”
La giunta 5 Stelle guidata da Pizzarotti elimina i sedili che aveva fatto installare tre anni fa “Residenti e commercianti non ne potevano più”. Ma è scontro: “Scelta ottusa e punitiva”
Il blitz in pieno agosto Provvedimenti simili sono stati adottati da molte città leghiste del Nordest
di Francesco Nani


PARMA. Via le panchine contro i bivacchi. Il provvedimento dell’amministrazione Pizzarotti a Parma ricorda quello dell’ex sindaco leghista Giancarlo Gentilini che a Treviso le eliminò vent’anni fa, sperando che, così, sparissero anche gli immigrati. Massimo Bitonci, a Padova ha invece puntato sulla modifica, facendo installare braccioli che impediscono di sdraiarsi. Stile Carroccio o meno, venti sedili in cemento — posizionati dalla stessa giunta nel 2013, a completamento dei lavori milionari per il rifacimento del piazzale della stazione intitolato a Carlo Alberto Dalla Chiesa — sono stati fatti scomparire in un solo giorno. Obiettivo dichiarato: contrastare degrado, spaccio, risse e arginare le proteste di residenti e commercianti. Pizzarotti, dopo aver riempito di panchine il “salotto” cittadino all’insegna della socialità, di fronte ai binari ha fatto il contrario. Quelle divelte, ha spiegato, saranno ripulite e spostate in altre zone: «Abbiamo trasformato un problema in un’opportunità. E vieteremo il consumo di alcolici fuori dai locali per combattere degrado e ubriachezza molesta ». «Vogliamo una piazza più vivibile », ha aggiunto prima di partire per gli Stati Uniti, con la speranza al ritorno di conoscere il suo destino politico dopo la sospensione dal Movimento decisa da Grillo tre mesi fa. Non condivide la linea del sindaco l’associazione Pane e Vita, onlus che da anni serve pasti e offre aiuto ai più bisognosi nella zona progettata dall’archistar Oriol Bohigas. «Non è il primo provvedimento che va nella direzione sbagliata: ricordiamo le coperte tolte ai senza tetto dalla municipale. Sono misure di facciata, si fa in modo che il problema si sposti altrove evitando di affrontare veramente la povertà e il disagio che aumentano».
Anche a Parma, il generoso livello di welfare fatica: la città è tra i Comuni capoluogo che in Regione ospitano il maggior numero di profughi, conta 1.500 famiglie in attesa di case popolari e i dormitori sono pieni. «La sera — sottolineano a Pane e Vita — quando distribuiamo il cibo, le panchine vengono usate per sedersi e consumare il pasto che offriamo. È vero, c’è chi le utilizza anche per dormire ma, d’altra parte, se lì non ci sono più andrà a cercarle altrove».
Difende il provvedimento l’assessore alla Sicurezza Cristiano Casa: «Ce lo hanno chiesto abitanti e negozianti esasperati dai bivacchi perlopiù di stranieri. L’intervento — riferisce leggendo la lettera di un cittadino — è stato “un successo, la situazione è cambiata in meglio, non ci sono più assembramenti”. Siamo in una zona di transito — aggiunge — , altrove le panchine le abbiamo messe per dare la possibilità ai turisti e non solo di accomodarsi, la stazione è invece un luogo di passaggio ».
«Dopo tutto quello che è stato speso, con le tasse dei cittadini, per riqualificare la zona, non si trova di meglio da fare che abbandonare a se stesso il piazzale in quanto “area di flusso e non di stazionamento”», ribatte il Pd che parla di «decisione punitiva e ottusa, come le multe per chi mangia il gelato al Battistero, che non risolve le cause del degrado sociale, ma è anzi un segno di resa».
A primavera Parma andrà al voto e la questione sicurezza avrà certamente il suo peso. Nel frattempo, ieri notte, tre profughi pakistani, sanzionati ciascuno per 450 euro dai vigili per aver dormito all’aperto, sono stati ospitati dalla Caritas. In un letto.

Il Sole 26.8.16
Gli obiettivi dietro l’operazione militare
Erdogan e il Rubicone dello sfondamento a sud
di Vittorio Emanuele Parsi


Sono fin troppo chiari i motivi che hanno spinto il governo turco a ordinare al proprio esercito di varcare il confine con la Siria e occupare la cittadina di Jarablus, congiuntamente alle formazioni di ribelli siriani a loro vicine. Evidentemente la lotta contro il califfato del terrore (nella quale per lungo tempo il presidente turco Recep Tayyp Erdogan non si è certo distinto) non c’entra niente. Lo scopo di Ankara – platealmente dichiarato ai microfoni della Tv turca Ntv dal ministro della Difesa Fikri Isik – è quello di impedire che i combattenti curdi delle Unità di protezione popolare (Ypg) possano occupare ulteriori posizioni a ridosso del confine turco. Lo si era già capito nei giorni scorsi, quando le bombe dei caccia di Ankara avevano indistintamente (ma non accidentalmente) colpito tanto le aree ancora controllate dall’Isis quanto quelle liberate dall’Ypg. Sempre per bocca del ministro Isik, abbiamo anche appreso che la Turchia considera perfettamente legittimo ogni suo intervento militare volto non solo a impedire la formazione di un Kurdistan indipendente in Siria, ma anche di un’entità dall’autonomia paragonabile al Kurdistan iracheno.
Fin qui nulla di nuovo nelle parole. Ma molto nei fatti e soprattutto nel modo in cui questi si stanno svolgendo. Mentre i carri armati turchi avanzavano in territorio siriano, infatti, il vicepresidente americano Joe Biden si trovava ad Ankara. Era la prima visita di un esponente di alto livello dell’amministrazione Obama dal giorno dei due putsch di luglio (quello abortito dei militari e quello perfettamente riuscito di Erdogan). Al di là della perdurante tensione tra i due Paesi alleati (che rappresentano il primo e il secondo esercito della Nato), era evidente la “benedizione” all’avventurosa iniziativa turca (cui parteciperebbero anche “consiglieri” americani), sottolineata peraltro dall’ammonimento pubblicamente lanciato ai curdi di ritirarsi «a Est dell’Eufrate», pena la «sospensione degli aiuti militari americani».
La “strategia” dell’amministrazione Obama in Siria (ma esiste?) lascia sempre più perplessi. È difficile capire, infatti, come si possa affermare in ogni consesso il principio della “indivisibilità” della Siria quando poi si sostiene l’occupazione di una fascia di territorio da parte di un Paese confinante. La cosa è ancora più sorprendente se solo si considera la riluttanza a lungo mostrata dalla Turchia nella lotta contro l’Isis: per tacere delle oscure connivenze affaristiche, per le quali quali a Bologna è indagato anche il figlio del presidente Erdogan. Oltretutto i disinvolti “giri di valzer” di quest’ultimo con il presidente russo Vladimir Putin e quello iraniano Hassan Rohani dovrebbero indurre Washington a maggiore prudenza. È infatti chiaro che la Turchia, nel perseguire (maldestramente) quello che considera il proprio indiscutibile interesse nazionale sembra disposta a correre (e a far correre agli altri) qualunque rischio.
Giunti a questo punto, dieci anni dopo la caduta del regime di Saddam Hussein e a quattro anni dall’inizio della guerra civile siriana, la questione curda ben difficilmente potrà essere scopata sotto il tappeto e men che meno risolta con le armi. Favorire una simile illusione non può che gettare benzina sul fuoco di quell’incendio che da troppi anni sta devastando il Levante. Oltre agli Stati Uniti, a fornire manforte alla Turchia si ritrovano così Paesi come l’Iran, la Russia, l’Arabia Saudita, Israele e – paradossalmente! – la stessa Siria di Assad: tutti, per un motivo o per l’altro, timorosi che l’affermazione dei diritti nazionali del popolo curdo possa fornire uno “scandaloso” e attrattivo precedente per le minoranze interne che essi a diverso titolo opprimono. Si tratta di Paesi che, peraltro, hanno allineamenti e interessi totalmente contrastanti sulle più complessive vicende mediorientali, alcuni dei quali l’America considera alleati o clienti, altri rivali o avversari.
Attraversando il confine siriano, la Turchia ha varcato il suo Rubicone nella guerra senza quartiere che da decenni conduce contro i curdi: si tratta di un’escalation che non gioverà minimamente alla pace della regione, i cui effetti potrebbero essere forieri di un ulteriore e non necessario allargamento e approfondimento di un conflitto che, con la lotta all’Isis, rischia di avere sempre meno a che vedere. È questa la strategia attraverso la quale a Washington pensano di sconfiggere il califfo?

il manifesto 26.8.16
La fobia del «contagio»: Teheran e Ankara «alleati»
Iran. Gli iraniani collaborano con i turchi in chiave anti-kurda per timore che il progetto confederale democratico di Ypg e Pkk si muova verso est. I kurdi iraniani del Pjak si dicono pronti a difendere i «fratelli» in Siria
di Francesca La Bella


«I kurdi non hanno altri amici che le montagne»: parole della tradizione popolare kurda che oggi sembrano acquistare valore in un contesto dove le alleanze e i bilanciamenti di potere sono nuovamente in ridefinizione.
Nelle ultime settimane, infatti, abbiamo assistito a due importanti attacchi ai danni delle forze kurde in Rojava, prima ad Hasakah da parte delle forze siriane fedeli al governo di Bashar al Assad e, in seguito, a Jarabulus da parte delle truppe di Ankara. Una novità importante nello scacchiere d’area anche a causa del coinvolgimento di quasi tutti gli attori del conflitto, nella battaglia contro i kurdi.
Da un lato, al fianco di Assad, le forze iraniane e gli Hezbollah libanesi; dall’altro, a supporto dell’azione turca, le sempre più ridotte forze dell’Esercito Libero Siriano (Esl), l’aviazione statunitense e, con un informale sostegno diplomatico, Masoud Barzani e il Governo Regionale del Kurdistan iracheno (Krg).
Quello che sembra spaventare i diversi protagonisti della guerra in atto è l’inarrestabile avanzata delle forze Ypg in Siria e la loro capacità di radicarsi sul territorio coinvolgendo popolazioni non kurde, ma anche la possibilità di un effetto domino sulle popolazioni kurde presenti negli altri paesi dell’area. Quest’ultimo aspetto sembra essere ciò che guida le scelte del governo di Teheran.
All’interno dei confini iraniani è infatti presente una consistente minoranza kurda che, da alcuni mesi, ha ripreso la propria resistenza contro il governo centrale. Numerosi sono stati gli scontri armati tra guerriglia kurda e forze governative e le esecuzioni di militanti kurdi con l’accusa di terrorismo, fino a giungere al bombardamento di alcuni avamposti militari kurdi sul confine con il Krg.
Per quanto, secondo alcuni analisti, questo rinnovato attivismo sia da imputare anche ad un conflitto di potere tra due diverse milizie kurde, il Partito Democratico del Kurdistan iraniano (Pdki) vicino al Krg di Barzani e il Partito della Libertà del Kurdistan (Pjak), membro del Consiglio delle Comunità Kurde (Kck) e legato al Pkk turco, un’eventuale vittoria dei kurdi in Rojava potrebbe costituire una significativa minaccia per l’integrità territoriale iraniana.
Nonostante le evidenti differenze e i contrasti tra le realtà della galassia kurda, la presenza sempre più significativa delle forze kurde nelle aree di confine e il consolidamento del sistema Kck con funzione di coordinamento di una parte di esse, potrebbe, infatti, portare ad una progressiva esportazione del modello del confederalismo democratico ad altre aree.
In quest’ottica si deve leggere, dunque, l’inaspettato riavvicinamento tra Turchia ed Iran di inizio agosto. L’incontro avvenuto ad Ankara il 12 agosto tra il ministro degli Esteri iraniano Mohammad Javad Zarif (nella foto LaPresse), il primo ministro turco Binali Yildirim e il suo ministro degli Esteri Mevlut Cavusoglu, volto ad aprire un nuovo capitolo nella cooperazione d’area tra i due paesi, si sarebbe focalizzato principalmente sulla questione siriana.
Per quanto le due potenze regionali si siano in questi anni trovate su fronti opposti sul destino della Siria e del suo governo, il fattore kurdo potrebbe essere stato motivo di una momentanea riconciliazione tra le parti. A riprova di questa nuova alleanza strategica, all’indomani dell’attacco a Hasakah, il 18 agosto, Cavusoglu sarebbe giunto in visita a Teheran per discutere con Zarif l’evoluzione degli eventi e dare seguito all’accordo tra i due paesi.
Durante la conferenza stampa congiunta, il ministro degli Esteri iraniano avrebbe, a tal proposito, affermato che Iran e Turchia «hanno un comune interesse a combattere terrorismo, estremismo e settarismo e che, nonostante l’esistenza di punti di vista differenti su alcune questioni, ambiscono entrambi a mantenere l’integrità del territorio siriano».
Il coinvolgimento delle forze iraniane nell’attacco a Hasakah, mirato ad indebolire le forze kurde e ad impedire il collegamento tra i diversi cantoni del Rojava rischia, però, di avere anch’esso delle conseguenze negative per la sicurezza di Teheran.
Se nelle scorse settimane gli attacchi in territorio iraniano sembravano aver subito un rallentamento dopo il vigore degli scorsi mesi, a seguito degli ultimi eventi il Pjak ha minacciato di estendere il conflitto al territorio iraniano. Siyamend Moînî, portavoce del partito kurdo-iraniano avrebbe affermato che il supporto alle forze siriane contro i kurdi in Rojava è da considerare un attacco contro tutti i kurdi e potrebbe portare ad una nuova insurrezione delle forze kurde nel Rojhelat.

La Stampa 26.8.16
Colombia, pace fra governo e Farc. Finisce mezzo secolo di guerra
L’intesa firmata a Cuba mette fine al conflitto che ha segnato il Paese per 50 anni Il 2 ottobre sarà sottoposta a referendum. I negoziati sostenuti da Onu, Usa e Ue
di Emiliano Guanella


«Oggi possiamo dire che la guerra è finita». Poche parole, destinate a entrare nella storia quelle del presidente colombiano Juan Manuel Santos, dopo la firma definitiva dell’accordo di pace tra il governo e i guerriglieri delle Farc. L’intesa viene sigillata all’Avana, con la presenza degli inviati dei Paesi che hanno fatto da garanti a tutto il processo: Norvegia, Cile, Cuba e Venezuela.
In quasi 4 anni di negoziati la diplomazia mondiale si è fatta in quattro, includendo i massimi rappresentanti Onu, dell’Unione europea, della Croce Rossa Internazionale. L’accordo prevede che le Farc abbandonino definitivamente la lotta armata, consegnino l’intero arsenale ancora a loro disposizione e si inseriscano nella società civile. Ogni guerrigliero riceverà uno stipendio di duecento dollari per due anni, oltre ad un assegno una tantum di 3.000 dollari per intraprendere delle attività in proprio.
Molti di loro, soldati fin da quando erano ragazzini, torneranno a scuola. Potranno godere di un’amnistia generale per i reati commessi, salvo i crimini di guerra e i delitti di lesa umanità. Una commissione analizzerà caso per caso, ma ci si aspetta molta «clemenza», una sorta di oblio collettivo per non inceppare il delicato gioco di equilibri che ha permesso l’intesa. Uno dei punti più difficili era la ricollocazione politica della guerriglia. Così come fu con i paramilitari, lo Stato colombiano appoggia la formazione di un movimento delle Farc, a cui verrà destinato il 5% del finanziamento pubblico ai partiti e un totale di 10 seggi di diritto fra Camera e Senato per le due prossime legislature. Meglio in politica, che sulle montagne o nella selva a combattere contro le istituzioni.
L’intero accordo sarà sottoposto a un referendum il 2 ottobre, i sondaggi danno numeri incerti. Ieri, comunque, si sono visti caroselli d’auto a Bogotà e nelle principali città del Paese; una piccola festa liberatoria, perché questa volta sembra davvero si faccia sul serio. La guerra ha marcato almeno quattro generazioni di colombiani causando, anche per l’azione di altri gruppi guerriglieri e dei paramilitari, 220.000 morti, 80% dei quali civili, e quasi 5 milioni di sfollati, un’infinità di famiglie devastate. Si è scritto molto e si è tentato più volte di porre fine alle ostilità, ma non si è mai riusciti ad arrivare una soluzione finale. Nel 1999 Andrés Pastrana ci era andato vicino, la sua celebre camminata nella zona di distensione con Manuel «Tirofijo» Marulanda aveva fatto sperare, ma poi non se ne fece nulla. Con l’avvento di Alvaro Uribe, figlio di un latifondista ucciso dalle Farc è calato il gelo. La liberazione di Ingrid Betancourt, nel 2008, fu una delle sue grandi vittorie, ma dall’altra parte non è stata mai alzata la bandiera bianca. Con Santos c’è stata la svolta. Ex ministro di Uribe, ha sconfessato la linea dura del suo predecessore e ha promesso la pace ai colombiani. Un miraggio lontano che oggi si materializza, anche se ci vorrà molto tempo per ricucire le ferite.

il manifesto 26.8.16
Colombia, le tappe di una democrazia insanguinata
Date. Alle origini del conflitto armato
di Geraldina Colotti


Per comprendere la natura e le origini del conflitto armato in Colombia, occorre partire da una data cruciale: l’assassinio Jorge Eliecer Gaitan, il popolare leader liberale, ucciso il 9 aprile del 1948. Dopo la sua morte, si aprì un periodo di forti turbolenze, chiamato il Bogotazo.
Soprusi, ingiustizie, chiusura degli spazi democratici e delle garanzie di sicurezza per una vera opposizione, accompagneranno da allora il sistema politico colombiano. Le Farc vengono fondate nel 1964 come braccio armato del Partito comunista, a difesa dei contadini poveri in lotta contro i latifondisti e i loro “pistoleros”, messi a difesa degli interessi dei due schieramenti di potere, il partito Liberale e quello Conservatore. Nella grande spinta che attraversava il continente sull’onda della rivoluzione cubana vittoriosa, i contadini avevano organizzato comuni agricole, perseguite dall’esercito.
Il 30 maggio del 1964, molti dei sopravvissuti alla feroce repressione della più grande delle comuni – la Repubblica di Marquetalia – dettero vita alle Forze armate rivoluzionarie colombiane. Il loro leader era Pedro Antonio Marin, che verrà conosciuto con il nome di battaglia di Manuel Marulanda, detto anche Tirofijo, per la precisione del suo tiro.
Nel corso degli anni, le Farc – un’organizzazione marxista-leninista – sono arrivate a controllare ampie porzioni di territorio e a raggiungere il numero di oltre 20.000 effettivi nel 2002. Vi sono stati tre tentativi di trovare un accordo di pace, tutti falliti: durante le presidenze di Belisario Betancourt (1982-1986), Cesar Gaviria (1990-94) e Andres Pastrana (1998-2002). Altissime le perdite subite dai guerriglieri ai più alti livelli di comando. Marulanda è morto di malattia nel 2008, ma molti sono caduti sotto il fuoco dei soldati, del paramilitarismo o degli omicidi mirati, aumentati in modo esponenziale durante la presidenza di Alvaro Uribe, che ebbe come ministro della Difesa Manuel Santos.
Il 1° marzo del 2008, nella regione di Sucumbios, in Ecuador, venne bombardato un campo delle Farc, e persero la vita una ventina di guerriglieri, quattro studenti messicani e un cittadino ecuadoregno, molti dei quali finiti a sangue freddo con colpi di calcio di fucile e spari alla schiena durante l’invasione di truppe colombiane dopo il bombardamento. Il presidente dell’Ecuador, Rafael Correa ruppe allora le relazioni con la Colombia.
Le Farc hanno sempre cercato una mediazione, anche nel pieno della guerra che, nel 2011 li ha privati di Guillermo Leon Sanchez, alias Alfonso Cano, subentrato a Marulanda. Ma chi ne ha preso il posto, Rodrigo Londono, detto Timochenko, ha guidato l’organizzazione armata nel negoziato che ha portato agli accordi di pace, dopo una trattativa iniziata in Norvegia quattro anni fa su iniziativa di Hugo Chavez e proseguita poi all’Avana.

Repubblica 26.8.16
Sudafrica.
Mmusi Maimane guida l’Alleanza democratica “Noi, contro la corruzione di Zuma”
Il giovane leader nero che ha sconfitto il partito di Mandela
di Pietro Veronese


Da qualche giorno Johannesburg, principale città del Sudafrica, ha un nuovo sindaco. Si chiama Herman Mashaba, ha 56 anni, non è un politico di professione bensì un uomo d’affari. E soprattutto per la prima volta nella storia del Sudafrica democratico non appartiene all’African National Congress, il partito che fu di Nelson Mandela e governa ininterrottamente dal 1994.
Lo stesso è successo a Città del Capo e a Pretoria, la capitale. Delle sei principali città sudafricane l’Anc ha ottenuto una maggioranza netta solo a Durban, ma quello è il feudo elettorale del presidente Jacob Zuma. Tale è stato il sommovimento causato dalle ultime elezioni amministrative, che potrebbe produrre il suo effetto finale alle prossime elezioni politiche nel 2019: la fine dell’egemonia, e del primato, dell’African National Congress.
È Mashaba al momento il volto nuovo della politica sudafricana. Promette lotta totale al malaffare: «Da oggi la corruzione è il nemico pubblico numero uno in questa città». Servizi invece di bustarelle è il suo programma. E anche posti di lavoro: «800mila residenti di Johannesburg, uno su tre, sono disoccupati».
Tuttavia, dietro di lui, il vero artefice del cambiamento è un uomo molto più giovane e già protagonista della vita pubblica. Mmusi Maimane ha 36 anni, cinque meno di Renzi (in Sudafrica l’età media è 26 anni e mezzo, in Italia 45), ed è il leader del secondo partito del Paese e principale formazione d’opposizione, la Democratic Alliance. Eletto alla guida del partito un anno fa è riuscito a portarla alla sua prima indubbia vittoria alle urne. Non una vittoria piena: a Johannesburg, per esempio, l’Anc resta il partito di maggioranza relativa e Mashaba è stato eletto sindaco dal nuovo Consiglio comunale solo grazie ai voti dei terzi arrivati, i populisti radicali dell’Eef ( Economic Freedom Fighters). Ma la Democratic Alliance è di certo la forza emergente, espressione di vero rinnovamento, portatrice di cambiamento storico perché a differenza dell’Anc non è espressione diretta della secolare lotta di liberazione dei neri sudafricani. A incarnare tutto questo è lui, il giovane, piacente, suadente, brillante Mmusi. La ragione è semplice: è il primo leader dell’Alleanza democratica con la pelle nera.
La Democratic Alliance ha avuto nel Sudafrica democratico una vita complicata. È l’erede delle formazioni liberal dei bianchi sudafricani, che si opponevano al regime della segregazione razziale. Alle prime elezioni democratiche del 1994 ottenne un minuscolo 1,7 per cento. È cresciuta lentamente. La sua forza è stata la conquista dell’unica grande città sudafricana non amministrata dall’Anc, Città del Capo, e poi della provincia, il Western Cape. Prima di Maimane la sua leader era Helen Zille, una donna dalle impeccabili credenziali anti-apartheid. Ma Helen è una bianca, e questo argomento è sempre stato usato, in maniera più o meno esplicita, dalla propaganda dell’Anc. Questo fattore, il “fattore R” come razza, unito alla sciagurata conduzione della campagna per le politiche del 2014 — che hanno visto comunque il partito attestarsi al 22 per cento — ha infine indotto la Zille a ritirarsi.
Mmusi Maimane era il favorito per la successione. Scegliendolo come capogruppo parlamentare e portavoce del partito, la Democratic Alliance aveva fatto di tutto per dargli massima visibilità e scollarsi così di dosso l’etichetta di “partito dei bianchi”. Mmusi era già di fatto il capo dell’opposizione, quanto meno parlamentare, e non perdeva occasione per affrontare direttamente Jacob Zuma sul tema della corruzione: «Non s’inganni, signor Presidente, un giorno lei dovrà comparire davanti a un tribunale». La sua nomina a leader del partito ha consacrato il suo ruolo e definitivamente liberato l’Alleanza democratica da un’immagine legata al passato. Per questo i commentatori non fanno che ripetere che le ultime elezioni amministrative sono state le prime in cui il “fattore R” non ha contato. Una verità che Mmusi Maimane conferma con le sue scelte di vita: Natalie, sua moglie, ha la pelle bianchissima.

il manifesto 26.8.16
Il patrimonio di un’identità
Parla Alessandro Tomei, storico dell’arte medievale all’Università di Chieti
intervista di Alessandra Pigliaru


Il grande e vasto patrimonio culturale collocato tra l’Abruzzo, il Lazio, le marche e l’Umbria e che è stato parzialmente danneggiato dal recente sisma ha caratteristiche precise. «L’aspetto cruciale, che interessa proprio la zona centrale del patrimonio artistico italiano, è la stratificazione di elementi culturali e figurativi che partono addirittura dall’età pre-classica per poi passare all’età romana e, attraverso il medioevo, giungono fino all’età moderna». A raccontare di questa marcatura importante è Alessandro Tomei, professore ordinario di Storia dell’arte medievale presso l’Università «G. D’Annunzio» di Chieti-Pescara e profondo conoscitore dei luoghi soprattutto intorno al territorio di Amatrice.Tipica di quest’area è la diffusione sul territorio di opere, certo di eterogenea qualità ma sicuramente con la caratteristica di rappresentare l’identità storica dei luoghi e di chi li abita.
Riguardo il museo civico di Amatrice, tra i danni irreversibili al patrimonio artistico, sono state perdute le due croci processionali (di Pianaco e Preta) riferibili al grande maestro Pietro Vannini….
Vannini, straordinario interprete dell’oreficeria tardo-gotica e che lavorava tra Ascoli Piceno e queste aree più dell’interno, aveva più di altri una relazione con la comunità. Amatrice, che risulta nella provincia di Chieti che tuttavia è stata creata ex-novo e per ragioni certo non culturali durante il fascismo, in realtà è una zona che gravita più sul versante adriatico che su quello tirrenico.
Tra questi danni può essere fatta una distinzione?
Sono tutte, questa compresa, delle perdite gravissime con una differenza di intervento quando si tratta non di opere presenti in un museo – e quindi trasportabili in un ricovero – ma legate a luoghi diversi come nel caso della basilica di San Francesco e della chiesa di Sant’Agostino. Se nel primo caso, come ci hanno suggerito i restauri successivi al terremoto aquilano, possono essere intrapresi interventi più che efficaci, nel secondo caso tutto dipende dalla struttura intorno, pareti, tetto etc. Se le costruzioni, come in questo frangente, sono distrutte, e di conseguenza esposte alle intemperie, non è affatto semplice salvaguardare per esempio ciò che è interno e difficilmente estraibile come un affresco. Mi riferisco in particolare a quello trecentesco riferibile al giorno del giudizio e che si trova nella basilica di San Francesco. È stato dipinto da uno dei più grandi maestri del territorio e si trova proprio ad Amatrice. Penso però anche ad Arquata del Tronto dove c’è un importantissimo castello di fondazione alto-medioevale che risulta essere parecchio danneggiato. Nella fascia marchigiana l’elemento forse più importante è un crocifisso ligneo dipinto di età tardo-romanica che stava proprio nel museo di Arquata del Tronto e che non si sa che fine abbia fatto. del resto, ogni opera, ogni monumento sono unici e irripetibili.
Riguardo gli affreschi,cosa pensa sia la pratica più ragionevole da utilizzare per la loro salvaguardia? Ciò che per esempio hanno fatto anche all’Aquila dopo il terremoto?
Quel che è accaduto all’Aquila sotto l’aspetto del patrimonio artistico è stato l’utilizzo, per esempio nelle chiese, di grandi teli di plastica come sostitutivo del tetto e tesi a riparare. In questo senso mi sembra che non vi siano state perdite ingenti di beni. Si potrebbe adottare questa tecnica temporanea anche in questo caso.
Che relazione c’è tra il patrimonio artistico e le comunità?
Di forte attaccamento. Questo patrimonio segna l’identità che non è solo un fatto di appartenenza ma proprio di riconoscimento. C’è una forte devozione popolare che non indica solo un senso del sacro ascrivibile a un’immagine a cui rivolgersi in termini di fede ma anche come segno di identità storico-culturale. Queste opere sono giunte fino a noi proprio in ragione di questo sentimento di appartenenza, altrimenti le avremmo già perse. Pensiamo per esempio alle committenze: è vero che figurano i signori del luogo ma vi è anche una parte molto più popolare legata ad associazioni di artigiani etc. Ciò per dire che non c’è un’unica e compatta identità che viene a rappresentarsi in questo legame profondo con la comunità ma che è un attraversamento di un tessuto socio-economico e culturale trasversalmente assai variegato.

Repubblica 26.8.16
Trinità cristiana e monoteismo islamico
Il destino dell’angelo ribelle trafitto dalla freccia divina
di Pietro Citati


Il pensiero cristiano parla dell’Unità e Trinità di Dio: questa idea possiede tutto il mondo europeo, abituato a scorgere nel gioco dell’Uno e del Tre le forme essenziali della nostra mente. Quando un dotto o un semplice fedele islamico ascolta questa parola, Trinità di Dio, si indigna: il termine Trinità, applicato a Dio, costituisce per lui l’essenza dell’empietà, il cuore dell’eresia .
Il fedele islamico insiste: Allah è l’Uno: nient’altro che l’Uno; egli non fa che ripetere questa parola fino alla vertigine e all’ossessione. Dio è l’Unico, senza secondi, senza compagni, senza simili, senza figli: Possessore senza associati e senza ministri. Dio non è solo il Bene, ma anche il Male: ciò che il cristiano rifiuta con orrore. Come dice il Corano, «Dio guida chi vuole e svia chi vuole»: può indurre in tentazione, e condurre le anime umane nel peggiore degli abissi. Egli è onnipotente: nulla gli sfugge, per il motivo che nulla è creato ed esiste al di fuori della Sua essenza. Contiene tutte le qualità e le forme possibili. Può portare alla perdizione: salva e condanna a Suo piacimento; se vuole, anche prescindendo dal merito. Induce i miscredenti a fare il male: sigilla il loro cuore e il loro udito, stende un velo sugli occhi, li rende ciechi. Se qualcuno possiede «una malattia del cuore», Egli non la mitiga e non la cura, ma la accresce. Travia, induce in errore, insidia, tende tranelli, trama inganni: come Zeus, il grande ingannatore della religione greca.
Allah non si incarna come il Dio cristiano: se si incarnasse, non sarebbe unico. Egli «entra» nelle forme create, come un’immagine entra e si riflette dentro uno specchio. Chi contempla le cose, non conosce la luce divina: la scorge trasformata e deformata, come la luce che penetra in un filtro di vetro colorato viene tinta dal giallo o dal rosso. Così il nostro mondo è l’ombra rispetto alla persona, l’immagine specchiata rispetto alla figura, il frutto rispetto all’albero. Il cielo è un punto uscito dalla penna della perfezione di Dio: la terra è un fiore del giardino della Sua bellezza, il sole una piccola luce emanata dalla Sua saggezza, la volta celeste una bolla del mare della Sua onnipotenza. Così un fedele, che si slancia verso le forme create per conoscere Dio, incontra la delusione più atroce: giacché il mondo è un velo che ci nasconde il Suo volto. Non sappiamo se ce lo nasconde perché è un velo troppo spesso: o perché la manifestazione di Dio è così intensa, la rivelazione così luminosa da accecare il nostro occhio. Sebbene Dio si manifesti in tutte le cose, Egli è nascosto ed assente, e noi sogniamo invano la Sua rivelazione. Egli abita infinitamente lontano. L’unica conoscenza che possiamo avere di Dio è la coscienza di non poterLo conoscere .
Allah crea sia Adamo sia gli angeli: non sappiamo secondo quale progressione (Carlo Saccone, Iblis il Satana del Terzo Testamento , Centro Essay Bey; Autori vari, La caduta degli angeli , Edizioni dell’Orso). Egli accorda a Adamo il dono di essere Suo vicario, e di possedere i nomi segreti di tutte le cose, ossia una scienza superiore a quella degli angeli. Il cuore di Adamo è caldo e appassionato: conosce il dolore, questa esperienza suprema, mentre il cuore degli angeli è gelido. Ma talora ci viene detto che gli angeli sono superiori, perché sono fatti di puro spirito, mentre Adamo è composto dai quattro o dai sette elementi.
Poi accade una cosa capitale, di cui non ci informano le Scritture, ma solo testi ebraici eterodossi e la Seconda lettera di Pietro, a cui l’Islam si ispira. Gli angeli — in primo luogo Lucifero — si ribellano: essi sono posseduti dalla superbia; credono di essere superiori a Dio, e a Adamo, creatura privilegiata di Dio. Non sopportano l’incarnazione di Cristo e la sua morte sulla croce per amore degli uomini. Peccano di lussuria: si uniscono alle «figlie degli uomini», generando una razza di giganti, e vengono incatenati nelle tenebre. Secondo l’Islam, Dio instilla in loro la stessa concupiscenza, che aveva infuso in Adamo. La conseguenza di questa unione è terribile. Gli angeli perdono il loro splendore: diventano oscuri; nasce un tempo di empietà, di perversione, di corruzione, di licenza erotica. Tutta la creazione diventa malvagia: anche gli animali e gli uccelli; tutte le creature concepiscono e compiono il male. Come dice la Genesi, «ogni carne perverte la sua condotta sulla terra». Dio dice: «Voglio eliminare gli uomini ed ogni carne dalla superficie della terra»; accade il Diluvio.
Nel Corano, il principe degli angeli caduti porta il nome di Iblis. Egli è vicinissimo a Dio: lo conosce fino dalla pre-eternità; non c’è nessuno che Dio conosca meglio di lui. Quando Dio gli dice: «Tu sia maledetto», Iblis risponde: «Per la Tua gloria, o Signore, io amo questo onore, la maledizione, che da te mi viene». Capisce che anche l’infamia e la maledizione sono un onore altissimo, se vengono da Lui. Vuole possedere la scienza segreta: la scienza del segreto di Dio e del Suo piano; giunge a conquistarla, accettando la piena sottomissione al Principio Unico. Così egli è il primo, assoluto monoteista: il suo servizio nei confronti di Dio è puro, il suo ricordo dolce, il suo servizio senza rivali. Iblis conosce la Separazione, «gravida della Sua ira»: ma, per lui, questa Separazione è un mezzo per conoscere meglio l’unione suprema.
Insieme a tutti gli altri angeli, Iblis viene invitato da Dio a prosternarsi davanti ad Adamo, che è stato appena creato, e riflette la Sua immagine e la Sua somiglianza. Tutti gli angeli si prostrano: ma non Iblis; foggiato dal fuoco, non si inchina davanti a una creatura di fango, che gli è infinitamente inferiore. Da un lato, si ribella di fronte a un comando di Dio: perciò pecca; dall’altro, non prostrandosi davanti a una creatura, afferma di essere il perfetto monoteista, che ama, adora e venera soltanto l’essenza inconoscibile di Dio. Se obbedisse alla parola celeste, egli si mostrerebbe un idolatra, come gli altri angeli: disobbedendo, attesta l’unicità divina, ma viene cacciato dal cospetto supremo.
Il signore segrega Iblis nel più profondo e buio degli inferni. Appena ode pronunciare la condanna, Iblis non si chiede se è un bene o un male: si dice soltanto che essa scende dal soglio di Dio, come scende la pioggia della Sua grazia, e l’accoglie con tutto il fervore dell’anima. Ha un unico desiderio: servire da bersaglio alla freccia di Dio. Sa quanto sia soave: perché, prima di lanciare la freccia, il Signore fissa a più riprese lo sguardo sul bersaglio della propria collera. Allora il dolore della ferita viene dimenticato: la memoria riceve nei propri recessi soltanto la beatitudine di quello sguardo, dove il corruccio si confonde con la più dolce misericordia. Così egli diventa il primo dei santi, il primo dei mistici, ed ispira tutti i mistici islamici .

Repubblica 26.8.16
L’Islam, il cristianesimo e la polemica sul burkini
di Vito Mancuso

LA QUERELLE sul divieto del burkini e la polemica sulle suore in spiaggia ha avuto di certo il merito di richiamare la comune radice di cristianesimo e islam in ordine alla questione dell’abbigliamento cui devono essere tenuti i corpi delle donne. Ha avuto quindi una felice intuizione l’imam di Firenze, Izzedin Elzir, nel pubblicare sulla sua pagina facebook, come commento, una foto di alcune religiose al mare? Per giudicare basta leggere ciò che al riguardo ordinava san Paolo (in questo articolo mi si scuseranno le lunghe citazioni, ma credo sia importante): «Voglio che sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’uomo, e capo di Cristo è Dio. Ogni uomo che prega o profetizza con il capo coperto, manca di riguardo al proprio capo. Ma ogni donna che prega o profetizza a capo scoperto, manca di riguardo al proprio capo, perché è come se fosse rasata. Se dunque una donna non vuole coprirsi, si tagli anche i capelli! Ma se è vergogna per una donna tagliarsi i capelli o radersi, allora si copra. L’uomo non deve coprirsi il capo, perché egli è immagine e gloria di Dio; la donna invece è gloria dell’uomo. E infatti non è l’uomo che deriva dalla donna, ma la donna dall’uomo; né l’uomo fu creato per la donna, ma la donna per l’uomo. Per questo la donna deve avere sul capo un segno di autorità a motivo degli angeli» (Prima lettera ai Corinzi 11,3-10, versione ufficiale Cei).
Qui san Paolo dice tre cose precise: 1) che la donna è sottoposta all’uomo, così come l’uomo è sottoposto a Cristo, e Cristo è sottoposto a Dio, secondo una netta gerarchia ascendente; 2) che la donna non solo è sottoposta ma è addirittura finalizzata all’uomo, nel senso che è stata creata per l’uomo, di cui è chiamata a essere la “gloria”; 3) che la donna deve coprire la sua testa in segno di accettazione dell’autorità cui è sottoposta.
L’islam ripresenta la medesima impostazione. La superiorità dell’uomo rispetto alla donna è affermata chiaramente dal Corano: «Gli uomini sono un gradino più in alto» (sura 2,228, trad. di Ida Zilio-Grandi). Nella stessa prospettiva la sura 4 intitolata Le donne afferma: «Gli uomini sono preposti alle donne perché Dio ha prescelto alcuni di voi sugli altri e perché essi donano parte dei loro beni per mantenerle. Le donne buone sono devote a Dio e sollecite della propria castità così come Dio è stato sollecito di loro, e quanto a quelle di cui temete atti di disobbedienza, ammonitele, poi lasciatele sole nei loro letti e poi battetele, ma se vi ubbidiranno non cercherete pretesti per maltrattarle, Dio è grande e sublime » (4,34). Quanto alla finalizzazione della donna rispetto all’uomo, così scrive il Corano: «Agli occhi degli uomini è stato abbellito l’amore dei piaceri, come le donne, i figli e le misure ricolme d’oro e d’argento, e i cavalli di razza, e il bestiame e i campi» (3,14). Ed è sufficiente pensare alla concezione islamica del paradiso in cui donne giovani e belle saranno sempre a disposizione dei credenti maschi, per ritrovare confermata tale innegabile centralità maschile. Da qui, come già per san Paolo, per il Corano discende il tipo di abbigliamento cui deve conformarsi il corpo femminile: «Profeta, di’ alle tue moglie e alle tue figlie e alle donne dei credenti che si coprano con i loro mantelli; questo sarà meglio per distinguerle dalle altre donne affinché non vengano offese, ma Dio è indulgente e compassionevole » (33,59).
Appare quindi chiaro che, sia per il cristianesimo sia per l’islam, l’abbigliamento femminile comandato non è una semplice questione di tradizione né tanto meno di gusto, ma suppone una precisa concezione del rapporto uomo-donna all’insegna della subordinazione di quest’ultima. Non è certo un caso che in Occidente l’affermazione della piena parità giuridica uomo-donna abbia avuto come conseguenza la mutazione dell’abbigliamento femminile da cui è scomparso ogni segno di subordinazione, compreso il velo in testa a cui, stando alle severe disposizioni di san Paolo, erano tenute tutte le donne in chiesa fino a solo qualche decennio fa. Dietro il burkini quindi, e in genere dietro ogni tipo di velatura più o meno ampia (con fascia, scialle, foulard, velo semplice, velo totale incluso il viso), c’è l’idea che la donna sia inferiore all’uomo e a lui sottomessa. Per questo a mio avviso non ha torto il premier francese Manuel Valls ad affermare che il burkini «è la traduzione di un progetto politico, di contro-società, fondato notoriamente sulla sottomissione della donna » e che quindi «non è compatibile con i valori della Francia e della Repubblica». E dato che la parità uomo-donna è anche un nostro valore, io penso che quel costume, e in genere l’abbigliamento che esso traduce, non sia compatibile neppure con il nostro paese.
È semplicistico dire che alla libertà di andare in spiaggia con il bikini deve corrispondere quella di andarvi con il burkini: nel primo caso infatti si assiste a un movimento di liberazione del corpo, mentre nel secondo di asservimento. E la libertà, se la si intende seriamente, non è mai solo astratta, cioè fare quello che si vuole, ma sempre concreta, cioè fare quello che è giusto e fa bene, e non ci sono dubbi che la liberazione del corpo sia un bene, anche per la liberazione della mente che ne consegue.
Il cristianesimo e l’islam, così come l’ebraismo e le altre religioni, sono quindi uno strumento di oppressione? Lo possono essere, non ci sono dubbi, c’è la storia a dimostrarlo, come del resto la storia mostra che possono diventare anche strumento di liberazione se vissuti correttamente: una liberazione dall’oppressione sociale (si pensi alla teologia della liberazione in America Latina) e una liberazione dal proprio egocentrismo e dalle proprie cattiverie, si pensi alla storia della santità e della mistica.
Il punto essenziale è comprendere che siamo inseriti tutti in un processo di cui nessuno, neppure ovviamente la laicità francese, detiene il punto di vista assoluto e alla cui evoluzione tutti sono chiamati a contribuire. Diceva il grande teologo Raimon Panikkar che «le religioni si devono convertire ». È vero: le religioni si devono convertire all’idea di non rappresentare il punto di arrivo dell’umanità, ma di essere uno strumento a servizio del bene e della giustizia, i quali sono i veri punti di arrivo cui continuamente tendere.
L’imam di Firenze ha accostato le suore cristiane alle donne musulmane, ma ha dimenticato che le suore rappresentano un gruppo particolare di donne che ha liberamente scelto di vivere in povertà, castità e obbedienza, e il cui abbigliamento richiama il loro stile di vita alternativo. Sono ben lontane però dal rappresentare tutte le donne occidentali, le quali hanno altrettanto liberamente orientato se stesse secondo ben altri stili di vita e di abbigliamento. L’islam, che non ha suore, in un certo senso tende a rendere un po’ suore tutte le donne che vi aderiscono. Il che però non è compatibile con l’idea di donna cui l’Occidente è giunto. E di questo i musulmani e le musulmane che vogliono vivervi dovrebbero, a mio avviso, prendere atto.

Repubblica 26.8.16
L’Europa e la libertà delle donne
di Annie Ernaux


OGGI, a metà agosto 2016, leggo che sono già 2500 i migranti annegati nel Mediterraneo tra gennaio e maggio, un terzo in più rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso. E leggo anche che da gennaio in Francia sono morte 68 donne, uccise dai loro compagni o dai loro ex senza che la notizia finisse mai in prima pagina, giusto un caso di cronaca come tanti. Queste statistiche, che sembrano avere in comune soltanto la morte di esseri umani e l’indifferenza, l’accettazione fatalista che essa provoca, mi sono tuttavia parse, in maniera intuitiva, meritevoli di una riflessione.
In quanto donna che sa quanto sia stato lungo il cammino fatto per ottenere l’uguaglianza dei diritti con gli uomini, che si è rallegrata di vederla figurare tra i “principi fondamentali” dell’Unione Europea, mi sento spesso preda di turbamenti, e scoraggiata. Ci si dice, dati alla mano, che le ragazze hanno un tasso di successo scolastico superiore a quello dei ragazzi, che svolgono ogni professione, che sono “presenti” dappertutto, come se ancora non si trattasse di qualcosa di scontato.
Ma presenti quanto, come? Queste giovani donne con più titoli di studio dei loro colleghi scompaiono per incanto prima di varcare la soglia degli uffici dirigenziali, nelle imprese, in politica, nei consigli di facoltà, nelle giurie letterarie. La lista è lunga. Quanto a quelle che, in maniera comparabile agli uomini, sono riuscite a realizzarsi come ministre, artiste, scrittrici, registe, umoriste, imprenditrici, arriva sempre un momento in cui tutte, chi più chi meno, provano l’impressione confusa di non essere considerate nei rispettivi ambiti “legittime” o “credibili” quanto i loro omologhi maschili, spesso a causa dei modi accondiscendenti, dell’eccessiva confidenza, nonché talvolta della violenza verbale cui sono esposte. Una violenza verbale che risulterebbe scandalosa se a farne le spese fosse un uomo, una violenza che riduce le donne ai loro corpi, le essenzializza.
Edith Cresson, la sola donna che finora abbia ricoperto l’incarico di primo ministro in Francia, constatava: «Se un uomo urla davanti all’Assemblea nazionale si dice: che oratore! Se a farlo è una donna si dice: guarda che isterica!». Non sopportando di essere vittimizzate, il più delle volte queste donne, e ne faccio parte anch’io, oppongono alle aggressioni la loro calma e la loro forza. Ma non fraintendiamoci: ciò che davvero sottintendono questi attacchi è la “normalità” implicitamente riconosciuta del potere maschile, nella sfera pubblica ma anche in quella privata. Una normalità che autorizza l’accondiscendenza e le frasi umilianti, ma anche — derivanti da un’identica sensazione, dalla convinzione di poterlo fare — i palpeggiamenti, gli stupri e le violenze coniugali. Una normalità che comporta il silenzio di chi la subisce, e l’indifferenza dei media. Per fare i conti con questa realtà abbiamo avuto bisogno che, 13 anni fa tra qualche giorno, morisse un’attrice celebre, Marie Trintignant, per le percosse del suo altrettanto celebre compagno, il cantante Bertrand Cantat: non c’è donna che sia al riparo dalla violenza fisica maschile, fino a morirne.
Qual è il legame tra quanto di peggio possa capitare a una donna — questa espressione estrema di un’egemonia maschile manifesta e condivisa — e i naufragi di migranti nel Mediterraneo? Cercando di vederci più chiaro su quanto mi è venuto da collegare intuitivamente, direi che in gioco c’è il posto delle donne all’interno di un’Europa che si sta via via trasformando in una fortezza. A nessuno sfugge il ripiegamento dei Paesi europei sulle proprie identità nazionali, né il fatto che i migranti vengano percepiti nel migliore dei casi come un “problema”, nel peggiore come un “pericolo”.
Ora, nella Storia il nazionalismo è sempre stato accompagnato da valori virili, in primo luogo quello dell’autorità. Il richiamarsi a un ordine “naturale” e il ritorno alla tradizione, qualunque essa sia, sono sempre andati a svantaggio delle donne, in un modo o nell’altro. Alcune conquiste sono fragili: lo è il diritto alla contraccezione, lo è il diritto all’aborto. E aggiungerei anche il matrimonio omosessuale, a sua volta accusato da chi gli si oppone di essere contro-natura.
Assisto all’avanzata di questa ideologia conservatrice e intollerante giorno dopo giorno. Anche la cronaca francese di questi giorni me ne offre un esempio, insidioso e ingannevole: il divieto di indossare il burkini, emanato e difeso da sindaci — maschi — che lo giustificano adducendo, tra i vari pretesti, anche quello del femminismo, ergendo insomma il bikini a vessillo della nostra libertà. L’inganno sotteso è quello di avallare in nome della libertà delle donne un tipo di provvedimento che conduce all’esatto contrario, dal momento che proprio a delle donne impedisce di vestirsi come vogliono nello spazio pubblico di una spiaggia. Il provvedimento ha suscitato un dibattito nazionale, cosa che apparirebbe surreale se non fosse evidente che si tratta di un’altra zuffa per il controllo del corpo femminile: è questo il punto a cui siamo nel 2016.
Non posso terminare questo mio breve contributo alla celebrazione di quel manifesto di Ventotene che ha gettato le fondamenta dell’Unione Europea se non auspicando l’avvento di un’Europa sociale e aperta, rivolta verso il mondo, un’Europa che sia la migliore garante della libertà delle donne.
(Traduzione di Lorenzo Flabbi) Annie Ernaux è una scrittrice francese autrice di “ Gli anni” (edizione L’Orma) Questo testo sarà letto domani al festival Gita al Faro a Ventotene

Repubblica 26.8.16
Socialdemocrazia quel che resta di un’utopia razionale
Dalla Grecia alla Scandinavia, passando per la Brexit, in tutta Europa i partiti progressisti vivono un declino elettorale che sembra inarrestabile di fronte all’avanzata populista
Ma un percorso di rilancio è ancora possibile
di Giancarlo Bosetti


Mentre Jeremy Corbin alla guida del Labour medita di riproporre socialismo e nazionalizzazioni tornando persino a discutere l’articolo 4 dello statuto del partito (la nota clause IV con il cui emendamento Blair aveva aperto la via a tre vittorie consecutive), questa estate 2016 — ironie della storia — può celebrare il punto più basso della ritirata della socialdemocrazia europea. Non tutti i partiti della categoria sono precipitati, finora, come il Pasok dal 44 al 6% in soli 6 sei anni, ma i segni del declino sono drammatici nelle urne, nei sondaggi, nell’invecchiamento dei sostenitori rimasti fedeli. I numeri aggregati su una distanza più lunga dicono che la forza elettorale della socialdemocrazia in Austria, Danimarca, Francia, Germania e Regno Unito è passata dal 41% nei primi anni ottanta al 28 (l’Italia ha una storia in parte diversa),
mentre sono cresciuti in parallelo gli sfidanti anti-sistema, di destra e di sinistra, passando dal 9 al 23% (da un’analisi Hobolt-de Vries per Policy Network). Il 52% per il “leave” nel referendum britannico del 23 giugno è anche da mettere nel conto dei passivi della socialdemocrazia (come il 55% del referendum francese del maggio 2005 che bocciò la costituzione europea), per la stessa ragione per cui è da mettere tra gli attivi dei movimenti nazionalisti, anti-Ue. Sono molti gli appuntamenti ai quali la sinistra è arrivata divisa — a Parigi, Londra, Berlino e Roma — e con le idee poco chiare (vero anche per i suoi avversari tradizionali) e incerta nelle risposte da dare a movimenti piuttosto abili — da Ukip al Front National, da M5S al Partito liberale austriaco — nell’imporre una agenda flessibile, plasmata sugli umori dell’elettorato (sì, anche improvvisata e superficiale) ma capace di raccogliere rabbia e insicurezza, ricca di promesse e libera da responsabilità e verifiche di governo.
Il declino del ciclo socialdemocratico (o «la fine», come la chiamava Ralf Dahrendorf, già vent’anni fa, «fine — diceva — per compimento dei suoi obiettivi ») non è un tema nuovo e ogni volta che se ne è parlato i difensori più strenui dell’idea, tra i quali alcuni dei migliori politici espressi dalla classe dirigente europea, hanno sfoderato l’argomento forte della “adattabilità” dei partiti socialisti o laburisti a interpretare il conflitto politico contemporaneo in forme aggiornate, nonostante gli sconvolgimenti accaduti in cielo e in terra, nell’economia, nella cultura, nella tecnologia. Ora però la rimonta sembra più difficile, perché le defezioni avvengono in direzione dei nuovi sfidanti, mentre l’agenda del nostro tempo presenta contraddizioni insormontabili per partiti di tradizione socialista: la indispensabile legislazione sul lavoro flessibile, la “platform economy” (eBay, Amazon etc) al posto delle fabbriche, la liberalizzazione piena di una economia digitale (Uber), la sharing economy, i consumi collaborativi, il crowdfunding, i mercati ibridi, l’immigrazione sono tutti campi dove gli incursori dei partiti sfidanti possono liberamente schierarsi nel modo più redditizio. Le Monde, a metà agosto, ha dedicato due pagine all’impasse della sinistra europea: alla crisi del Psf arrivato terzo alle ultime regionali, 40mila tessere restituite dal 2012; agli spagnoli lacerati su appoggiare o no la coalizione con Rajoy; al caso slovacco, con un segretario, Robert Fico, alleatosi con due partiti di estrema destra; al duello in corso nel Partito laburista tra gruppo parlamentare e segretario. Avrebbe potuto raccontare il clamoroso caso danese, dove il Dansk Folkeparti, esemplare perfetto di malleabilità populista si è costruito come l’idrovora più efficiente nel succhiare voti ai vecchi partiti: meno tasse, blocco degli immigrati, protezionismo contro la globalizzazione. Il Df ha raggiunto il 33,7% contro il 26% dei socialdemocratici, ma non va al governo nonostante sia il primo partito. E sulla paradigmatica questione di Uber i populisti danesi si scagliano all’arma bianca contro, mentre la ragionante sinistra è divisa tra una vocazione liberale e una protezionista: quindi un po’ di Uber, ma non troppo. La natura di governo della socialdemocrazia, che si è stabilita così solidamente in Europa, la rende meno mobile sulle gambe nel corpo a corpo con i populisti, anche quando è all’opposizione.
Chi difende la “adattabilità” dei partiti socialdemocratici, comunque si chiamino, fa valere la forza di strumenti politici, che si sono mostrati capaci di metabolizzare nuove stagioni politiche e nuove culture. Ma lo sono ancora? Il dubbio adesso è lecito e potrebbe essere giunta davvero la fine di molti vecchi partiti. Diverso il caso del Partito democratico americano, che ha dimostrato di non conoscere aggressioni da “fuori”, ma di essere pienamente contendibile da outsider (Bernie Sanders) dall’interno. A dire il vero la stessa cosa si può dire ad abundantiam anche per i Repubblicani (Trump, più che outsider, un intruso indesiderato). Prendiamo atto che quel sistema è davvero molto rappresentativo e “inclusivo”. La vicenda è solo apparentemente simile a quella di Corbin, perché — qui sta la differenza chiave — in questo caso le primarie sono circoscritte all’area dei sostenitori e affiliati del partito, mentre negli Stati Uniti sono aperte a tutti. Gli affiliati tendono a eleggere un candidato più partigiano e meno attraente per gli elettori in generale. I laburisti usavano il gruppo parlamentare come contrappeso all’estremismo (i deputati ci tengono a vincere). E infatti oggi la spaccatura passa di lì, appare insanabile, e c’è chi parla di scissione.
Il Partito democratico italiano, costruito dalla nascita su una ipotesi di contesa bipartitica “americana”, ha adottato primarie aperte il che spiega, nel 2014, la vittoria schiacciante dell’allora outsider Renzi. Il Partito socialista francese è orientato a primarie per le presidenziali del 17, aperte alla coalizione, dunque non solo agli affiliati. Un cambiamento capace di rendere i socialisti una “scatola elettorale” buona per ora e per sempre in Europa potrebbe essere proprio questo. Non basteranno certo le primarie aperte. Bisognerà anche mettere fine alle “guerre civili” che dividono i partiti di centrosinistra, aprire il dossier dell’innovazione nel modo di far politica, nell’era di Change.org e di Avaaz, integrare le politiche di governo con strumenti di mobilitazione e partecipazione, utilizzare strumenti e tecniche della democrazia deliberativa, perché si veda quanto la politica tiene all’opinione dei cittadini, specie se arrabbiati, e non solo dei suoi simpatizzanti. Non mancano eccellenti ricette per risorgere, ma vanno utilizzate, se non si vuole che la nave vada a fondo.

La Stampa 26.8.16
Salvatore Sciarrino
Indago il confine tra suono e silenzio
Il compositore lavora alla nuova opera “Ti vedo, ti sento, mi perdo “La musica è seduttiva come nessun’altra arte”
di Sandro Cappelletto


«Salvatore Sciarrino si vanta di essere nato libero e non in una scuola di musica». Così le prime righe del sito del compositore palermitano che a ottobre riceverà alla Biennale Musica di Venezia il Leone d’oro alla carriera. Lo scorso giugno al Teatro Comunale di Bologna è andata in scena una delle sue opere più riuscite,

Il sottotitolo recita: «In attesa di Stradella». Ma non è un omaggio al compositore barocco dalla vita melodrammatica, pugnalato da due sicari a Genova dopo troppe storie d’amore, d’amanti, di fughe e coltello. «No», dice secco Sciarrino. «Ho già consegnato il testo, ma lo asciugherò ancora, per renderlo più essenziale. Il tema dell’opera è il potere di seduzione della musica. La musica è seduttiva come nessun’altra arte. Lo era al tempo di Stradella, lo è ancora. Molti, ascoltando musica, non sanno trattenersi dal chiudere gli occhi: la dimensione visiva reale viene a disturbare la dimensione visiva suscitata dalla musica. Le sue immagini interiori, compiute e invisibili».
«Imitavo Burri»
Il maestro risiede da diversi anni nella quiete di Città di Castello. Lentamente, ora che è a un passo dai settanta, sta cedendo alla modernità: per comunicare non usa più il fax della cartoleria sotto casa, ha un cellulare con tanto di WhatsApp. L’immagine scelta per il profilo è quella di Gaspare, il Re Mago: anziano, con barba e capelli bianchi, lunghi, arricciati: «Particolare di un’adorazione vista a Berlino, così ben caratterizzato che sembra un ritratto».
L’arte visiva rimane una sua grande passione; quand’era ragazzo dipingeva: «La frequentazione con il contemporaneo è cominciata lì, prima ancora che con la musica: imitavo la pittura di Alberto Burri. Le passioni dell’infanzia poi si mitizzano, ma non potevo immaginare che gli sarei diventato amico, qui a Città di Castello dove lui era nato. Burri aveva una coscienza difensiva della propria arte. Per anni ha fatto la fame, poi quando ha potuto ha ricomprato i suoi stessi quadri, quelli che lo convincevano di meno, dagli amici a cui li aveva regalati».
Sciarrino ha passato il mese di luglio a Siena, insegnando composizione all’Accademia Chigiana: «Per 21 giorni. Di meno non è serio e a me non interessa. Il rapporto con i miei allievi continua negli anni». Goffredo Petrassi diceva: «Dai miei allievi ho imparato tantissimo». Lui concorda: «Insegnando ricevo stimoli enormi, mi trasformo. Si può insegnare solo se si è generosi». Lui insegna a cercare sé stessi e quella libertà che ha sempre rivendicato, a partire dalla Berceuse per orchestra del 1969, che stupì fino allo scandalo. Ma come, questo ragazzino si richiama a Chopin e al romanticismo, mentre in tutta Europa (solo in Europa, però) i compositori seri studiano la tecnica dodecafonica? Ed erano pronte le scomuniche, per chi sgarrava.
Sul tavolo dello studio, la nuova, recente traduzione italiana del Doctor Faustus. «Comporre è difficile», scriveva Thomas Mann, alla metà del secolo scorso. «È sempre stato difficile e lo sarà sempre», riflette Sciarrino. «Se la musica è un gioco, a me non interessa. Il compositore appartiene alla categoria degli esploratori: superare sé stessi, correre dei rischi, inventare, proiettarsi in altre dimensioni».
Il grado zero dell’ascolto
Lui ha trovato la sua dimensione indagando il confine tra suono e silenzio, tra azione e staticità. La musica di Sciarrino sta sulla soglia, possiede una propria ecologia, invita noi contemporanei, sommersi da tempeste di suoni e rumori subiti spesso involontariamente, a recuperare un grado zero dell’ascolto, da dove ripartire. Molti suoi lavori strumentali sfidano i suoni della natura: come se la stessimo ascoltando immobili nel silenzio di una notte, con le orecchie tese, con l’anima pronta a stupirsi: «Ho sempre voluto occuparmi della fisicità, della corporeità del suono».
«Poco succede, quasi niente nella sua musica», è scritto nella laudatio con cui nel 2006 è stato insignito del prestigioso Salzburger Musikpreis. Ma dal nulla si può schiudere l’infinito. Anche l’infinito delle nostre ossessioni, come accade in Infinito nero, ispirato da tre lettere di Torquato Tasso e attraversato da bisbigli, sussurri, fantasmi, visioni. Tasso impazzito, Borromini che si uccide a fil di spada, Gesualdo da Venosa, il principe assassino della moglie e dell’amante di lei: spesso Sciarrino prende ispirazione da personaggi «neri» del periodo barocco, che ama oltremisura - talvolta, in particolare nella vocalità, rischiando un certo barocco manierismo. Ma questo è il problema dei problemi della musica contemporanea: dopo il recitar cantando del ’600, dopo il belcanto, dopo il verismo, dopo l’espressionismo, dopo la sillabazione che frantuma la parola di tanti contemporanei, come scrivere per la voce comunicando con il pubblico ma senza apparire neo, post, ex? Come obbedendo alla strategica indicazione di Giuseppe Verdi - «Torniamo all’antico, sarà un progresso» - spesso Sciarrino si rivolge al passato, lo cita, lo trasforma. Lo ha fatto con Mozart, con Domenico Scarlatti, con Gesualdo, con le antiche canzoni da battello veneziane.
La lezione di Verdi
«Tutto quello che è diverso da me mi interessa. La tradizione è identità, è bagaglio. Non si impara dal niente. Mi misuro sempre con i classici, che non perdono mai la contemporaneità. Il moderno di per sé non mi interessa, dopo due mesi è già vecchio». Da Verdi ha imparato qualcosa? «Amo molto il suo aspetto irrazionale ed emozionale, così prorompente. Il grande insegnamento è la sua drammaturgia, in certi casi senz’altro pre-cinematografica: totale e dettagli, esterno e interno, ricchezza di immagini. Non si può dire di molti altri autori».
Da Verdi però Sciarrino, come la maggior parte degli artisti italiani contemporanei, non ha preso l’aspetto che una volta si diceva dell’impegno, della partecipazione civile: «È così. Bisogna esserne coscienti e anche prendersi una parte di colpa. La nostra civiltà europea ha perso parte della sua forza, è indubbio». E che cosa le rimane? «E se la sua vera nuova forza fosse la creatività, una rinnovata passione estetica da proporre al mondo contemporaneo? Oltre il culto ossessivo della tecnologia. Internet non porta alla comunicazione, ma all’isolamento: finiamo tutti col fare sempre le stesse cose. È una perdita del piacere vero della vita, in questo senso confermando una tendenza antica della nostra società, che rimuove il piacere non superficiale, lo censura».