Corriere 27.8.16
L’ultimo Nenni difese Craxi
Nel 1979 contestò le «accuse ingiuste» rivolte al leader del Psi dai suoi rivali
di Paolo Mieli
Tutti gli appunti di un politico protagonista del Dopoguerra
Esce
in libreria giovedì 1° settembre il volume Socialista libertario
giacobino. Diari (1973-1979) , che raccoglie gli appunti del leader
socialista Pietro Nenni (1891-1980) curati da Paolo Franchi e da Maria
Vittoria Tomassi (Marsilio, pagine 512, e 25). I diari di Nenni che
risalgono a periodi precedenti sono stati pubblicati negli anni Ottanta
in tre volumi, a cura della figlia Giuliana Nenni e di Domenico Zucaro,
dalla casa editrice SugarCo. Il primo volume, che copre il periodo
1943-1956, uscì nel 1981 con il titolo Tempo di guerra fredda e una
prefazione di Giuseppe Tamburrano. Il secondo, intitolato Gli anni del
centro-sinistra , include i diari scritti da Nenni tra il 1957 e il ’66:
venne pubblicato nell’82 sem-pre prefato da Tamburrano. Il terzo
riguarda gli anni dal 1967 al 1971: uscì nel 1983 con il titolo I conti
con la storia e una prefazione di Leo Valiani.
A
Capodanno del 1980, quando Pietro Nenni morì, un suo vecchio amico, Dino
Gentili, raccontò che pochi giorni prima l’anziano leader socialista
gli aveva confidato le sue perplessità circa la conduzione del Psi da
parte di Bettino Craxi, in quel momento sotto il fuoco concentrico dei
suoi compagni di partito (si salvò soltanto grazie alla defezione di
Gianni De Michelis dalla sinistra lombardiana e dal campo dei
cospiratori). Gentili raccontò che Nenni aveva lasciato un memoriale in
cui argomentava punto per punto le riserve sul suo delfino. La figlia di
Nenni, Giuliana, sostenne che tra le carte del padre non c’era traccia
di quello scritto e lasciò intendere che la rivelazione fosse parto
della fantasia di una persona ostile al segretario socialista. Adesso
che vengono pubblicati (da Marsilio) i diari di Nenni tra il 1973 e il
1979 — con il titolo Socialista libertario giacobino — si è portati a
dar ragione alla figlia dello statista, dal momento che in quelle pagine
non c’è traccia di qualcosa che assomigli neanche vagamente al
memoriale di cui aveva parlato Gentili. Anzi nell’ultima annotazione,
quella del 21 dicembre 1979, si parla di «accusa ingiusta» rivolta a
Craxi e si accusano i capi del Psi da Nenni incontrati in quei giorni —
da Riccardo Lombardi a Giacomo Mancini a Gaetano Arfè a Mario Zagari —
di essere «interessati prevalentemente alle beghe del partito più che
allo stato drammatico del Paese». Per poi aggiungere: «Purtroppo così fu
nel biennio rosso 1919-21 e in modo ancora più accentuato nel biennio
nero 1921-22». Parole che non sembrano appartenere ad una persona
intenzionata a condividere l’iniziativa per far fuori Craxi.
Certo,
si potrebbe insinuare che ai due curatori, Paolo Franchi e Maria
Vittoria Tomassi, quelle carte non siano state fatte vedere. Ma sarebbe
bizzarro, dal momento che in altre parti delle memorie sono state
rigorosamente conservate (e pubblicate) annotazioni critiche nei
confronti dello stesso Craxi. A partire da quella del 16 luglio 1976,
quando il leader socialista, a coronamento della manovra che spodestò
Francesco De Martino, fu eletto segretario del Psi. Quel giorno Nenni
scrive che avrebbe meritato maggior attenzione la «candidatura» di
Antonio Giolitti. Poi un’annotazione severa: «Craxi, per parte sua,
arriva dove voleva senza imbrogli, anche se non per la sola via che
conta, quella di un confronto politico di fondo… Infatti al Comitato
centrale non ha neppure parlato». Colpa del fatto che, scrive Nenni,
«attendere la propria ora non è più una virtù». Qui sì che Nenni prende
le distanze da lui, rilevando come fosse «il candidato in primo luogo di
Mancini, dei giovani della sinistra, di una parte dei demartiniani». I
giornali, aggiunge, «lo dicono mio delfino; lo è stato nel 1969, quando
io fui battuto in un Cc più drammatico di quello attuale, sulla
questione della unificazione… In questi ultimi tempi faceva parte a se
stesso». Però poi non gli farà mai mancare una nota di affetto. Ai tempi
del sequestro di Aldo Moro apprezzerà la sua scelta di sottrarsi
all’«isteria della ragion di Stato». E allorché nel luglio del 1979 il
presidente della Repubblica Sandro Pertini gli affiderà l’incarico di
formare il governo, lo paragonerà a Giulio Andreotti e scriverà: «Della
generazione che ci ha sostituito è per certo il meglio preparato…
Impossibile per me dargli l’appoggio che vorrei. Indirettamente gli
serve un motto che circola per tutto il Paese: Nenni ha seminato, Craxi
vendemmia. Così fosse!». «Ai numerosi apprezzamenti», rileva con
acutezza Paolo Franchi, «corrispondono quasi altrettanti rilievi
critici, spesso riferiti, i primi come i secondi, allo stile di comando
dell’uomo». In generale, però, Nenni, prosegue Franchi, «sostiene,
seppure con il distacco dettato dalla sua età e dal suo rango, il nuovo
segretario, assai più di quanto avesse fatto con i suoi predecessori».
Peraltro l’anziano leader si era da tempo allontanato dalla politica
attiva. Non senza una punta di amarezza.
E gli uomini politici
della generazione successiva alla sua? Nel febbraio del 1974 Nenni
prende nota dei primi passi di Ciriaco De Mita, che sarà il rivale
democristiano di Craxi. Lo fa in margine allo scandalo dei petroli e
all’attività di quelli che furono chiamati i «pretori d’assalto».
Riferisce che Giolitti ha sentito il «ministro De Mita» che diceva a
Mariano Rumor: «Questi pretori sono dei banditi». Nenni non è d’accordo:
«Sono semmai degli sprovveduti ma riflettono una volontà di pulizia
morale e di onestà amministrativa che finirà per prevalere se tutto non
dovrà essere sommerso e perduto di quanto fu creato trent’anni orsono». E
sul finanziamento pubblico dei partiti scrive: «Un orrore, direi
anch’io con Terracini». Simpatia per l’anziano comunista libertario
Umberto Terracini oltreché nei confronti del giovane ancor più
libertario Marco Pannella e delle sue campagne per divorzio e aborto.
Colpisce
la sua diffidenza nei confronti dei sindacati. Affronta il tema del
«carattere degenerativo e festaiolo della scioperomania». Un caso che
riguarda il personale della Rai-tv: «lo sciopero doveva essere di
quattro ore e si è risolto invece nell’abbandono del lavoro per tutta la
giornata e in un ponte supplementare di tre giorni. Tre giorni di
vacanza e non di lotta!». Ancora il 25 marzo del 1975: «Scioperi su
scioperi. Oggi sciopero generale del pubblico impiego, ferrovieri
compresi, direttamente rivolto contro il governo… nessuno sembra porsi
il quesito: e poi? Eppure bisogna porselo, visto che lo sciopero è un
mezzo, non il fine».
Resta in lui la delusione per le elezioni
presidenziali del 1971, quando gli è stato preferito Giovanni Leone. Ma
non nutre risentimento verso Leone, sul cui coinvolgimento nell’affare
Lockheed manifesterà più di un dubbio. Piuttosto, riferisce, «non fui
sostenuto quanto era necessario da Mancini, che era allora alla
segreteria del Partito e forse neanche da De Martino». A decidere per
Leone al Quirinale, scrive, «furono Saragat e La Malfa che gli portarono
i loro voti». Si giustificarono «con l’argomento fasullo che io finivo
per essere il candidato dei comunisti». Ma «in nessun caso io potevo
essere eletto». Un’assemblea «moderata come il Parlamento non poteva
fare di me, uomo della Settimana rossa, il capo dello Stato». Definisce
una «posizione coraggiosa» quella di Enrico Berlinguer sul compromesso
storico. Tiene però a precisare che «in verità si può governare con il
51 per cento dei voti; lo ha fatto e lo fa addirittura con il 47-48 per
cento la socialdemocrazia svedese, lo ha fatto la socialdemocrazia
tedesca». Critica i ritardi del Pci sulle società dell’Est e quando un
gruppo di intellettuali comunisti si pronuncia contro la repressione in
Cecoslovacchia, il suo commento è: «Alla buon’ora!» (13 gennaio 1977).
Ai tempi del referendum sul divorzio, tra il 1973 e il 1974, segue la
vicenda con grandi speranze attenuate da un qualche disincanto.
Riferisce di un incontro con il comunista Paolo Bufalini che vorrebbe
evitare il referendum ufficialmente per il timore di perderlo, in realtà
per non far morire sul nascere la politica del compromesso storico.
Apprezza, come si è detto, i radicali di Pannella. A referendum vinto
racconta delle congratulazioni ricevute dal laburista britannico Harold
Wilson e dal socialista francese François Mitterrand. Ma subito dopo,
colti i segnali provenienti dalla politica, conclude sconsolato: «Il
referendum? Due o tre giorni di entusiasmo, poi tutto finisce in
scetticismo e scoraggiamento».
Poi quando Pannella entrerà in
Parlamento, nel 1976, saluterà il suo come un «debutto clamoroso»,
prevedendo che saprà dimostrare «quanto può fare anche un piccolissimo
gruppo se sganciato dalla ipocrisia delle concessioni tra governo e
opposizione». Ma quando i seguaci di Pannella (assieme a qualche
socialista) si batteranno per estromettere dal Quirinale Leone, sarà tra
i pochi a vedere per tempo tutti i problemi dell’operazione: «Possibile
che i radicali non se ne rendano conto? Possibile che ci siano
socialisti accecati dalla demagogia al punto di non vedere a quale
rischio esporrebbero la Repubblica?».
È critico nei confronti
delle dichiarazioni comuni tra i segretari del Pci e del Psi. Come
quella di Berlinguer e De Martino dell’agosto 1975 sulla crisi
portoghese. «Se il giudizio di fondo dei due partiti è diverso non ha
senso firmare delle dichiarazioni comuni». Si dispiace quando Giorgio
Amendola scrive in un libro che sua figlia Vittoria, morta ad Auschwitz,
era comunista. Ma Amendola gli chiede scusa e aggiunge ironico: «Non
vorrei che tu vedessi anche in questo episodio una prova
dell’espansionismo comunista».
Lungimiranti le sue considerazioni
sull’Europa: «Gli inglesi restano con l’Europa», scrive il 7 giugno
1975; «nel referendum la percentuale del sì è stata del 68,9% una
vittoria superiore al previsto per gli europeisti e per Wilson che s’era
in definitiva unito ad essi. Una sconfitta per la sinistra laburista
assai pesante, che l’accomuna alla destra conservatrice non ancora
guarita dalle nostalgie imperiali. Un fatto importante per l’Europa e
per il mondo». E ancora: «L’Europa, mi ha detto Giolitti di ritorno da
Parigi, ci guarda con sarcasmo o addirittura con disprezzo. Nessuna
fiducia in noi e nella nostra capacità di ripresa, nel che forse c’è un
errore… Il giudizio di Giolitti è molto pessimista come del resto lo è
sempre stato dal 1964 in poi. Il guaio è che con il pessimismo non si
guida una nazione» (2 giugno 1974). Ce n’è anche per i partiti fratelli:
«Rimane un mistero che i socialdemocratici siano in declino proprio nei
Paesi più prosperi dell’Europa» (4 ottobre 1976).
Nei diari c’è
anche la Cina di Mao. Nell’agosto del 1973, la «Pravda» accusa Nenni di
«avvalersi persino del maoismo pur di attaccare l’Unione Sovietica».
«Sciocchezze», è la sua replica con due punti esclamativi. Ma quando nel
settembre del 1976 Mao morirà, lascerà sul suo diario parole di grande
ammirazione: «È stato uno degli uomini più grandi del secolo. È stato
qualcosa di più del capo della rivoluzione in Cina: l’interprete di un
popolo sospinto dalla sua stessa storia millenaria a segnare un’impronta
nei tempi presenti». Sorprendente la benevolenza del suo giudizio: «Per
Mao la rivoluzione culturale è stata il mezzo per liberare la
rivoluzione dalle incrostazioni burocratiche, militari, poliziesche che
la soffocavano. Ciò che è stato caratteristico in Mao è la fiducia
nell’uomo, è la prevalenza della politica sulla tecnica e sull’economia,
è la nozione dell’uomo. Liberare l’uomo per liberare l’umanità… Se
questo pensiero rimane alla guida della Cina, allora il dopo Mao non
intaccherà la sua opera gigantesca».
Le Brigate rosse all’inizio
provocano in lui un distacco tra l’ironico e il preoccupato. «Siamo tra
la banda Bonnot che riempì di sé le cronache criminali e politiche
francesi tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento», scrive il
6 giugno 1975, «e le bande che Stalin mandava all’assalto dei furgoni
che trasferivano da una banca all’altra l’oro dei feudatari russi». Poi,
il 19 gennaio del ’76, qualcosa cambia. In polemica con il Pci si
spinge a «comprendere» le Br: «Nei testi delle Brigate rosse è presente
un certo pathos romantico e rivoluzionario. Ma i comunisti trattano il
capo banda da provocatore senza peraltro addurre prove o sospetti
validi. Staremo a vedere. Io credo che non si possa negare la buona fede
a chi mette in gioco la propria pelle». In seguito però le pagine più
toccanti saranno quelle dedicate al sequestro e all’uccisione di Moro.
All’epoca Nenni ha 87 anni. Tra i suoi appunti, i ricordi di quando a
fine ’63 lui e Moro avevano costruito il centrosinistra («Solo nel 1964,
quando insorse il caso De Lorenzo, rischiammo una rottura»). E parole
di autentico affetto. Trattenuto sarà l’8 luglio il giudizio
sull’elezione di Pertini, pur salutata come un evento storico: «Con lui
la Resistenza entra al Quirinale».
È un uomo della prima metà del
Novecento. «Il poeta Montale», scrive in occasione del conferimento del
premio Nobel all’autore di Ossi di seppia , «l’ho letto con interesse
(il poeta Carducci lo leggevo con entusiasmo); l’uomo lo conosco appena
(per quanto egli sia collega a Palazzo Madama, si vede ancora meno di
me), ma la sua vita non ha le contraddizioni di quella di Carducci, e
neppure le passioni. È cioè un uomo prosaico come prosaica mi pare la
sua vena poetica». Si dice sconvolto al cospetto delle «oscenità
degradanti» di Ultimo tango a Parigi di Bernardo Bertolucci. Nello
stesso anno, 1973, va a vedere La grande abbuffata di Marco Ferreri:
«Tutto è volgare», scrive, «soprattutto l’abuso del nudo femminile… Sono
contro la censura, ma siamo noi gli spettatori che dovremmo boicottare
pellicole del genere, nelle quali è assente ogni valore artistico».
Aggiunge che anche la figlia Giuliana «era fuori di sé per
l’indignazione». Quando muore Anna Magnani, la contrappone alle attrici
dei primi anni Settanta: «era di una stoffa diversa dalle star, dalle
dive, dalle spogliarelliste». C’è in lui una sorta di innocente e
fanciullesco autocompiacimento. Gli piace moltissimo Alighiero Noschese:
«Mi ha imitato come non si poteva meglio. Nelle battute si sentiva
molta simpatia per me… Più perfido nelle imitazioni di Preti e La
Malfa». Nel novembre del ’74, quando la tv manda in onda il De Gasperi
di Ermanno Olmi, protesta: «Io non ci sono… compaio a lato del
protagonista in un corridoio del Laterano». Stesso rilievo al film di
Roberto Rossellini Anno Uno .
Nel 1980 Nenni morì. Trascorsero
dodici anni e (quasi) scomparve anche il Psi. Nell’uragano che travolse
il Partito socialista da qualche parte si tentò di coinvolgere la figura
di Nenni. Tant’è che nella fase più infuocata di Mani pulite, ricorda
Franchi con fine ironia, non mancò chi propose di cambiar nome alla
piazza principale della sua Faenza. Piazza che, osserva Franchi,
fortunatamente gli è tuttora dedicata.