sabato 27 agosto 2016

Il Sole 27.8.16
Se anche la Fed diventa keynesiana
Constatati i limiti della politica monetaria per rivitalizzare l’economia, i banchieri centrali auspicano ora la crescita della spesa pubblica
Resta in auge lo strumento quantitative easing, s’appanna quello dei tassi d’interesse negativi
di Walter Riolfi


Siamo seri: ma come si può pensare che un rialzo di 25 miseri centesimi nel tasso Fed possa cambiare il mondo? Se a dicembre la banca centrale americana portasse il suo tasso di riferimento (medio) allo 0,625 (oggi è allo 0,375), la politica monetaria resterebbe ancora ultra espansiva: con un pil che cresce attorno al 2%, l’inflazione (core) al 2,3% e il paradosso di rendimenti di lungo periodo all’1,5%. I mercati, a sentire gli operatori nei giorni scorsi, sarebbero in preda alla costernazione, perché una Fed definita «falco», ossia aggressiva, cattiva (ma per chi?), creerebbe danni a un’economia che stenta a risvegliarsi da un letargo che dura da troppi anni.
In realtà provocherebbe danni solo ai mercati: a quella parte che per speculazione ha spinto talmente in alto i prezzi delle obbligazioni (dunque all’estremo ribasso i rendimenti) da causare enormi guai ai risparmiatori, ai fondi pensione, ai conti economici delle banche e delle assicurazioni e, in ultima, pure a tutti quelli che sono costretti a comprarsi un titolo a rendimenti negativi da consegnare come collaterale nelle operazioni di prestito e di protezione sulle valute. Forse creerebbe qualche momentaneo danno anche a Wall Street, perché l’insania di misurare la convenienza di un’azione in rapporto ai rendimenti obbligazionari ha spinto troppo in alto i listini di borsa.
In realtà qualche danno collaterale dovrebbe vedersi anche altrove: soprattutto nei debiti contratti in dollari dalle imprese dei Paesi emergenti, le cui valute soffrirebbero ancor più nei confronti di quella americana. Si può osservare che l’eccessiva euforia nei mercati del credito sia stata in passato alimentata proprio dalla politica della Fed. E s’è visto come i mercati abbiano agitato e suscitato ad arte quei timori nel tentativo, sempre riuscito, di condizionare la Fed. Sicché l’exit strategy, ovvero l’uscita da una politica monetaria di emergenza, s’è rivelata quasi impossibile.
Di tutto questo sarebbe sciocco incolpare i mercati che per natura badano solo al proprio interesse. L’anomalia sta semmai nel soggiacere al ricatto dei mercati, come ha fatto spesso la Fed, perché un rialzo dei tassi ventilato da almeno tre anni non s’è mai potuto fare: una volta perché crollavano le borse e le valute emergenti, un’altra perché pareva aggravarsi la crisi cinese, altre ancora perché stava rallentando l’economia americana o perché calava troppo Wall Street, o per i rischi della Brexit o perché, adesso, Donald Trump non può vincere le elezioni.
Ma dopo 7 anni di sperimentazione nelle più estreme, non convenzionali politiche monetarie, specie in Giappone e in eurozona, i banchieri centrali hanno maturato la consapevolezza che i soli strumenti monetari non possono risollevare le sorti di economie che non vogliono ripartire. Se una banca presta poco denaro o se qualcuno non può o non vuole indebitarsi nemmeno con un costo del denaro vicino allo zero, la politica monetaria dei tassi negativi finisce per creare più danni che vantaggi: nei prestatori, tra i risparmiatori e forse anche nella psicologia dei consumatori e degli imprenditori. Per queste ragioni si spiega l’enfasi posta da sempre più banchieri centrali sulla necessità di politiche fiscali che spettano, invece, ai governi: le sole, come hanno affermato nei giorni scorsi alcuni membri della Fed e come va da anni ripetendo Mario Draghi, capaci di stimolare gli investimenti e la crescita economica.
Va da sè che politiche fiscali espansive significhino anche crescita dei debiti pubblici, che sono mediamente a livelli record. È paradossale che banchieri centrali e mercati, che negli passati hanno semmai messo in guardia dall’esplosione del debito pubblico, si stiano adesso trasformando in fautori della spesa pubblica. In questo rifiorire di teorie keynesiane, starebbe maturando una irrituale alleanza tra governi che spendono e banche centrali disposte a monetizzare quei debiti attraverso il quantitative easing: che resterebbe lo strumento monetario preferito, come par di capire dalle parole della stessa Yellen. In ogni caso, uno strumento meno pericoloso dei tassi negativi.