Corriere 26.8.16
Convivere con l’imponderabile solo grazie alla speranza
di Emanuele Trevi
Non
c’è cosa più dolorosa del conto delle vittime, quel numero che continua
a salire ogni volta che ci colleghiamo a Internet, sperando follemente
che i giochi siano fatti, che l’irreparabile si sia almeno solidificato
in una cifra. E invece, come se fossero costretti a passare nel foro di
una spietata clessidra, di ora in ora coloro che definiamo «dispersi» si
aggiungono, uno dopo l’altro, alle vittime acclarate che li aspettano.
Come se questa parola — «disperso» — che di per sé non ha nulla di
rassicurante, la usassimo come un ultimo, fragilissimo velo, pronto a
lacerarsi da un momento all’altro.
I terremoti hanno una lunga
storia, scandita da date fatali e nomi di città distrutte e numeri di
vittime. Ma dal punto di vista umano, dei riflessi emotivi e psicologici
che l’evento suscita in noi, sembra al contrario che sia sempre lo
stesso, interminabile terremoto a ricordare all’uomo di non fidarsi
troppo della vita, e che quella che consideriamo la nostra terra, dove
costruiamo case e ponti, campanili e ospedali, dovremmo considerarla
come la groppa di un animale che a volte, chissà perché, si scrolla di
dosso qualche centinaio o migliaio di esseri umani, senza nemmeno
accorgersene, senza il minimo sentimento di ostilità.
Dicevo che
sembra di assistere allo stesso eterno terremoto perché quello che
scriveva Voltaire a proposito del disastro che rase al suolo Lisbona nel
1755 potrebbe applicarsi parola per parola a quanto vediamo accadere
sotto i nostri occhi in questi giorni sull’Appennino laziale. Oggi forse
è meno scandaloso che ai tempi di Voltaire affermare che nella nostra
esistenza è presente e agisce il Male, e che nessun sistema filosofico o
religioso, per quanti sforzi faccia, può sinceramente affermare che
viviamo nel migliore dei mondi possibili.
Lo sappiamo tutti che
non è vero, che questo è solo il mondo che ci è toccato in sorte, e
nemmeno pensare che poteva andarci peggio è una grande consolazione, in
fin dei conti. La realtà è che l’uomo, tra le tante cose che lo rendono
diverso da ogni altro figlio della Natura, è anche quell’animale che ha
coscienza di fare affidamento sull’inaffidabile. Una logica troppo
ferrea lo avrebbe altrimenti condannato all’estinzione prima ancora che
fosse capace di costruire una città. Ma in noi si realizza la più strana
delle sintesi: quella della logica e della speranza. «Speranza» è
proprio l’ultima parola del poema di Voltaire su Lisbona, ed è un
attributo così umano, dice il grande poeta, che nemmeno Dio lo possiede.
Ogni aspetto della nostra vita, minimo o grandioso che sia, ne è
talmente impregnato che in sua assenza non potremmo nemmeno concepire la
realtà, perché non avremmo nessun interesse a intraprendere alcunché
nella certezza assoluta del disastro. Ed è molto triste constatare come
non facciamo quasi nulla per rafforzare questo sottile filo d’oro della
speranza, nel quale consiste tutta la nostra nobiltà. Tutte le grandi
menti dell’epoca meditarono sul disastro di Lisbona, e ci stupisce
ancora, sfogliando quegli scritti, verificare come ben poco è cambiato
nella nostra maniera di pensare dal 1755 a oggi. Rousseau, il grande
avversario di Voltaire, esprime esattamente la stessa giusta opinione
dei nostri geologi e dei nostri sismologi osservando che se Lisbona
fosse stata costruita meglio, migliaia di persone non avrebbero trovato
la morte sotto le macerie.
Mi commuove più questo semplicissimo
pensiero di un’intera biblioteca di testi filosofici e teologici. Perché
la forza dell’imponderabile è tale, che ogni accorgimento umano può
sembrare un castello di sabbia di fronte alle onde. Ma su questo non
possiamo dire o fare nulla. A sperare un po’ meglio, invece, possiamo
imparare .