domenica 17 luglio 2016

Repubblica Cult 17.7.16
Edoardo Bisiach
“Oliver Sacks mi ha copiato ma almeno lo ha fatto bene”
Gli studi in Urss, le scoperte sulle lesioni. il riconoscimento internazionale
I ricordi di un grande neuroscienziato che ha smesso di esserlo
colloquio con Antonio Gnoli

Mentre mescola due tipi di insalata, Edoardo Bisiach mi chiede se desidero l’aceto. Penso che la vita somigli a questo gesto quieto e naturale: fatto di tradizione, semplicità, libera scelta. Vale per una pietanza rapida e umile come quella che mi è offerta, ma altresì si suppone debba richiamare ogni nostra decisione. Eppure non è così semplice. Il cervello non sempre si esprime come vorremmo. Edoardo Bisiach è tra i grandi neuroscienziati che l’Italia può vantare. Da alcuni anni non esercita quel magistero che lo ha visto primeggiare in molte università e centri di ricerca internazionali. Sono giunto a lui per quelle strane combinazioni che a volte l’esistenza riserva. Sapevo di un curioso esperimento che interessa alcuni pazienti affetti da deficit spaziale. Messi di fronte a uno spazio a loro noto, poniamo una piazza, o l’ambiente di una stanza, e chiesto di descriverlo, si ottiene un risultato sorprendente. Questi pazienti sono in grado di rappresentare soltanto una metà di quello spazio. Convinti che l’altra metà non esista.
A proposito di spazi e di luoghi Bisiach vive in una casa squadrata e molto razionale. I contrafforti in cemento sovrastano e delimitano quest’isola che sembra affiorare da un bosco, a pochi chilometri da Mozzate, sul confine tra la Brianza e il Comasco. Guardo quest’uomo dall’aria gentile che scruta un cespuglio di rigorose ortensie e si lamenta della decimazione dei castagni: «Una malattia li sta lentamente e inesorabilmente devastando. Non c’è verso di curarli. Abbiamo molti punti di contatto con le piante», commenta come se dicesse la verità più triste che un uomo possa rivelare.
Le piante hanno un cervello?
«Non lo so, ma tenderei ad escluderlo. Non dimentichi che in passato sono stato uno scienziato».
Quando ha smesso di esserlo?
«Una quindicina di anni fa. Fu una decisione netta. Arriva sempre un momento in cui dire basta. Non tutti lo avvertono. Non tutti sentono quel richiamo. A me è accaduto».
Non c’è rimpianto?
«No, a volte vengono degli ex allievi a ricordarmi che ho avuto un’altra vita. Provo come un senso di disagio. Ma anche di riconoscenza. Per quello che sono stato. So che quella parte della mia esistenza dedita alla ricerca scientifica è stata magnifica. Ma so anche che si vive una volta sola. Non sono adatto a una vita monotematica. Ci sono molte cose da esplorare oltre la scienza. Le confesso un certo timore. Si arriva a un’età in cui l’affaticamento mentale pesa sulle decisioni. Allora meglio tacere che essere commiserati. Quello che faccio attualmente è interessarmi di botanica, di estetica del paesaggio e, in qualche modo, di musica».
Attività molto nobili.
«Lo sono, certamente. Ma non che la scienza lo fosse meno».
Della musica cosa l’attrae?
«È un universo che sembra unire il cielo sopra di noi e la nostra parte più segreta. Mio padre era liutaio. Prima a Milano, con il fratello, poi si trasferì a Varese. Furono gli ultimi di una breve dinastia familiare che dal nonno passò ai quattro figli maschi e poi si interruppe. La liuteria decadde e restò solo una certa pratica musicale. In casa si suonava. Fui spinto a imparare il flauto e poi la chitarra. Delusi i miei e mi limitai all’ascolto. Credo che tutti possano ascoltare musica, ma pochi sono destinati a crearla».
A quel punto?
«La sola cosa che mi venne in mente era viaggiare. Pensavo al Canada come possibile meta. Ho sempre amato la natura. La caccia e la pesca. Mio padre disse che tutto era molto romantico, ma che una professione richiedeva un certo realismo. Decisi per la medicina. In fondo la cura per l’uomo non era così distante da quegli ideali che andavo vagheggiando».
Come è finito a occuparsi del cervello?
«Ho cominciato con la neurologia clinica. Era abbastanza deprimente. Poi ho intrapreso le ricerche sui riflessi condizionati. Grazie a un bando per una borsa di studio in Unione Sovietica andai a lavorare con un allievo di Pavlov. Fu in quel mio primo viaggio che decisi di far visita a Aleksandr Lurija».
Dove?
«A Mosca, nel laboratorio di neuropsicologia del Burdenko. Vidi un uomo ancora bello, dai tratti fini, dotato di un autoritarismo bonario, chiedermi perché mi interessavo a Pavlov. Al momento non compresi quanto quella domanda nascondesse un piccolo dramma».
Quale?
«La vita di uno scienziato in Urss non era libera. Poteva godere di taluni privilegi rispetto al resto della società, ma non era consigliabile deviare dalla dottrina ufficiale. Negli anni Venti Lurija si era occupato di psicoanalisi, entrando in corrispondenza con Freud. Fu anche allievo di Vygoskij, il grande studioso del linguaggio. Il che conferiva al suo status di studioso una indiscutibile caratura internazionale».
Questo non impedì che avesse delle noie con il regime.
«Diciamo che le sue teorie sulle funzioni cerebrali — che muovevano da disfunzioni di pazienti afasici, o con altri disturbi superiori — furono per lungo tempo invise alle autorità. Anche le sue considerazioni, ereditate dagli studi di Vygotskij, circa la relativa perdita del linguaggio per danni cerebrali, furono accolte con evidente sospetto dalle autorità accademiche. Nel 1934 le teorie di Vygotskij furono esemplarmente condannate come teorie borghesi».
C’era lo zampino di Stalin.
«Altro che zampino. C’era tutta la potenza di un orso siberiano. Ad ogni modo anche le vicende familiari, l’arresto della sorella di Lurija, finita in un gulag insieme al marito, e il conformismo ferreo dell’ufficialità scientifica, suggerirono una certa cautela. Il che non gli impedì di dirmi che avrei perso tempo a occuparmi di Pavlov e che sarebbe stato più utile se mi fossi liberato da un certo determinismo unilaterale».
Che anno era?
«Arrivai a Mosca nel 1963 e ripartii nell’autunno del 1964. Ci fu tra l’altro il passaggio da Krusciov a Breznev. Tutto il regime sovietico di colpo arretrò».
Com’era la vita quotidiana?
«Mattina e pomeriggio ero occupato all’Istituto di neurochirurgia. Il resto del tempo lo passavo alla casa dello studente. La sera mi capitava di andare spesso al conservatorio o in altri teatri musicali. Ho avuto il privilegio di ascoltare Oistrakh, Richter, Rostropovich. Erano le poche consolazioni in un periodo in cui gli scambi con gli altri studenti erano molto difficili. Imparai il russo più sui libri che attraverso le conversazioni».
Le è servita la lingua? «È una bellissima lingua. A me è stata utile, tra l’altro, per tradurre un lavoro di Lurija».
Lurija è morto nel 1977. Un referente occidentale fu Oliver Sacks.
«Non credo fossero amici. Certamente Sacks ha attinto alla grande esperienza di Lurija che durante la guerra era a capo di un ospedale negli Urali e poté visitare centinaia di soldati con delle lesioni al cervello provocate da schegge di granate o proiettili. Fu questo uno dei repertori tragici che consentì a Lurija di progredire nelle sue ricerche».
Ho letto che Sacks gli inviava periodicamente dei romanzi
polizieschi.
«Non mi sorprende, una qualche conferma deve esserci nella sua autobiografia».
Lei ha conosciuto Sacks?
«Parlai con lui una sola volta per telefono, volevo invitarlo a un convegno sulla coscienza che stavo preparando. Rifiutò, scusandosi, per altri impegni».
Sapeva chi lei fosse?
«Beh, credo che conoscesse i miei lavori pubblicati in lingua inglese su riviste di neuroscienze molto accreditate. Per questo fui sorpreso quando leggendo uno dei suoi libri di successo — mi pare fosse L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello — vidi che si riferiva a dei casi che io avevo studiato e descritto ampiamente».
Mi scusi, lei è internazionalmente famoso per aver analizzato e accertato la “sindrome neglect”, una patologia, per dirla alla buona, che cancella metà del mondo.
«Chi è affetto da negligenza spaziale unilaterale perde l’attenzione verso gli stimoli e le immagini provenienti dall’emisfero cerebrale opposto a quello lesionato».
Non vede la metà dello spazio che osserva o immagina?
«Non è un problema di vista, ma di sparizione di una zona dello spazio. Feci descrivere a memoria a un paziente affetto da “neglect” la Piazza del Duomo di Milano. Gli suggerii di immaginare un punto dove collocarsi e da lì descrivere ciò che vedeva con l’occhio della mente. Il risultato fu una ricostruzione dettagliatissima della parte destra della piazza, mentre quella sinistra era come cancellata. Feci ripetere l’esperimento proponendogli di collocarsi nel punto opposto. Ovviamente sparì quella che era la parte sinistra della piazza».
Al di là della patologia che cosa si prefiggeva?
«Il mio intento era di provare ad aiutare un soggetto con lesioni cerebrali — di solito nell’emisfero di destra — a recuperare qualcosa che era stato perduto. E non era un problema di vista ma di rappresentazione mentale. Su questo punto ebbi con Daniel Dennett una lunga discussione».
E Sacks?
«Mi giunsero delle lettere indignate di colleghi in cui si diceva che erano state usate queste storie di “neglect” senza alcun riferimento alla fonte che le aveva prodotte».
Sta parlando di plagio?
«Come chiamerebbe tutto questo? In fondo però Oliver Sacks, più che un grande neurologo, è stato un virtuoso del racconto. Riuscì a impressionare perfino Peter Brook che adattò per il teatro una parte de L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello».
Immagino la parte che la riguardava.
«Sì, proprio quella. Brook seppe che ero io l’autore di quegli esperimenti e mi chiese a raggiungerlo a Cambridge, c’era con me anche Antony Marcel, grande neuroscienziato. Brook voleva che gli spiegassimo anche tecnicamente il mondo della rappresentazione mentale e della sua sparizione. Poi, ci invitò a Londra per vedere lo spettacolo».
Verso Sacks come ha reagito?
«Dopo un iniziale malumore ci ho riso sopra. Era l’ingenuità disarmante di un uomo che comunque aveva saputo creare un’empatia speciale con i suoi pazienti e i suoi lettori. Oltretutto, Sacks era anche amico di Marcel, a che scopo sollevare un caso che sarebbe stato sgradevole per tutti?» Non è facile comportarsi con tanto stile.
«A mio disdoro posso dire che una ventina di anni fa la Bbc mi propose un incontro con Sacks a Londra e io reagii malamente. Risposi che non mi andava di mescolare scienza e letteratura. Fu un atteggiamento troppo rivendicativo. Ma nessuno è perfetto».
Ammetterà che nel lavoro da lei svolto sul tema della “sparizione” si aprono suggestioni letterarie.
«Non c’è dubbio. Le neuroscienze sono un territorio in larga parte ancora inesplorato e ricco di risvolti sorprendenti. Chi tra i primi diede il nome a una malattia che il paziente è convinto di non avere fu Joseph Babinski che ai primi del Novecento coniò il termine “anosognosia”, ossia l’incapacità del paziente di riconoscere e riferire di avere un deficit neurologico. Babinski aveva un fratello, Henri, di professione ingegnere minerario. Erano molto mondani. Scapoli, vivevano assieme e a quanto pare Henri coltivava una grande passione per la cucina».
Tutto questo che c’entra?
«Non c’entra niente ma, forse, proprio per questo c’entra molto. Babinski scrisse un libro di ricette e lo firmò Ali-Bab. Sono anch’io un appassionato di cucina e cercai a lungo quel libro: Gastronomie pratique. Qualche anno fa, per caso, lo trovai in un polveroso negozio di libri vecchi. Per un appassionato di salse come me, quel libro fu una vera rivelazione».
Continuo a non capire.
«Non vede il disegno involontario che si forma? Esercitiamo il nostro sapere e le nostre competenze in più direzioni. E ogni volta è come se si aprisse una stagione nuova. Un nuovo desiderio. Ci vorrebbe davvero un altro Oliver Sacks per raccontare la storia di questi due fratelli. Joseph fu allievo di Charcot ed ebbe a sua volta come allievo internista André Breton. Qualcosa del suo surrealismo trova una spiegazione paraletteraria nelle ricerche di Babinski. Henri, oltre che ingegnere, fu un cercatore d’oro. Cosa c’è di più affascinante di un uomo che trasforma le sue competenze minerarie in una specie di sogno? Dove viaggiò approfondì l’arte della gastronomia e finì col farne il suo interesse primario».
In fondo nessuno sa bene cosa diventerà?
«È il bello, o il brutto della vita: Henri morì nel 1931. L’anno dopo toccò a Joseph. Se ne andò a causa di una malattia degenerativa, come il padre. Si è fatto tardi per il suo treno. Ma prima che riparta, preparerò per lei qualcosa da mangiare».