domenica 17 luglio 2016

Repubblica Cult 17.7.16
I tabù del mondo
Come liberarsi dall’eterna paura di perdere Eva
Per secoli l’immaginario maschilista è stato dominato dall’idea della verginità della donna. Per Freud in realtà si tratta di un atteggiamento nato dal timore del mistero racchiuso nella femminilità e dall’ansia di possesso. Ma si tratta di un’illusione, perché è solo l’amore a rendere illibato il corpo di chi ama
Il geloso vorrebbe possedere la storia, la memoria tutta la vita dell’oggetto amato Essere stato il primo significa essere stato e restare l’unico , cercare di non essere lasciato
di Massimo Recalcati

Il tabù della verginità è stato un tabù fondamentale dell’ideologia patriarcale. Il corpo della donna doveva preservare la sua integrità fisica a dimostrazione della sua assoluta appartenenza all’uomo al quale si era consegnata. L’illibatezza del corpo coincideva con la sua più totale devozione. In uno scritto dedicato al Il tabù della verginità contenuto in Contributi alla psicologia della vita amorosa (1917), Freud avanza l’ipotesi che dietro ogni tabù, ivi compreso quello della verginità, vi sia l’avvertimento di un intenso pericolo. Quale pericolo in questo caso? Non tanto quello – come sembra per un verso credere lo stesso Freud – di una ritorsione femminile di fronte al maschio usurpatore che le sottrae l’illibatezza, ma quello, come scrive lo stesso Freud, di “un timore aprioristico” degli uomini nei confronti delle donne “basato sul fatto che la donna è diversa dall’uomo, eternamente incomprensibile e misteriosa, strana e perciò apparentemente ostile”. Non è un caso che l’ideologia patriarcale mentre afferma e sostiene il tabù della verginità che trova nella figura di Maria, la madre di Gesù, la sua figura più paradigmatica, non può che individuare in Eva, la peccatrice, matrice delle future streghe, il carattere inassimilabile della femminilità. Questa opposizione tra Maria la vergine e Eva la peccatrice finisce in realtà per ricalcare quella tra la madre come destino ineluttabile e edificante della femminilità e una femminilità irriducibile alla maternità che si configura come scabrosa, tentatrice, destabilizzante e oscena. In realtà il culto della vergine nasconde l’angoscia maschile o, meglio, maschilista, verso la libertà della donna. L’artificio della preservazione dell’imene doveva servire allo scopo di arginare, limitare, confinare il carattere anarchico e infinito del godimento femminile come vero oggetto della angoscia maschile.
Il tabù della verginità ha nutrito per secoli l’immaginario maschilista che impone di esorcizzare attraverso l’illibatezza del corpo della donna questo carattere indomabile della femminilità. Non a caso Freud ha spesso fatto notare che nei nevrotici l’incontro col sesso femminile può frequentemente suscitare una profonda angoscia. Non solo perché vengono confrontati con la loro origine più lontana e inaccessibile – il corpo della madre –, ma soprattutto perché nel sesso femminile fanno esperienza di quella Legge della castrazione dalla quale vorrebbero fuggire. Il disgusto nei confronti dell’organo sessuale femminile mirerebbe a rifiutare la castrazione che lo concerne per mantenere in vita una immagine ideale della madre staccata da quella (angosciante) della donna. Per questa ragione la gelosia maschile, come mostrano, insieme a Freud, anche Proust nella Recherche e Nanni Moretti in diversi suoi film, non è mai solo legata al presente e al futuro della vita sessuale della propria partner, ma coinvolge tutto il suo passato. Il geloso, infatti, vorrebbe possedere il tempo, la storia, la memoria, tutta la vita dell’oggetto amato. La tutela dell’imene dovrebbe assicurare questo possesso tanto assoluto quanto impossibile: essere stato il primo significa essere stato e restare l’unico, significa controllare la possibilità del confronto e della perdita, o, come direbbe Freud, mantenere l’amata in uno stato di “soggezione”. Di qui l’idealizzazione nevrotica della vergine il cui passato illibato deve riflettere il fantasma di un possesso assoluto che non implica rivalità con nessun altro uomo poiché, appunto, quel corpo non ne ha mai conosciuto altri prima. Ingenuità solo maschile che si riflette nel mito storico della cintura di castità: impedire con il sequestro materiale del suo sesso che la propria donna possa godere di altri organi sessuali. L’illusione ottica di questo schema è evidente e, per certi versi, risibile: l’immaginario maschilista vorrebbe poter misurare la fedeltà o l’infedeltà solo nella considerazione del comportamento degli organi genitali e non da quello, assai più pregnante, del desiderio e dei suoi fantasmi. È, infatti, l’amore e non la cintura di castità che può rendere davvero il corpo dell’amata o dell’amato sempre vergine, ovvero unico, nuovo e insostituibile. La verginità è una condizione necessaria dell’amore a patto però che non la si confonda con un semplice dato anatomico (la presenza o meno dell’imene). Essa non è la garanzia della mansuetudine e della dipendenza della donna (come vorrebbe invece il fantasma maschilista), ma l’offerta piena dell’inizio, della possibilità del cominciamento, dell’apertura senza riserve, del dono di sé. In questo senso ogni impresa umana – nell’amore come nel lavoro – esige che vi sia sempre una quota di verginità capace di non venire meno nonostante tutti i cosiddetti insegnamenti dell’esperienza. È la verginità del cuore che ci difende dal cinismo, dal calcolo biecamente utilitaristico, dalla rassegnazione e dall’abbrutimento della ripetizione senza desiderio perché ci consente di guardare il mondo sempre come un evento nuovo. La verginità non definisce infatti il corpo incontaminato dal sesso, ma la possibilità di rinnovare sempre il nostro rapporto con le cose e le persone. In questo senso il corpo di chi ama – il corpo glorioso dell’amante –, se ama davvero, è sempre assolutamente vergine; è sempre disposto a donarsi assolutamente all’assoluta libertà dell’Altro.