Repubblica Cult 17.7.16
Il coraggio di dire “No” si può imparare
di Franco Marcoaldi
Ne
ha cantato le lodi, al suo specialissimo modo, Emily Dickinson: «”No” è
la parola più selvaggia» del vocabolario. E prima di lei c’era stato
l’elogio di un diniego fermo e cortese nel Bartleby di Melville ( I
would prefer not to). In tempi a noi più vicini, altri poeti e scrittori
– da Octavio Paz a George Steiner – hanno ripreso quella bandiera di
dissenso e rifiuto per contrastare l’accettazione supina della realtà,
anche a fronte di situazioni intollerabili, umilianti.
Adesso è la
volta di uno studioso italiano, Enrico Donaggio, che nel suo Direi di
no (Feltrinelli), declina il vocabolo in termini soprattutto politici –
come si evince dal sottotitolo: «Desideri di migliori libertà». A
guardarsi intorno, in effetti, non parrebbe di vivere nel migliore dei
mondi possibili, eppure trionfa Tina, “acronimo gentile e un po’
vezzoso” che sta per There is no alternative. È pur vero che le
alternative al sistema capitalistico hanno dato immancabilmente esiti
catastrofici. E Donaggio è uomo troppo smagato per fare ricorso a parole
d’ordine desuete. Ma non s’arrende al fatalismo e cerca le possibili
modalità in cui “la passione critica” dell’individuo si incrocia con
quella altrui, per creare “nuovi luoghi comuni di umanità”. Solo che è
tutto maledettamente difficile. Oggi, chi esprime un no consapevole e
fiero al sopruso, sa bene che i suoi compagni di viaggio sono spesso
degli sconosciuti. Perciò torna buona una lettera di Italo Calvino
(citata in un recente libro di Carlo Ossola) inviata a Michele Rago nel
1957: «È un appello alle tue forze individuali che voglio continuare a
fare, a trovare il tuo centro di gravità in te stesso: e poi tutto sarà
più facile. Credo molto nell’individuo, proprio perché mi preoccupo
della storia collettiva». Forse da questo doppio sguardo si potrebbe
ripartire. Per dire no con convinzione, quando le cose non vanno.