Repubblica 9.7.16
Il pianeta dei Referendum
di Michele Ainis
LA nuova democrazia s’impernia su uno strumento antico: il referendum.
Sarà
l’effetto della crisi delle assemblee parlamentari, in Italia come nel
resto del pianeta. Sarà il ritiro della delega, quel moto di sfiducia
che sommerge i partiti al pari di ogni altra istituzione pubblica e
privata. Sarà forse il desiderio di ripetere in politica l’esperienza
orizzontale che ciascuno vive in Rete, senza ordini dall’alto, senza
capiufficio. Ma sta di fatto che il referendum attraversa la sua
stagione più feconda.
In tutto il mondo, fino al 1900, ne vennero
celebrati appena 71; dal 1901 al 1993, secondo i calcoli di Butler e
Ranney, il totale schizza a 728 referendum; nell’ultimo quarto di secolo
ne abbiamo perso il conto, neanche Archimede riuscirebbe più a
sommarli. Per dirne una, nel 2014 — durante le elezioni di midterm — gli
americani hanno votato per 146 referendum indetti in 42 Stati.
Sennonché
il referendum è una bestia indomita, ribelle. E i suoi successi sono
lastricati da decessi. Come sa bene Cameron, dopo la consultazione
popolare sulla Brexit, che ne ha decretato — politicamente — i funerali.
Come forse in ottobre scoprirà Matteo Renzi, o forse i suoi avversari. È
la legge non scritta dei referendum: quando esplodono, qualcuno si fa
male. Tuttavia è impossibile addomesticarne il risultato, smorzarli,
indirizzarli. In primo luogo, perché ogni tornata referendaria si carica
di valenze ulteriori rispetto al quesito sottoposto agli elettori.
Dovremmo ricordarcene soprattutto noi italiani: nel 1991 demolimmo la
prima Repubblica con il referendum sulla preferenza unica, ovvero su un
dettaglio della legge elettorale. In secondo luogo, il voto referendario
sprigiona un’energia che a sua volta rompe gli argini giuridici,
scavalca i binari del diritto: il referendum non soggiace a regole, le
crea.
A tale riguardo, la vicenda inglese suona quantomai
eloquente. Il referendum sulla Brexit è stato convocato sulla base d’una
legge ( European Union Referendum Act 2015), che gli attribuì un valore
puramente consultivo. In punta di diritto, quindi, il Parlamento di
Londra potrebbe disattenderlo, infischiandosene del responso popolare.
Ma non può, sarebbe una ferita alla democrazia; e infatti nelle
cancellerie europee nessuno ne ha mai dubitato. Da qui un doppio
paradosso. Che il Parlamento inglese sia costretto a ratificare Brexit,
pur non avendone l’obbligo giuridico, e anzi pur essendo in maggioranza
favorevole al Remain.
Che l’Europa rischi un suicidio per via
referendaria, pur non contemplando questo strumento di democrazia
diretta nel proprio arsenale normativo. Bastano, difatti, i referendum
nazionali: come nel Regno Unito adesso, come in Olanda e in Francia nel
2005, quando un doppio niet gettò la Costituzione europea nel cestino
dei rifiuti.
E l’Italia? Attenzione, anche alle nostre latitudini
c’è vento per gonfiare il paradosso. Dice: ma qui da noi la disavventura
inglese non potrebbe replicarsi, giacché la Costituzione (articolo 75)
vieta i referendum sui trattati internazionali; tanto che nel 1978 la
Consulta respinse l’iniziativa radicale d’abrogare il Concordato.
Ri-dice: e in ogni caso i referendum consultivi non sono previsti
dall’ordinamento italiano, per le ragioni illustrate da Mortati in
Assemblea costituente: il popolo non dà consigli, il popolo decide.
Sicuro? Nel 1989 fu indetto un referendum consultivo sui poteri del
Parlamento europeo, in base a una legge costituzionale approvata per
quella specifica occasione. C’è dunque un precedente, prima o poi
qualcuno potrebbe rinverdirlo. Sia pure a costo d’un ulteriore
paradosso, perché ogni legge costituzionale può venire sottoposta al
voto popolare, prima della sua entrata in vigore: il referendum sul
referendum.
Morale della favola: non serve un esorcismo, bensì
un’esortazione. Questa: se il referendum esprime lo Zeitgeist, lo
spirito del nostro tempo, negarne la centralità è un po’ come riesumare i
treni a vapore per paura degli incidenti aerei. Così propone, per
esempio, Kenneth Rogoff ( Sole 24 Ore, 28 giugno), deprecando «la
roulette russa delle repubbliche», invocando super-maggioranze per la
validità dei referendum, consigliando di ripeterli almeno un paio di
volte quando il loro esito appaia indesiderabile. Curiosa, questa
concezione aristocratica della democrazia. Doppiamente curiosa, se
s’osserva che la Costituzione italiana (articolo 78) attribuisce a una
maggioranza relativa delle Camere — dunque del corpo elettorale — la
decisione più esiziale, quella d’entrare in guerra. No, non è un
bavaglio agli elettori che ci salverà dai referendum. Piuttosto
un’informazione più accurata, prima, durante e dopo. Ma il dopo è già
iniziato.