Repubblica 8.7.16
Il Pantheon di Virginia
di Filippo Ceccarelli
FINALMENTE
Roma ha la sua prima sindaca. Ma scettica e incuriosa com’è per natura e
vocazione, la città eterna reagisce all’ultimissima novità con il più
classico, rassegnato e forse perfino saggio dei suoi motti: « Staremo a
vede… », da pronunciarsi con smorfia dubitativa e occhi al cielo.
Oppure,
se si preferisce, ma sempre in dialetto, staremo « a vedé », là dove
l’acuto squillare dell’accento indica una ulteriore e più allegra
sospensione del giudizio nei confronti della giovane e fotogenica
signora che ieri pomeriggio, fra una rassettata e l’altra dei folti
capelli, ha promesso l’apertura del Campidoglio ai cittadini; ha usato
il superlativo «bellissima» tanto per Roma che per la Costituzione; ha
presentato all’universo mondo suo figlio piccolo e la sua «squadra » di
assessori come in entrambi i casi si sarebbe fatto in tv; ha quindi
richiamato due volte l’«umiltà», ma le è scappato — se non era previsto —
un imperioso «voglio», pure accompagnatosi a qualche tignosa
rivendicazione da prima della classe — «tengo inoltre a precisare» — sui
tempi in cui doveva nascere ed è nata, in effetti, la sua giunta a
cinque stelle.
Dei tanti che l’hanno preceduta sulla poltrona
d’inqualificabile colore nell’aula Giulio Cesare — i cui costosi lavori
di restauro causarono la seconda ondata di arresti nell’inchiesta Mafia
capitale — Virginia Raggi ha voluto ricordare Giulio Carlo Argan, il
grande storico dell’arte che per la verità mai riuscì a riscaldare « er
core de Roma», troppo freddamente piemontese com’era, e professorale.
Ma
con maggior intuitoRaggi ha evocato anche Luigi Petroselli,
soprannominato “Porsenna” per le sue origini etrusche (era di Viterbo),
che fu sindaco per soli due anni, ma che a favore di Roma, già
claudicante per una trombosi, si dannò l’anima e il corpo, una sigaretta
dietro l’altra, le dita ormai arancioni, fino a morirne, ma sul serio,
in servizio, stroncato da un secondo infarto durante un Comitato
centrale del Pci a Botteghe Oscure, giusto ai piedi della rocca
capitolina dove ieri si è celebrata tutto sommato con compostezza
l’ascesi femminile, giovanile e grillina. Era l’autunno del 1981e
Virginia aveva tre anni.
E forse è un peccato che dopo Argan e
Petroselli abbia dimenticato di menzionare il secondo sindaco comunista
(Argan essendo indipendente) di quella stagione. Si chiamava Ugo Vetere,
era un calabrese tosto e impetuoso, ma quel che oggi rischia di fare
più impressione è la sua frugalità, se solo si pensa che prima di
chiudere le valigie per andare a Parigi da Chirac si stirava le camicie
da solo. Altri tempi.
Poi Andreotti e la Democrazia cristiana si
ripresero Roma e sul colle salirono diverse figure di primi cittadini. A
ripensarli nella loro triplice e variegata complessità ci si sorprende
assai più cauti, in qualche modo anche più indulgenti. E allora fu il
tempo di Nicola Signorello, che il suo ribaldo compagno di andreottismo
Evangelisti gratificò del nomignolo «Pennacchione» per il trasporto che
il sindaco riservava alla pompa delle cerimonie. Era certo un signore
fin troppo educato, quasi etereo nel rivolgersi al prossimo, di
qualunque genere, con una specie di bisbiglio escusatorio che suonava
vagamente arabo: « Scùs — scùs- scùs... ». Meno buffo il suo
sbardelliano successore, Pietro Giubilo, più impegnativamente
ribattezzato « Er Monaco », che aveva da farsi perdonare un passato di
estrema destra e una situazione coniugale di separato, oltretutto non
per colpa sua; ma allora era un guaio maggiore di quanto sia oggi, e in
ogni caso la sua giunta cadde su una triste storia di minestrine
scolastiche (gestite, tanto per cambiare, da una coop para-ciellina, la
Cascina, di cui — ma guarda! — si trova traccia negli odierni impicci
del Mondo di mezzo).
Al posto del povero Giubilo fu dunque
insediato, per volontà del Caf, una singolare, si direbbe anfibia figura
di sindaco craxiano di rito andreottiano, il povero Carraro, che invano
si sforzò di spiegare alla cittadinanza di non essere milanese, come
tutti ancora continuano a credere con il dovuto sdegno, ma padovano. Il
crollo della Prima Repubblica cancellò ogni equivoca ibridazione, e come
annotato da Vittorio Gorresio fin dal 1970: «Uso costante di tutti i
sindaci della capitale» divenne «affermare che Roma è ingovernabile ».
Rutelli
e Veltroni, in realtà, provarono a rovesciare l’assioma e anche se
forse è ancora troppo presto per dirlo, e qualche errore certamente
fecero, in parte ci riuscirono. Ma Raggi ieri non li ha proprio
calcolati, come se nulla di loro fosse rimasto. Considerata l’opera
demolitoria dell’ineffabile Alemanno, che pure chiese solennemente la
benedizione papale sugli atti del Comune, il «modello Roma» non era così
solido; né parve troppo fortificarsi alla festa di compleanno (cfr.
«Cafonal») del suo demiurgo Bettini per la più alta, pregna e affettuosa
densità di costruttori e/o palazzinari per metro quadro. Poi Marino e «
vabbè »; infine Tronca-Stronca e « te saluto ». Adesso « anvedi » la
sindaca — basta che non fa troppo « a’ fanatica ».