Repubblica 8.7.15
Le lacrime di Chinyery, la compagna di
Emmanuel Chidi Nnamdi “Siamo scappati dopo la morte di nostro figlio,
qui sognavamo una nuova vita”
“Voglio incontrare quell’assassino so che voi italiani non siete come lui”
intervista di Giuliano Foschini
FERMO.
Un fazzoletto bianco ben stretto sulla testa. I piedi nudi. Un
pantalone rosso che fa fatica a tenersi, come gli occhi, come le gambe
che traballano a ogni parola. Si stende per terra e piange. Lo stesso
pavimento sul quale ha passato la notte nella speranza che Emmanuel,
prima o poi, tornasse. Non dovrebbe esistere nessun dolore grande come
quello di Chinyery. Lo sa anche Filomena, anzi suor Filomena, 29 anni,
bellissima, mentre l’accarezza. La stringe, passandole una mano sulla
fronte come è accaduto mercoledì sera quando tutti piangevano e Chinyery
ha detto: «Mettetevi in cerchio» e poi si è messa a cantare, anzi non
era un canto, «assomigliava a qualcosa che arrivava dal cielo», qualcosa
che partiva chissà da dove e arrivava ovunque. Una voce che si alzava e
diceva: «Dio perché?».
Chinyery, perché?
«Non lo so. Voglio
andare in carcere. Fatemi andare in carcere. Voglio guardare quell’uomo
in faccia, negli occhi e chiedergli perché? Perché mi hai fatto questo?
».
Conoscevate Mancini?
«Mai visto in questi otto mesi, da
quando siamo arrivati a Fermo. Eravamo usciti per comprare una crema per
il corpo. Passeggiavamo, quando all’improvviso quei signori hanno
cominciato a insultarmi. “Africans scimmia”, “africans scimmia”. Mi ha
preso, mi ha spinto, mi ha dato un calcio. Emmanuel mi ha difeso. Quel
segnale stradale l’ha preso l’uomo italiano, però, poi lo ha colpito. Ed
Emmanuel è caduto per terra».
Perché eravate in Italia?
«Vivevamo
in Nigeria. Ero studentessa al secondo anno di medicina, Emmanuel
lavorava. Avevamo un bambino di due anni e mezzo. Avremmo dovuto
sposarci, mancava meno di un mese. Poi una bomba di Boko Haram ha
distrutto tutto. Volevano colpire una chiesa. Hanno distrutto anche la
nostra casa: è morto il nostro bambino. Sono morti i genitori di
Emmanuel. Non avevamo niente eppure avevamo tutto. In quell’istante
abbiamo perso ogni cosa. Siamo scappati subito. L’Italia era un sogno,
volevamo trovare tutto quello che avevamo perso».
Com’è stato il viaggio?
«Un incubo. Quattro mesi passando da Niger e arrivando in Libia. Poi è accaduto una cosa bella ».
Cosa?
«Aspettavamo
un bambino, il nostro bambino. Eravamo partiti da soli, senza nessun
aiuto. E avevamo di nuovo trovato tutto: tutta quella fatica, tutto
quell’orrore aveva una giustificazione. Lo stavamo facendo per il nostro
bambino e per tutti gli altri che sarebbero arrivati. Non sapevamo che
invece eravamo soltanto all’inizio».
Siete partiti?
«Siamo
arrivati in Libia. Una notte sono entrati in casa degli uomini e hanno
messo tutto sottosopra. Hanno rubato e ci hanno picchiati
selvaggiamente. Io gridavo che aspettavo un bambino ma a loro non
importava. Hanno continuato a colpire. Sono andati via. E io ho
cominciato a perdere sangue».
Siete partiti lo stesso?
«Sì. E quelle perdite non si sono mai fermate. In mare sono durate quattro giorni. Siamo arrivati in Sicilia e poi a Fermo».
Interviene
Filomena, che la accarezza. È stata la prima ad accoglierla insieme con
le Piccole sorelle Jesus Caritas, l’ordine che qui a Fermo ha costruito
questo miracolo: dare una casa, che significa la costruzione di un
futuro, a questi 120 ragazzi che scappano dall’orrore: «Aveva
l’emorragia anche quando è arrivata qui. L’ho portata io in ospedale».
Il bambino non c’era più.
«È difficile fidarsi di qualcuno per quelli come me. Poi ho incontrato Don Vinicio e le suore. Sono i nostri Santi».
Avevate un sogno?
«Volevamo
sposarci. Lo abbiamo ripetuto all’infinito. Ma non avevamo i documenti.
E allora Don Vinicio ha esaudito il nostro più grande desiderio».
Sul
telefonino ha tutti gli articoli che parlavano della loro storia: «La
favola di Chinyery ed Emmanuel, scappati da Boko Haran trovano l’amore
in Italia». L’amore Chinyery, l’amore.
«E invece ieri... Il
dolore, ancora il dolore. Ora voglio portare Emmanuel in Nigeria, deve
dormire lì (Chinyery ha chiesto di lavare tutto il corpo di Emmanuel e
poi di bere quell’acqua)».
E lei?
«Io invece voglio tornare
in Italia a fare quello che avevamo deciso insieme: lo so che gli
italiani non siete così, questa è la nostra casa, ma spero che queste
persone abbiamo una sorta di punizione per quello che hanno fatto. Non
può rimanere tutto impunito. Non è possibile».
Arriva don Vinicio: «L’università di Ancona le ha offerto una borsa di studio per proseguire gli studi di Medicina».
«Ma
a me serve Emmanuel. Dov’è Emmanuel? Non eravamo marito e moglie. Ma
molto di più: esiste qualcosa che non è possibile separare?”, chiede.
Piange. Barcolla. A braccio la accompagnano nella sua stanza. Si alza
quella voce. Chinyery ha ripreso a cantare.