il manifesto 8.7.16
Il senso dell’onnipotenza
Dagli Usa a
Fermo. Il governatore del Minnesota scappa, i governanti dell’Italia
accorrono a Fermo a far vedere quanto sono solidali. Chissà dov’erano
quando quattro bombe sono scoppiate, nella stessa città di Fermo,
davanti a chiese colpevoli di ospitare migranti e rifugiati. Da noi è
meno marcato il senso dell’onnipotenza, ma coltiviamo accuratamente la
pianta della paura e siamo maestri nella pietà parolaia intrisa di
indifferenza
di Alessandro Portelli
Chissà se in
uno dei prossimi concerti Bruce Springsteen canterà “Devils and Dust”:
“ho il dito sul grilletto, non so di chi fidarmi, ho Dio dalla mia parte
e sto solo cercando di sopravvivere – la paura è una cosa potente,
prende la tua anima piena di Dio e la riempie di diavoli e polvere….”E’
la metafora di un’America che da un quarto di secolo sta collocata alle
crossoads fra onnipotenza e paura, con Dio dalla sua parte ma un mondo
ostile e sconosciuto tutto intorno… E’ l’America che fra onnipotenza e
terrore ha ucciso Calipari, e che fra onnipotenza e terrore continua gli
omicidi quotidiani di polizia (580 nel 2016 finora, cui almeno 100
afroamericani disarmati).
Era “visibilmente nervoso” e spaventato
il poliziotto del Minnesota che ha sparato a Philando Castile: gli hanno
insegnato che i neri sono tutti pericolosi, criminali e drogati, e che i
criminali drogati sono tutti armati. Perciò quando Castile ha ripetuto
il gesto che costò la vita ad Amadou Diallo (allungare la mano per
prendere il documento che gli aveva chiesto), ha dato per scontato che
stesse invece per prendere un’arma: come si può immaginare che un negro
abbia un portafoglio? Il poliziotto aveva paura; ma era anche armato e
quindi onnipotente: non capisco, ho paura, ma posso uccidere quello di
cui ho paura, e lo faccio. Per un portafoglio scambiato per una pistola,
Amadou Diallo fu crivellato da 41 colpi, per Philando Castile ne sono
bastati quattro.
Del senso di onnipotenza fa parte anche la quasi
certezza dell’immunità. Finora nessuno dei poliziotti responsabili di
uccisioni nel 2016 è stato punito. Dietro questa impunità c’è il senso –
condonato, se non sotterraneamente condiviso, nella cultura delle
istituzioni – che le persone di colore sono meno umane degli altri,
ucciderle è meno grave. Questo è il gesto che ha sancito la morte di
Allen Sterling in a Baton Rouge in Louisiana: un essere pensato come
subumano per la sua identità è reso ancora più degno di essere
schiacciato proprio dalla sua impotenza, lì a terra indifeso come un
insetto che ti invita a schiacciarlo (abbiamo visto una scena identica, e
finora identica impunità, anche a Hebron lo scorso marzo).
E
infine. Noi siamo governati da un parlamento che ha votato allegramente
(Partito “democratico” compreso) che chiamare “orango” una donna nera
(l’ex ministro Cécile Kyenge) “fa parte del discorso politico” e non è
un insulto. Anche qui, insomma, sono le istituzioni le prime a designare
i bersagli di violenza etichettandoli come subumani, meno meritevoli di
esistere.
Perciò se un fascista di Fermo chiama scimmia una donna
africana sopravvissuta a Boko Haram, si tratta tutt’altro che di un
pazzo e di un isolato, di uno che fa parte di una deviante e minoritaria
cultura ultrà, ma del portatore estremo di un senso comune che non
sfigurerebbe nel parlamento della Repubblica.
E se il marito della
donna offesa reagisce, allora l’aggressore è lui: i neri devono stare
al loro posto, prendersi ingiurie e insulti e stare zitti. Anche qui,
quando la vittima è a terra, l’assassino non si ferma, non è
soddisfatto, deve andare fino in fondo, deve schiacciare questo insetto
che da un lato ha la sfrontatezza di protestare e ti fa sentire
minacciato (ma senti come minaccia la sua mera presenza), e dall’altro
non ha la possibilità di colpire e ti fa sentire onnipotente.
Il
governatore del Minnesota scappa, i governanti dell’Italia accorrono a
Fermo a far vedere quanto sono solidali. Chissà dov’erano quando quattro
bombe sono scoppiate, nella stessa città di Fermo, davanti a chiese
colpevoli di ospitare migranti e rifugiati. Da noi è meno marcato il
senso dell’onnipotenza, ma coltiviamo accuratamente la pianta della
paura e siamo maestri nella pietà parolaia intrisa di indifferenza.
In
Louisiana e in Minnesota, gli afroamericani scendono in strada,
gridano, protestano, cercano di ricordarci che “Black lives matter”, le
vita nere contano negli Stati Uniti come nelle Marche. Ma fino a quando
continueremo a pensare che le vite dei neri contano solo per i neri, che
la Shoah sia un’offesa che riguarda solo gli ebrei, che la strage di
Orlando è una questione dei gay, che gli assassini di polizia e gli
assassini razzisti siano offese a una “razza” e non offese all’umanità –
fin quando la sollevazione contro queste schifezze non sarà universale,
anche la nostra rabbia non sarà che parole e polvere.