venerdì 8 luglio 2016

La Repubblica 8.7.16
Kyenge
“Ucciso dall’odio, io parte civile nel processo”
intervista di Vladimiro Polchi

ROMA – «Dietro la mano che ha ucciso Emmanuel c’è un fiume di parole d’odio razziale. Parole che rigurgitano dai social network, ma anche pronunciate da leader politici complici di alimentare la rabbia ». A parlare è Cécile Kyenge, ex ministro dell’Integrazione, oggi europarlamentare sotto scorta, che annuncia: «Mi costituirò parte civile nel caso di Fermo».
Il nostro sarebbe dunque un Paese razzista?
«No, ma le sacche di razzismo resistono. E solo pochi casi finiscono nelle cronache. Di solito infatti le vittime non denunciano offese e violenze, per paura delle conseguenze o anche solo per vergogna. Il dolore di perdere una figlia nell’attentato in una chiesa in Nigeria, i trafficanti di esseri umani, un lungo viaggio verso l’Italia: tutto questo non ha fermato Emmanuel e Chinyery, sorretti dal grande amore che provavano l’uno per l’altro. Ma li ha fermati l’odio. Non è stata follia, ma una rabbia orientata e nutrita a muovere la mano dell’assassino di Emmanuel».
Rabbia orientata da chi?
«Sono state parole d’odio razziale a rendere possibile quell’azione. Parole d’odio che ogni giorno traboccano anche dalla mia pagina Facebook, incuranti delle conseguenze. E su cui la politica non ha poche responsabilità. Bisognerebbe ripensare certi comportamenti, non sottovalutare i rischi, chiamare le cose con il loro nome e condannare i discorsi razzisti spesso usati in campagna elettorale. Le parole hanno un peso, nel giornalismo, così come nella politica. La presa di coscienza parte anche da qui. Chi ha un ruolo pubblico deve rispondere dei propri comportamenti».
Si riferisce al vicepresidente del Senato, Roberto Calderoli, che disse «quando vedo la Kyenge non posso non pensare a un orango»?
«Non solo. Tanti fomentano la paura. E per me le parole d’odio razziale non posso mai essere derubricate a critica politica. Quanto a Calderoli, dopo l’assoluzione del Senato, mi sono rivolta alla procura di Bergamo e ora il caso è davanti alla Corte costituzionale».
©RIPRODUZIONE RISERVATA Non è stata follia, ma una rabbia nutrita e orientata a muovere la mano del killer