Repubblica 7.7.16
Dai Beatles alla Brexit
di Ian Buruma
ESSENDO
 anglo-olandese, in quanto figlio di madre britannica e padre olandese, 
la Brexit non poteva non toccarmi da vicino. E pur non considerandomi un
 irriducibile euro-entusiasta, ho l’impressione che senza la Gran 
Bretagna l’Ue abbia perso un arto in seguito a un terribile incidente.
Non
 tutti i miei connazionali sono rimasti delusi. Il demagogo olandese 
Geert Wilders, contrario all’Ue e ai musulmani, ha scritto in un tweet: 
«Complimenti ai britannici. Adesso tocca a noi». Un sentire che è più 
allarmante del futuro dell’economia del Regno Unito. L’impeto 
distruttivo può essere contagioso.
L’immagine
 della Gran Bretagna è cambiata dalla sera alla mattina. Per oltre 
duecento anni la Gran Bretagna aveva rappresentato una certa idea di 
libertà e tolleranza, o così almeno era vista da molti europei. Gli 
anglofili dell’Occidente la ammiravano per molte ragioni: l’apertura nei
 confronti dei rifugiati provenienti da regimi continentali illiberali, 
il fatto che un uomo di origini ebraiche sefardite (Benjamin Disraeli) 
fosse diventato primo ministro, e il modo in cui, nel 1940, il Paese si è
 opposto, praticamente da solo, a Hitler. Lo scrittore Arthur Koestler, 
ungherese di nascita ed ex comunista, conobbe da vicino le catastrofi 
politiche europee e fu quasi giustiziato dai fascisti spagnoli. Nel 1940
 trovò rifugio in Gran Bretagna, e in seguito definì il suo Paese di 
adozione «una sorta di Davos per quei reduci a cui il totalitarismo ha 
inflitto delle ferite interiori».
La
 mia generazione, venuta alla luce non molto tempo dopo la guerra, è 
cresciuta con dei miti che si basavano sulla verità e si propagavano 
attraverso i fumetti e i film di Hollywood. Miti in cui gli Spitfire 
colpivano i Messerschmitts sopra i cieli dei rispettivi Paesi, Winston 
Churchill ringhiava sprezzante e i suonatori di cornamusa scozzesi 
marciavano sulle spiagge della Normandia.
L’immagine
 della Gran Bretagna in quanto Paese della libertà fu ulteriormente 
consolidata dalla cultura giovanile degli anni Sessanta. Tra i giovani, i
 Beatles, i Rolling Stones e i Kinks si sostituirono ai piloti degli 
Spitfire in quanto simbolo di libertà, e travolsero l’Europa e gli Usa 
come una ventata di aria fresca. Avere una madre britannica mi riempiva 
di orgoglio. Malgrado il declino industriale, l’indebolirsi 
dell’influenza nel mondo e delle prestazioni calcistiche, la Gran 
Bretagna per me rimaneva sempre la migliore.
Esistono
 naturalmente molti motivi per cui il 52 per cento dei voti sono andati a
 favore della Brexit. Le vittime del declino industriale hanno ottime 
ragioni per ritenersi danneggiate: né la sinistra né la destra hanno 
agito nell’interesse della vecchia classe operaia. Coloro che, dopo 
essere stati lasciati indietro dalla globalizzazione e dal Big Bang di 
Londra, si lamentavano che gli immigrati rendessero più difficile la 
ricerca di un lavoro, sono stati troppo spesso messi a tacere e accusati
 di razzismo.
Tuttavia
 ciò non basta a giustificare la preoccupante corrente di nazionalismo 
inglese che l’Ukip di Nigel Farage ha sobillato e i ben più eleganti 
esponenti pro-Brexit del Partito Conservatore hanno cavalcato. Il 
nazionalismo inglese che si alimenta delle paure e dell’avversione per 
gli stranieri ha preso piede in zone dove di stranieri se ne vedono di 
rado. Londra, dove vive la maggior parte degli stranieri, ha votato per 
rimanere, mentre la Cornovaglia, una contea rurale che ha tratto enormi 
vantaggi dai sussidi dell’Ue, ha votato per l’uscita.
Per
 un europeo della mia età e del mio orientamento, la beffa più nauseante
 nasce dal constatare la frequenza con cui un nazionalismo gretto trova 
tanto spesso espressione. L’intolleranza nei confronti degli immigrati 
si ammanta dei simboli stessi di quella libertà che noi, crescendo, 
ammiravamo.
I
 più radicali dei pro-Brexit — con la testa rasata e la bandiera 
nazionale tatuata — non hanno un aspetto molto diverso dagli hooligans. 
Ma le raffinate dame e i gentiluomini che risiedono nelle contee della
Little
 England e hanno fatto il tifo per Farage e Boris Johnson non appaiono 
meno inquietanti. Secondo loro, l’uscita dall’Europa è una questione di 
libertà. Dopo tutto, dicono, «Bruxelles è una dittatura», e i britannici
 si battono per la democrazia. Dicono che milioni di europei danno loro 
ragione.
È
 vero che molti europei condividono quell’opinione, ma nella maggior 
parte dei casi si tratta di seguaci di Marine Le Pen, Geert Wilders e di
 altri istigatori populisti che promuovono plebisciti per mettere a 
rischio governi eletti e cavalcano le paure e il risentimento popolari 
per farsi strada.
L’Ue
 non è una democrazia, né finge di esserlo. Tuttavia le decisioni 
europee vengono prese da governi nazionali sovrani, in seguito a 
dibattiti infiniti. Un processo che è spesso opaco, e lascia molto a 
desiderare. Ma smantellando le istituzioni che furono cautamente create 
sulle rovine dell’ultima, disastrosa guerra europea non si contribuirà a
 tutelare le libertà degli europei.
Se
 la Brexit innestasse in tutta Europa una rivolta contro le élite 
liberal, la Gran Bretagna si troverebbe per la prima volta nella storia a
 capo di un’ondata di illiberalità in Europa. Sarebbe una grande 
tragedia per il mondo intero, dove la maggioranza delle potenze già si 
sta avviando verso una politica illiberale.
Infine,
 appare ironico che l’ultima speranza per invertire la tendenza e 
tutelare delle libertà stia probabilmente nelle mani della Germania: il 
Paese che la mia generazione odiava perché simbolo di tirannia 
sanguinaria. Eppure i tedeschi sembrano aver appreso la lezione della 
storia meglio di una preoccupante percentuale di cittadini britannici.
(Traduzione di Marzia Porta)
 
