Repubblica 7.7.16
Il far west delle regole
di Roberto Toscano
SE
ci si dovesse fermare allo stile e al linguaggio, il Rapporto Chilcot
sulla partecipazione del Regno Unito all’attacco del 2003 all’Iraq
potrebbe sembrare un’ennesima conferma dell’understatement britannico. È
infatti formulato in modo da evitare una netta condanna dell’operato
del primo ministro Blair, e secondo alcuni primi commenti gli si
attribuirebbero una sorta di frettolosità e carenza di ponderazione.
DA
una lettura più sostanziale, invece, appare del tutto evidente che dopo
questo rapporto sarà estremamente difficile contestare che nel 2003
Tony Blair abbia preso una gravissima decisione sulla base di false
premesse e con conseguenze pesantemente negative. Dimostrando ancora una
volta un atteggiamento piuttosto disinvolto nei confronti della realtà
fattuale, Blair ha commentato la pubblicazione del rapporto insistendo
sul fatto che in nessun modo esso metteva in dubbio le sue buone
intenzioni.
Lasciando
da parte understatement e falsificazioni insopportabili soprattutto di
fronte ad eventi politicamente e umanamente disastrosi, dovrebbe essere
consentito a questo punto di esprimere un giudizio molto netto. Sulle
conseguenze di quella guerra non ci sono dubbi: gli iracheni, ma non
solo loro, stanno ancora pagando — e non si sa per quanto tempo
continueranno a farlo — le conseguenze della distruzione dello stato e
il passaggio da una tremenda dittatura a una feroce anarchia settaria,
senza parlare degli effetti destabilizzanti sull’intera regione medio-
orientale del collasso dello stato iracheno. Ma, visto che Tony Blair
parla di buona fede e cerca di scindere le sue (buone) intenzioni dai
(pessimi) risultati, vale la pena di analizzare i contenuti del Rapporto
Chilcot dal punto di vista di quei principi sia etici che giuridici cui
l’ex Primo Ministro britannico ama riferire il proprio comportamento di
uomo politico. Blair ama definirsi un cristiano in politica, e quindi
risulta del tutto legittimo applicare alla sua decisione di affiancarsi a
George Bush (nei cui confronti assicurava pochi giorni prima
dell’attacco totale e incondizionata subordinazione) nell’attacco
all’Iraq i criteri della “guerra giusta”. Criteri che, originariamente
fondati sugli scritti di S. Agostino, sono diventati attraverso una
lunga elaborazione dottrinale uno degli elementi qualificanti della
dottrina cristiana sulla guerra. Negli ultimi anni i criteri della
guerra giusta sono ridiventati attuali nel quadro del dibattito
sull’intervento umanitario, ed infatti il testo più avanzato della
teoria dell’interventismo umanitario — il rapporto del 2001 sulla
“Responsabilità di proteggere” — li riprende e conferma sostanzialmente.
Vediamoli.
Il
primo requisito perché una guerra venga considerata giusta è che sia
dichiarata “dalla legittima autorità”. Nel 2003, come noto, il Consiglio
di sicurezza delle Nazioni Unite, che il citato rapporto del 2001
identifica come legittima autorità nell’attuale sistema internazionale,
rifiutò di dare la propria approvazione. Un’azione bellica, tuttavia, è
da ritenersi legittima non solo nell’ipotesi che venga autorizzata da
una risoluzione del Consiglio di sicurezza ma anche, secondo l’art. 51
della Carta dell’Onu, sulla base del diritto all’autodifesa. Si passa
qui ad un altro dei criteri: la giusta causa. È un criterio che punta ad
escludere il passaggio all’uso della forza armata sulla base di
motivazioni carenti di credibilità in termini dell’entità del male da
evitare. L’articolo 51 non lascia molti dubbi al riguardo quando dice
che un’azione militare individuale viene giustificata «nel caso che
abbia luogo un attacco armato», e non certo sulla base delle presunte
intenzioni aggressive dell’avversario. Il mondo non sarebbe certo più
sicuro se si arrivasse a legittimare, ispirandoci ai film western, un
uso facile della pistola contro chi ha una brutta faccia e una pessima
reputazione. Il presunto programma di Saddam per lo sviluppo di armi
nucleari, in ogni caso, non costituiva certamente un attacco armato — e
anzi, non esisteva. Vengono in mente le parole di Hans Blix, capo delle
ispezioni Onu in Iraq, quando dopo la guerra rispose a chi gli chiedeva
se americani e inglesi avessero falsificato i dati sulla minaccia
nucleare irachena: «Il fatto è che i punti interrogativi sono stati
trasformati in punti esclamativi », mentre chi era all’epoca
responsabile dell’MI6 ha così descritto in un suo rapporto — che
smentiva anticipatamente le attuali dichiarazioni di Blair
(«l’intelligence non è stata falsificata») — quello che avvenne nel
2003: «L’intelligence e i fatti venivano aggiustati attorno alla linea
politica».
Un
altro criterio della guerra giusta — ripreso dal documento sulla
Responsabilità di proteggere — si riferisce all’esigenza che la guerra
sia considerata soltanto come una extrema ratio, e venga decisa solo
dopo che tutti gli altri mezzi siano stati seriamente esperiti e si
siano rivelati insufficienti. In altri termini, vista la gravità delle
conseguenze e del costo umano della guerra, la soglia dell’intervento
deve essere molto alta. Ma non basta. Vi è uno dei criteri in cui la
riflessione etica si ricongiunge con quella politica. Si tratta della
necessità di riflettere responsabilmente, prima di decidere di passare
all’uso della forza militare, sull’esistenza di concrete prospettive di
successo. Successo, nel caso dell’Iraq, non poteva ovviamente
significare la sconfitta militare di Saddam — impossibile da mettere in
dubbio in vista della sproporzione delle forze in campo — ma il
perseguimento dell’obiettivo più volte dichiarato, quello di contribuire
alla creazione di un Iraq stabile e democratico. Come scrive il
rapporto Chilcot, le conseguenze della guerra, invece, non sono state
adeguatamente soppesate.
Su
questo punto non è chiaro se, sia nel caso di Bush che in quello di
Blair, fossero prevalenti la malafede o l’assenza di lungimiranza
poltica. Probabilmente una combinazione di entrambe. Quello che è certo è
che un minimo di senso di responsabilità, sia politica che morale,
avrebbe dovuto sconsigliare quella disgraziata decisione. Non possiamo
dimenticare che invece fu in quella fase che a Washington e a Londra
prevalse un atteggiamento sprezzante nei confronti di quella che agli
inizi del 2003, di fronte alle riluttanze di Germania e Francia ad
accodarsi al progetto di un attacco, il Segretario alla Difesa Rumsfeld
definì allora «vecchia Europa».