Repubblica 6.7.16
La strada nuova dell’equità
di Marco Ruffolo
NON
per cassa ma per equità. La sentenza con cui ieri la Consulta ha
promosso il contributo di solidarietà sulle pensioni oltre 91 mila euro,
introdotto da Enrico Letta per i tre anni dal 2014 al 2016, potrebbe
riassumersi così, con lo stesso titolo che il presidente dell’Inps Tito
Boeri riservò alla sua proposta del novembre scorso, diventata subito
una specie di pietra dello scandalo. La sentenza di ieri giustifica in
sostanza sacrifici a carico di pensionati agiati ma pone una condizione
fondamentale.
CHE I SACRIFICI siano destinati a raddrizzare
squilibri e disparità di trattamento all’interno del settore. È il caso
del prelievo Letta, finalizzato all’emergenza esodati, rimasti senza
lavoro e senza pensione. Ma in futuro potrebbe essere il caso della
proposta targata Inps, alla quale la decisione dei giudici sembra
offrire nuove chance, almeno sul piano costituzionale.
Nel
documento di Boeri si chiede uno sforzo finanziario a quei pensionati
che ricevono tuttora assegni molto più ricchi di quelli versati come
contributi durante la loro vita lavorativa. Lo sforzo per riallineare le
prestazioni ai contributi consisterebbe in un blocco degli aumenti per
le pensioni da 3.500 a 5 mila euro, in tagli oltre i 5 mila e in
sforbiciate ancora più forti ai vitalizi dei parlamentari. Con questi
risparmi si potrebbero aiutare lavoratori over 55 in povertà e giovani
privi di un dignitoso futuro pensionistico. Non si tratta di un obolo
fiscale imposto alla cieca tra i pensionati sopra un certo reddito, come
fu quello introdotto da Berlusconi, rafforzato poi da Monti e infine
puntualmente bocciato dalla Corte Costituzionale perché come tributo
avrebbe dovuto gravare su tutti i cittadini e non solo sui pensionati.
Il contributo proposto da Boeri, ancor di più di quello di Letta, non si
prefigge di far cassa ma di ridurre sperequazioni che si sono
accumulate in decenni di non interventi. Vuole chiedere di più a chi ha
avuto e continua ad avere oltre il dovuto.
Il problema è che
l’estrema lentezza con cui si è deciso di passare in Italia dal sistema
retributivo (pensioni calcolate in base alle ultime retribuzioni) a
quello contributivo (pensioni in base ai contributi) ha creato negli
ultimi decenni lampanti disuguaglianze tra i pensionati, attuali e
futuri. Chi è rimasto con il vecchio sistema ha potuto andarsene in
pensione di anzianità con trattamenti che per circa un terzo non sono
giustificati dai versamenti fatti. E così negli anni 2000, hanno scritto
tempo fa in un articolo Tito Boeri, Stefano e Fabrizio Patriarca, si è
permesso a tre milioni di persone di uscire dal lavoro in media a 58
anni di età e con assegni superiori ai 2 mila euro mensili. Certo, non
siamo di fronte a pensioni d’oro, tutt’altro. Ma l’importo è comunque
più del doppio degli assegni di vecchiaia liquidati negli stessi anni.
Ad acuire le disparità intervengono poi i regimi speciali dei più
disparati fondi e gestioni, i cui privilegi sono stati eliminati troppo
tardi e in misura troppo parziale, cosicché i loro pensionati continuano
a goderne tuttora i frutti.
Alla fine, questo accumularsi di
squilibri, sostengono gli stessi autori, «ha prodotto una grande
redistribuzione del reddito dal basso verso l’alto». Questo non
significa che tra le pensioni di anzianità liquidate negli ultimi anni
non vi siano anche quelle di ex operai, che magari hanno cominciato a
lavorare molto presto. Ma sul milione di persone uscite dal lavoro prima
della vecchiaia tra il 2008 e il 2012, solo il 18% è costituito da ex
dipendenti privati con meno di 1.500 euro al mese. Il 31% sta sopra
quella soglia e sale al 55% se si includono anche dipendenti pubblici e
autonomi. Dunque, è su questa platea relativamente agiata che l’Inps
propone di intervenire per ripristinare un minimo di equità. Ma non
appena qualcuno osa accennare a contributi di solidarietà, si leva il
coro indignato dei difensori dei “diritti acquisiti”. Il governo –
dicono - non può tradire il contratto stipulato con i pensionandi: è
sulla base di quell’importo previsto che quei lavoratori hanno
programmato il loro futuro pensionistico. Chi dà alla politica il
diritto di stracciare quel contratto ricalcolando l’importo in base a
semplici ipotesi contributive? Ma si potrebbe rispondere con un’altra
domanda: chi ha dato il diritto ai legislatori in tutti questi anni di
ridurre i benefici futuri dei più giovani tanto da costringerli ad
andare in pensione anche a 75 anni con la metà degli assegni dei padri? E
ancora: chi e perché ha consentito che milioni di persone lasciassero
il lavoro con trattamenti solo in parte giustificati dai loro
contributi?
Con la sentenza di ieri, il tema dell’equità
pensionistica, ignorato per anni, torna alla ribalta e può aspirare
anche a ricevere una sua legittimità costituzionale. Ma è sul terreno
politico, come sa bene lo stesso Boeri, che sono disseminati gli
ostacoli maggiori, creati da chi, anche all’interno della stessa
maggioranza e del governo, preferisce dare una interpretazione dei
diritti acquisiti che salva i pensionati più fortunati e ignora gli
altri.