Repubblica 6.7.16
Il grande disordine democratico
di Massimo L. Salvadori
IL
REPUBBLICANO Machiavelli ben conosceva quali fossero gli argomenti
degli oligarchi contro il governo popolare: essere follia affidare alla
massa, composta dagli strati inferiori della società, i meno dotati di
mezzi culturali e materiali, il potere superiore a tutti, la possibilità
di contribuire a decidere delle sorti di uno Stato. Commentava nei suoi
Discorsi che è vero che «il popolo molte volte ingannato da una falsa
immagine di bene desidera la rovina sua», che il pericolo massimo lo si
ha «quando la sorte fa che il popolo non abbi fede in alcuno, come
qualche volta occorre, sendo stato ingannato per lo addietro o dalle
cose o dagli uomini»: allora «si viene alla rovina di necessità».
Continuava sottolineando «l’inutilità di una moltitudine» senza buoni
capi. Ed ecco il rimedio che indicava: la combinazione della difesa dei
diritti del popolo e la protezione dei suoi bisogni con la presenza di
leader capaci e probi. Secoli dopo, Mazzini — edotto dalle drammatiche
traversie del suffragio universale nella Francia tra il 1848 e il 1852 —
riprendeva nella sostanza le riflessioni di Machiavelli. Era un
fervente democratico, ma capace di guardare a sua volta con lucidità al
nocciolo del problema già posto dal fiorentino. Scriveva: «Date il
suffragio a un popolo che non vi è preparato» e la conseguenza sarà che
«esso lo metterà in vendita o ne farà un cattivo uso, verrà introdotta
l’instabilità in ogni parte dello Stato; diventeranno impossibili quelle
grandi concordanze di opinioni, quei progetti per il futuro, che
rendono la vita di una nazione forte e progressiva». La «grande e bella
insegna» della democrazia è l’educazione delle masse da parte di una
classe politica all’altezza dei compiti della direzione della cosa
pubblica, è «il progresso di tutti per opera di tutti sotto la guida dei
migliori e dei più saggi ».
Siamo in preda in Italia, in Europa,
in America e nel mondo ad un grande disordine democratico. Dovunque, in
misura maggiore o minore, assistiamo al ritorno sulla scena di demagoghi
che puntano sul populismo, all’emergere di élite politiche sentite
dalle masse come chiuse e sorde, alla predicazione di soluzioni
semplicistiche e promesse miracolistiche, al consolidarsi di dominanti
oligarchie economiche cui corrisponde una enorme crescita delle
diseguaglianze di potere, sapere e reddito, che inducono i ceti
impoveriti a voltare le spalle alle forze politiche da cui si sentono
deluse e a rivolgersi a quelle ritenute capaci di dare risposte al loro
malcontento. Negli Stati Uniti il sistema è in mano vuoi delle dinastie
presidenziali vuoi dei demagoghi come Trump, in Europa abbiamo, le due
Le Pen, gli Hofer, i Salvini, gli Orbán, i Farage, ecc. Gli orientamenti
e le scelte degli elettori — lo vediamo dopo l’esito del voto sul
Brexit e delle elezioni presidenziali in Austria — hanno ravvivato il
dibattito su virtù e vizi della masse popolari. È chiaro che la voce del
popolo non è la voce di Dio. È la voce della somma degli individui che
li compongono, il prodotto del grado e del tipo di cultura, delle
preferenze soggettive che si sommano e delle scelte che ne derivano, che
poi inducono gli eletti a esaltare o deprecare la coscienza del popolo.
Così è sempre stato. Ma nei tempi in cui viviamo qualche cosa di
qualitativamente nuovo si è affacciato all’orizzonte e si è imposto.
Quando, a partire dalla seconda prima metà dell’Ottocento, il suffragio
andò a mano a mano estendendosi fino a diventare universale, i nuovi
partiti di massa dei diversi orientamenti accompagnarono il processo,
organizzarono le schiere crescenti degli iscritti e degli elettori,
costituirono sedi permanenti sul territorio divenute luoghi di
socializzazione e di discussione, si dotarono di una gerarchia che dal
basso arrivava alle élite passando attraverso una struttura di quadri
intermedi. Le masse informi presero così forme, e andarono al voto con
programmi e guidate da leader — non pochi dei quali usciti dalle file
delle stesse masse — nella maggioranza di notevole e spesso alta statura
intellettuale, capaci di tenere discorsi e di scrivere saggi e libri
importanti. Per carità! Non era la sovranità del popolo vagheggiata da
Rousseau, ma nondimeno una partecipazione alla cosa pubblica di un
popolo orientato e diretto da capi, come chiedeva Machiavelli. Oggi il
popolo è disperso, come abbandonato; i partiti sono le ombre del loro
passato; e, divenuti liquidi, lasciano liquide le masse, che guardano da
una parte e dall’altra in preda a rapidi e ampi ondeggiamenti,
immiserite dai messaggi che ricevono da leader scadenti, chiacchieroni,
molti dei quali incapaci di tenere la penna in mano. Non tutti, per
fortuna, ma certo la gran parte. La coscienza del popolo — come ha
spiegato magistralmente Sartori — si forma (o deforma) ormai soprattutto
di fronte agli schermi televisivi. È in tutto ciò la sostanza del
grande disordine democratico in atto. Come e quando si possa porre
rimedio ad esso, chi scrive non presume di saperlo. Ma di una cosa
possiamo essere sicuri. Se non rinasceranno partiti organizzati ed
educatori, se non si ricostituiranno élite politiche e leader degni di
questo nome, la notte della democrazia, realisticamente intesa alla
Schumpeter (e quale altra?), è destinata a oscurare le nostre società,
come è già capitato tra le due guerre mondiali e oltre. La qualità della
coscienza del popolo è inevitabilmente lo specchio di quella di chi
sarebbe chiamato a plasmarla.