Repubblica 4.7.16
L’ultima ideologia antagonista che converte i giovani borghesi
Il senso di appartenenza comunitaria dà certezza nel tempo fluttuante della modernità liquida
La spiegazione della jihad basata sul binomio disagio economico e madrase non regge
di Renzo Guolo
La
violenza semplifica ciò che è complesso. Le differenze vengono azzerate
non in nome di diversi rapporti sociali, ma della fede. Il radicalismo
diviene bussola nell’incertezza
CHI sono gli assassini di Dacca?
Chi sono socialmente, al di là dell’appartenenza o meno all’Is o a
Jaamaatul Mujahidin Bangladesh, gruppo da anni protagonista del
magmatico panorama radicale locale? Ora nomi, volti, biografie di quei
«giovani fuori controllo» — così li ha definiti minimizzando un alto
grado della polizia prima del drammatico blitz all’Holey Artisan Baker —
, sono noti. E solo chi non conosce il fenomeno islamista radicale può
stupirsi davanti alla notizia che si tratta di “ragazzi di buona
famiglia”. Una rivelazione che decostruisce stereotipi assai resistenti,
nonostante i precedenti di Bin Laden, Zawahiri, Atta, Awlaki. Solo per
restare a alcuni nomi assai noti, anch’essi di famiglie agiate.
Lo
stupore è dato dal fatto che il Bangladesh rimanda a un immaginario da
periferia industriale globale, a un termitaio popolato dal nuovo
lumpenproletariat del Terzo mondo senza diritti. O a un luogo in cui il
fondamentalismo di massa prodotto delle scuole religiose ispirate al
purismo wahhabita, finanziate dai paesi del Golfo, ha creato allievi
ricettivi al discorso estremista. Istantanee realistiche ma, come ogni
paese, anche quello asiatico ha le sue classi ricche. E a quelle
appartenevano gli sgozzatori di Dacca.
Le spiegazioni basate sul
binomio disagio sociale e madrase, povertà e religione declinata in
maniera intransigente non reggono, dunque, all’esame delle biografie dei
mujahidin in nero e kefiah immortalati estaticamente in Rete. Non
perché esse siano sempre errate. Simili letture funzionerebbero nella
banlieue parigina o a Molenbeek, oppure nelle aree tribali del
Waziristan. Ma se, caso per caso, queste chiavi di lettura possono
essere valide, trarre da esse conclusioni generalizzabili sarebbe
errato.
Le biografie degli jihadisti di Dacca, buone scuole
private e buone università, famiglie abbienti e influenti alle spalle,
vite, sino a un certo punto, da “ragazzi normali”, ci dicono che,
nell’Asia del Sud come in Europa, in Medioriente come negli Usa, ciò che
muove migliaia di giovani dai profili sociali troppo diversificati per
dare una spiegazione monocausale alle loro scelte, non è, solo, la
privazione sociale o una particolare educazione religiosa. Ma l’adesione
a un’ideologia totalizzante come quella islamista radicale che appare
ai molti scontenti della globalizzazione, a quanti sono alla ricerca di
un’identità, ai critici dei sistemi politici esistenti, l’ultima grande
narrazione antagonista.
Una concezione del mondo che ambisce a
farsi mondo. Attraverso l’uso di una violenza che, nella sua estrema
volontà di potenza, semplifica ciò che è complesso. Un ‘ideologia che
predica la fine delle differenze non in nome di diversi rapporti sociali
ma della comunanza di fede, di una interpretazione della politica
fondata sulla categoria del Nemico, della condivisione della militanza.
A
Saint-Denis come a Gulshan, quell’ideologia è vissuta come
intransigente rottura con la cultura nella quale quei giovani sono stati
socializzati. La fascinazione viene anche dal fatto che essa produce
appartenenza comunitaria. Un cerchio caldo nel quale i legami sociali
sono assai forti. L’islam radicale appare, inoltre, a quei giovani come
una bussola capace di orientarli nei meandri di una vita quotidiana
caratterizzata dall’incertezza, poco importa se economica o
esistenziale. Come un magnete in grado di evitare oscillazioni forti, di
stabilire ciò che è Bene e Male, lecito e illecito, di offrire
granitiche certezze nel tempo fluttuante della Modernità liquida e della
globalizzazione spaesante. E che consente di perseguire il riscatto
individuale, qui e nell’Aldilà, persino nel trovare la morte
infliggendola agli altri. Per questo, al di là della prevedibile
sconfitta dell’esperienza statuale dell’Is, il ciclo radicalismo
islamista potrebbe durare ancora lungo. Le utopie mobilitanti, sia pure
nel loro carattere regressivo e sanguinario, possono rivelarsi difficili
da battere con soli strumenti militari. Tanto meno attraverso la
prepolitica categoria dell’infatuazione usata dal governo bengalese per
tentare di spiegare quanto è accaduto.