Repubblica 3.7.16
Gli intellettuali contro la democrazia
di Nadia Urbinati
BREXIT
ci ha catapultato indietro di svariati decenni, quando scrittori e
uomini di cultura teorizzavano il dispregio per la “democrazia”, a tutti
gli effetti ancora il nome di un pessimo governo perché governo degli
ignoranti, di chi non sapeva capire il “vero” interesse del paese perché
non aveva beni da difendere o carriere da coltivare. Così pensava per
esempio François Guizot, un ministro liberale francese di metà
Ottocento, che ebbe il nostro Mazzini come oppositore e con lui tutti i
fautori del suffragio universale. Dopo il referendum britannico per
l’uscita dall’Unione europea, sembra di assistere a un refrain di simili
posizioni.
Nei blog e negli articoli su riviste online inglesi e
americani che circolano numerosi in questi giorni si verifica uno
straordinario fenomeno di reazione degli acculturati contro gli
“ignoranti”. La questione interessante non è, ovviamente, quella della
veridicità o meno di questa affermazione — quanta ignoranza serve a fare
un ignorante e quanta informazione a fare un competente in preferenze
elettorali è una di quelle domande alle quali nessun politologo può dare
risposta certa. Quel che è interessante è che ritorni a farsi strada
nell’opinione del mondo l’idea che il suffragio universale equivalga a
governo degli ignoranti, che i molti (generalmente poveri e non
acculturati) blocchino le possibilità a chi potrebbe espandere le
proprie capacità. La società della meritocrazia si rivolta contro la
società dell’eguaglianza e prova a far circolare l’idea che la
competenza, non l’appartenenza alla stessa nazione, debba consentire
l’accesso alla decisione politica.
Le avvisaglie della rivolta
delle élite nel nome della competenza e dell’interesse si manifestano
del resto anche nel campo della ricerca: tra le teorie della democrazia
che oggi attraggono molto l’attenzione degli studiosi vi è quella che
prende il nome di “teoria epistemica”, l’idea cioè che la democrazia sia
buona non perché ci rende liberi di partecipare alle decisioni e di
cambiarle, ma perché le sue procedure — se opportunamente usate —
producono decisione buone o giuste. Per esempio, restare in Europa
sarebbe stata la decisione giusta se a usare la procedura del voto ci
fossero stati cittadini informati. Il fatto che abbia vinto Brexit
significa non che le procedure siano sbagliate ma che per ben funzionare
dovrebbero essere usate da chi meglio può usarle.
Certo,
ammettono i teorici della “democrazia competente”, tutti sono
potenzialmente capaci di ragionare e in questo senso l’inclusione
universale nella cittadinanza non è messa in discussione. Il problema è
che non tutti hanno, per le più svariate ragioni, potuto coltivare le
loro qualità intellettuali, non solo perché hanno deciso di interrompere
la loro educazione ma perché hanno scelto di non informarsi bene. Per
il momento, il ragionamento sulla democrazia competente si interrompe
qui. Senonché, come si evince dai commenti di questi giorni, qualcuno
potrebbe completarlo così: ci sono alcune decisioni, quelle che
richiedono una dose di conoscenza e riflessione maggiore, che non
possono essere prese da tutti, e soprattutto da coloro che per loro
scelta si sono resi incompetenti. Questo argomento antidemocratico trova
oggi uno spazio preoccupante.
La rivolta delle élite contro la
democrazia è una realtà che conferma la brillante e solitaria diagnosi
fatta da Christopher Lasch in The Revolt of the Elite del 1995. Attento
studioso dei mutamenti politici e di costume nell’America di Carter e
Reagan, Lasch documentò la crescita di quella che egli stesso definì “la
società del narcisismo” e della conseguente disaffezione nei confronti
della richiesta popolare di eguaglianza. Le classi privilegiate,
scriveva, sono fortemente attaccate alla nozione della mobilità sociale e
dell’apertura delle frontiere; quelle svantaggiate sono al contrario
timorose di entrambe. I nuovi benestanti alimentano un’idea che è in
forte tensione con la democrazia medesima: quella della “democrazia
della competenza” contro la “democrazia dell’eguaglianza”, quella di una
cittadinanza basata sull’eguale accesso alla competizione economica
invece che sull’eguale potere nella partecipazione alla vita collettiva e
politica. Divelta la centralità del lavoro, sembra che lo scopo della
democrazia sia diventato quello di emancipazione dalla condizione di
lavoro manuale, invece che dell’eguale distribuzione del potere di
decidere sulle regole del lavoro e di chi lavora.
Emanciparsi dal
lavoro e lasciare il lavoro agli ignoranti: «È elitario dire questo ad
alta voce?”, si chiede un blogger inglese. Ci si deve «vergognare» ad
ammettere che non tutti abbiamo gli stessi interessi da difendere? «Ci
si deve reprimere dal pensare che è per il bene di tutti che le ragioni
della conoscenza e della competenza dovrebbero avere più attenzione?».
Sono gli ignoranti che hanno paura degli altri, che si innamorano del
nazionalismo, che sono angosciati dalla globalizzazione. Allora, perché
lasciare che essi partecipino a decisioni che mettono in discussione il
nazionalismo e che vogliono tenere aperte le frontiere con l’Europa? È
Michael Pascoe sulla rivista “Business Day” che propone queste
osservazioni radicali appellandosi, appunto, ad una «democrazia della
competenza» e chiedendosi se è davvero «reazionario» denunciare
«l’idiozia delle masse». Ancora una volta, dopo Brexit, in nome della
democrazia si dice in sostanza che la democrazia è un pessimo governo.